Introduzione
Questa tesi di laurea si propone come un contributo di natura prevalentemente teorica
sui meccanismi e i processi mentali che regolano la comunicazione umana. Lo scopo
principale è quindi quello di porre a sistema diverse ipotesi, cresciute nel grande alveo
delle scienze cognitive, riguardanti il funzionamento della cognizione umana, e
suggerire una possibile visione d’insieme delle modalità attraverso cui gli esseri umani
organizzano e condividono la loro rappresentazione del mondo. Il netto sbilanciamento
a favore della parte teorica nei confronti di quella di applicazione pratica, dedicata alla
conversazione nella malattia di Alzheimer, è in linea con questo intento. In altre parole,
il fine ultimo non è quello di dire qualcosa di nuovo, nØ tantomeno di definitivo,
sull’Alzheimer o sui modi piø utili per intervenire, in sede terapica, nell’interazione con
i pazienti. E d’altra parte il punto di partenza è stato proprio la consapevolezza di non
possedere quelle competenze su aspetti medici, neurologici e di pratica logopedica,
indispensabili per poter trattare con pretesa di esaustività una patologia complicata
come la demenza di Alzheimer. La prospettiva qui viene piuttosto ribaltata: è l’analisi
dei dati empirici ad essere funzionale alla dimostrazione della plausibilità delle tesi
generali sulla comunicazione; nella certezza che, ad ogni modo, una teoria resa piø
robusta da conferme, derivanti da dati concreti e spontanei, possa rivelarsi a sua volta di
una qualche utilità a illuminare gli aspetti inerenti alla pratica, o per lo meno a inserire i
singoli interventi in un quadro di riferimento piø ampio, che renda piø chiare le
relazioni tra i diversi aspetti di cui si compone.
Il capitolo primo costituisce una sorta di quadro generale relativo delle problematiche
cognitive e linguistiche che affliggono le persone colpite dalla malattia di Alzheimer, e
delle scienze cognitive del linguaggio. Senza pretesa di completezza nØ di esaustività, in
altre parole, si è cercato di dare un’idea delle funzioni cognitive maggiormente
compromesse da questa patologia, prendendo a riferimento alcuni testi disponibili nella
letteratura in materia, specie neuropsicologica. In particolare ne vengono evidenziate le
ricadute sulla memoria (sia a lungo termine che di lavoro) e sulla capacità attentive. Dal
punto di vista linguistico, invece, ci sono dati piuttosto concordi che mostrano la presenza
di deficit soprattutto a livello lessicale e semantico, oltre che di natura piø marcatamente
pragmatica, che coinvolgono l’area macroelaborativa, specie la produzione di narrazioni e
la conversazione. Di qui si passa a una trattazione delle nozioni di base di un approccio
1
particolare alla malattia di Alzheimer, il Conversazionalismo di Giampaolo Lai. Questa
proposta, focalizzata sia sugli aspetti pratici che concettuali dell’Alzheimer, ha come
scopo l’attuazione di interventi mirati a migliorare le condizioni di vita dei pazienti
attraverso l’uso di tecniche tese a favorire il mantenimento della capacità conversazionale.
A fronte dell’assenza di cure farmacologiche, in grado di far regredire, o per lo meno
arrestare, il decadimento cognitivo causato dalla malattia, lo scopo del
Conversazionalismo è quindi quello di permettere all’individuo di riappropriarsi della
possibilità di entrare in contatto con i caregiver, limitando così problemi non direttamente
causati alla malattia, quali l’isolamento sociale, la frustrazione e l’infelicità. “Medicare le
parole”, e favorire la conversazione (benchØ non comunicativa), può risultare una strada
proficua per attenuare la condizione di disagio della persona affetta da demenza.
Nell’ultima parte del capitolo si illustreranno infine i concetti di base delle scienze
cognitive (rappresentazioni mentali, linguaggio del pensiero, Teoria Computazionale della
Mente, generativismo), soprattutto per ciò che riguarda il linguaggio. Infine si procederà
con una breve rassegna delle nozioni su cui si fonda la pragmatica linguistica, e su come
essa possa essere d’aiuto in ambito terapeutico, soprattutto nella riabilitazione logopedica.
Cuore dell’intero lavoro, il secondo capitolo sviluppa dettagliatamente gli aspetti portanti
della Relevance Theory (Teoria della Pertinenza) di Sperber e Wilson, nel suo tentativo di
spiegare l’intera gamma dei fenomeni comunicativi umani alla luce di un unico principio.
Punto di riferimento imprescindibile per la genesi di questa teoria è sicuramente la teoria
comunicativa di Paul Grice, fondata sul rispetto del Principio di Cooperazione, coniugato
a sua volta in quattro massime conversazionali e in un apparato descrittivo dei
meccanismi dell’interazione fondato sui concetti di intenzionalità, codice, inferenza e
implicatura. Originata da questa matrice di pensiero, Relevance Theory tuttavia finisce col
distaccarsene e criticare l’impostazione da modello nonostante tutto ancora basato sul
codice. Sperber e Wilson propongono al contrario un modello di comunicazione di tipo
ostensivo e inferenziale, con una sua plausibilità dal punto di vista cognitivo ed empirico.
La comunicazione sarebbe pertanto modulata attraverso un unico principio, quello di
pertinenza appunto, basato sulla massimizzazione delle conseguenze cognitive. Altro
punto di rottura rispetto alle teorie del codice: il principio di pertinenza non è una regola
da seguire, ma bensì una proprietà connaturata alla cognizione umana, cui l’individuo non
può non conformarsi. Caratteristica fondamentale di questa visione è lo svincolare i fatti
comunicativi umani dalla dipendenza del codice. Secondo questa prospettiva infatti esso
2
non risulta nØ necessario nØ sufficiente, benchØ rappresenti, nella maggior parte dei casi,
lo strumento piø efficiente per il trattamento delle informazioni. I teorici della pertinenza,
nel ritenere la comunicazione un processo esclusivamente inferenziale, si collocano sullo
stesso solco di pensiero della semiotica di Peirce, che mette in evidenza come la capacità
simbolica sia il quid in grado di conferire all’essere umano la possibilità di rapportarsi con
il contesto in maniera inferenziale, flessibile e mediata, grazie alla possibilità di
manipolare secondo principi sintattici le rappresentazioni mentali che definiscono il
linguaggio del pensiero.
Seguono delle sezioni in cui si mettono in luce i correlati psicologici relativi a questa
visione della comunicazione. Innanzitutto la Teoria Computazionale della Mente, e in
particolare le teorie fodoriane sull’organizzazione dell’architettura mentale in strutture
modulari, ossia in diversi meccanismi cognitivi (per l’appunto i moduli) dominio-specifici
e che si attivano automaticamente in corrispondenza di determinati input percettivi, per
quanto riguarda i processi periferici (decodifica degli stimoli); non modulari, o olistici,
per quel che riguarda i processi centrali (interpretazione, ragionamento, inferenza ecc.).
La teoria massiva invece tenta di portare delle prove a favore del fatto che anche la
cognizione centrale sia il risultato dell’integrazione di moduli diversi. Il funzionamento
della comunicazione, secondo la Teoria della Pertinenza, si colloca proprio in
quest’ottica, quando sostiene che la scelta delle informazioni da elaborare, tra tutte quelle
accessibili, avviene attraverso euristiche veloci ed economiche sul piano cognitivo, tali da
rendere necessario un certo grado di incapsulamento informativo di moduli che si
integrano tra loro. Di qui si prende in esame il contributo della psicologia del senso
comune, e piø precisamente della Teoria della Mente, che pone l’accento sulle modalità
attraverso cui gli individui formano delle rappresentazioni interne sugli stati mentali,
propri e altrui. La capacità di mentalizzazione, permettendo di inferire stati mentali e
intenzioni, si dimostra mezzo fondamentale per la comunicazione, tanto da spingere i
teorici della pertinenza a ipotizzare che gli stimoli comunicativi siano trattati da un
sottomodulo del modulo della lettura della mente, attraverso l’applicazione automatica di
procedure orientate secondo pertinenza. Infine si offre una veloce panoramica su alcuni
assunti di area neuropsicologica sull’immagazzinamento e i metodi di recupero delle
informazioni nei diversi tipi di memoria, e di qui sul funzionamento del lessico; aspetti
questi che entrano in gioco sia nella Teoria della Pertinenza, per quel che riguarda la
3
rappresentazione dei contenuti mentali da sottoporre al vaglio dei processi di
arricchimento pragmatico, che ovviamente nella patologia alzheimeriana.
Il capitolo terzo è dedicato a un tentativo di lettura dei meccanismi della conversazione
alla luce del paradigma teorico pertinentista, ed è per così dire propedeutico alla sezione
dedicata all’analisi di alcuni aspetti salienti delle interazioni comunicative nell’Alzheimer,
sullo sfondo degli aspetti strutturali messi in rilievo dalle ricerche degli analisti della
conversazione. Mentre la branca della pragmatica dell’analisi conversazionale ripone il
suo interesse nell’interazione verbale come oggetto di studio autonomo, dotato di regole
proprie non codificate, e che ha come scopo l’isolamento di alcune unità atomiche e di
regole fondamentali (in primis l’alternanza tra i turni) capaci di modellare il contesto
esterno, la proposta di Relevance Theory nega la specificità di questa rispetto alle altre
forme di comunicazione. Essa infatti, mirando al mutuo scambio di informazioni e alla
comprensione tra individui, trova il suo aspetto strutturante, piø che nelle regole strutturali
di turnazione (che pure risultano utili in fase descrittiva, essendo l’interazione verbale
caratterizzata da un alto grado di formalizzazione e convenzionalità del mezzo linguistico
attraverso cui si esprime), proprio nella capacità di orientare i propri contributi informativi
in maniera pertinente. Si dimostrerà inoltre come un aspetto fondamentale della
conversazione (e anzi dei discorsi in generale), qual è la coerenza, nonchØ
l’interpretazione dei dispositivi linguistici correlati a essa, come i connettivi testuali, la
referenza e la deissi, siano a loro volta definibili in base a fattori contestuali, e quindi a
partire da un trattamento pertinente dell’informazione (secondo un approccio alla
coerenza definito di tipo RT-based), piuttosto che attraverso criteri di tipo semantico e
strutturale (approccio Text-based). Nell’ultima sezione del capitolo si evidenziano infine
alcuni aspetti cognitivi relativi alla narrazione, il che è motivato col fatto che l’attività
narrativa occupa in maniera diffusa gran parte dello spazio conversazionale quotidiano, e
soprattutto che l’essere umano è naturalmente portato a percepire una sequenza di eventi
come connessi tra di loro in maniera non casuale. Ogni individuo ha inoltre la capacità di
raffigurarsi mentalmente un repertorio di scenari narrativi alternativi e addirittura di
costruire e manipolare una pluralità di mondi cognitivi possibili, dotati di una loro logica
e coerenza. Alla base di queste possibilità starebbe una forma specifica di pensiero, detto
appunto “pensiero narrativo”, in grado di interpretare i fatti umani attraverso processi di
attribuzione d’intenzioni, in relazione a contesti determinati e tramite inferenza,
4
mostrando così diversi punti in comune con la descrizione fornita in precedenza dei
meccanismi cognitivi, attraverso cui avviene la comunicazione.
Le analisi di alcune sequenze significative delle conversazioni con pazienti affetti dalla
malattia di Alzheimer, argomento del capitolo quarto, sono intese come funzionali a
fornire una prova empirica a favore della prospettiva teorica, relativa ai meccanismi
cognitivi che regolano la comunicazione, emersa nelle parti precedenti. D’altra parte nelle
scienze cognitive, specie di area computazionale, l’osservazione delle anomalie di un
sistema risulta un modo per confrontarsi con un determinato modello teorico, e testarne la
validità. In particolare si cercheranno di mettere in luce alcuni aspetti relativi alla
coerenza nelle conversazioni (in particolare per quanto riguarda l’uso dei connettivi
testuali e delle iterazioni), essendo questa una proprietà testuale definita innanzitutto su
fattori di ordine cognitivo e pragmatico, in relazione a un determinato contesto.
L’intenzione è proprio quella di permettere alla Teoria della Pertinenza di confrontarsi
con esempi tratti da conversazioni reali (e non come in molta parte delle ricerche di
quest’area, a partire da esemplificazioni costruite a tavolino), mettersi per così dire in
discussione e saggiare la plausibilità delle proprie tesi; l’auspicio è che essa, rinsaldata dal
confronto con i dati empirici in situazioni d’interazione spontanea, sia inoltre in grado di
illuminare alcuni aspetti relativi al trattamento riabilitativo delle patologie linguistiche, in
virtø delle sue concezioni teoriche di base.
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6
I. DISTURBI DEL LINGUAGGIO NELLA DEMENZA di
ALZHEIMER E CONVERSAZIONALISMO
1. La Malattia di Alzheimer
La demenza di Alzheimer (Alzheimer’s Disease, d’ora in poi AD) è una malattia
degenerativa ad esordio prevalentemente senile, di origine non traumatica nØ infettiva,
che determina un progressivo decadimento delle funzioni cognitive dell’individuo,
provocato da lesioni degenerative neurali. Essa colpisce per lo piø gli ultra
sessantacinquenni, ma in alcuni casi anche persone piø giovani. Il primo a descriverne
sintomi e aspetti neuropatologici fu il neurologo tedesco Alois Alzheimer nel 1907;
oggi, pur essendo la tipologia di demenza senile piø diffusa, non si è ancora giunti a
conoscere con precisione l’origine e le cause della degenerazione del sistema nervoso
centrale, nØ sono state trovate ancora cure farmacologiche o di altra natura in grado di
prevenirla o di curarla. Tuttavia quel che è certo è che, complice il progressivo
invecchiamento della popolazione, il numero dei malati è crescente (solo in Italia se ne
calcolano tra i 500 e 650 mila) e che, sia per chi ne è affetto, sia per i familiari, la
malattia si ripercuote gravemente sui molti aspetti della vita quotidiana di una fetta
sempre piø consistente di società:
La persona non è piø quella di prima, dimentica oggetti, nomi, non ricorda
come cucinare un piatto che ha sempre preparato o recarsi in un luogo
abitualmente frequentato, sbaglia a vestirsi, non completa l'igiene personale,
non sa piø dove si trova e come si chiama. La relazione non è piø quella di
prima, si verificano frequenti cambiamenti nell'umore e nei comportamenti,
si modifica il linguaggio, la comunicazione, viene richiesta una differente
comprensione di gesti, parole, atteggiamenti.
(CRISTINI 2007: 133)
Questa difficoltà a comunicare e a richiamare alla mente la propria storia personale, la
fatica sempre maggiore, col progredire della malattia, a svolgere anche gesti semplici e
quotidiani, la perdita progressiva persino dell’autosufficienza, fanno sì che il malato di
Alzheimer si trovi in una condizione sempre piø drammatica di infelicità e isolamento
nelle relazioni sociali, aggravata per di piø dall’impossibilità di essere aiutato anche dai
piø stretti familiari, che non riescono piø ad entrare in contatto con chi si dimostra ormai
insensibile all’ambiente e alle persone che lo circondano. All’interno di un quadro così
sconfortante ci si è trovati a escogitare nuovi approcci nelle forme di assistenza e di
7
intervento che consentano, se non di comprendere, almeno di avvicinarsi alla
comunicazione verbale (e non) di chi soffre di demenza, unico modo per provare ad
entrare nel suo mondo, ridurre la distanza e valorizzare le residue (magari anche
inaspettate) abilità, comprendendo le peculiarità del suo mondo cognitivo. In particolare
si vedrà come la conversazione rappresenti uno strumento utile, per non dire privilegiato,
per capire la condizione di sofferenza dell’anziano affetto da demenza, e provare limitare
la sua solitudine:
La persona demente richiede strumenti terapeutici che vanno oltre la
medicina tradizionale e richiamano l'assistenza globale, olistica. Negli
atteggiamenti del demente vi è sempre un senso da ricercare e scoprire. Il
comportamento dei malati di demenza non è da considerare una risposta
“abnorme”, priva di significati, ma come tentativi finalizzati ad entrare in
rapporto con un mondo che percepisce e vive a suo modo.
(CRISTINI 2007a: 142)
2. Disturbi cognitivi connessi alla demenza
Innanzitutto c’è da mettere in evidenza la difficoltà inquadrare le manifestazioni
cliniche dell’AD all’interno di un quadro omogeneo: esse infatti devono essere
considerate come un processo patologico evolutivo, mai statico, in cui il deterioramento
cognitivo è di natura cronica e progressiva, e tale da far sì che i sintomi si acutizzino e
peggiorino in maniera esponenziale con il decorso. Tralasciando, nostro malgrado ma
doverosamente, la trattazione degli aspetti morfologici e neurobiologici (nella
consapevolezza di non averne i mezzi nØ le competenze, ed affrontando perciò il
problema da un’altra angolatura, quella linguistica e comunicativa) ci occupiamo in
questo paragrafo invece, in maniera molto schematica, dei disturbi di carattere
neuropsicologico, e in particolare cognitivi, dell’AD, ovvero quelli piø direttamente
collegati agli aspetti afferenti all’area linguistica e comunicativa, che poi è l’oggetto di
uno studio di pragmatica del linguaggio.
Mettiamo fin da subito in evidenza come i disturbi connessi all’AD debbano essere
considerati in maniera non uniforme, essendo parte di un processo degenerativo che si
sviluppa in senso cronologico; esistono quindi, all’interno della sintomatologia di
disturbi cognitivi che qui riportiamo, diversi gradi di gravità, in base allo stadio in cui si
trova la malattia. Prendendo a modello il quadro delineato in SPINNLER 1996,
possiamo allora dire che l’incompetenza cognitiva progressiva del paziente AD si
articola soprattutto su tre ambiti cognitivi: i disturbi della memoria (probabilmente
8
l’aspetto piø immediatamente manifesto); i disturbi delle funzioni strumentali, dovuti a
danni dell’emisfero sinistro ma anche destro; i disturbi delle funzioni di controllo quali
intelligenza, attenzione e motivazione. A questi, infine, si possono aggiungere anche
alcune manifestazioni psichiatriche.
2.1. Disturbi della memoria.
I danni e difficoltà nell’elaborazione mnestica dell’informazione sono senza dubbio un
tratto essenziale dell’AD: «La presenza di difetti mnestici rappresenta […] una condicio
sine qua non della diagnosi clinico- comportamentale di AD» (cfr. SPINNLER 1996:
292). Di sicuro questo aspetto è alla base anche delle difficoltà quotidiane che il malato
incontra, e che inficiano progressivamente le sue capacità comunicative, di sicurezza e
1
autonomia e di comportamento. Notiamo innanzitutto come l’apporto dei deficit di
memoria, nei confronti degli altri tipi di disturbi cognitivi, sia di grande rilievo nelle fasi
iniziali della malattia (approssimativamente, benchØ sia grande la soggettività da caso a
caso, tra i tre e cinque anni dall’esordio) e per così dire l’unico segno palese della sua
insorgenza; al contrario, nelle fasi terminali, esso risulta poco isolabile dallo stato di
confusione cognitiva globale dell’individuo.
Dagli studi Tulving in poi la scienza cognitiva ha elaborato un modello del sistema della
23
memoria umana generalmente suddiviso in: una memoria a breve termine, o di lavoro,
con capacità limitata e di breve durata e svolge un ruolo centrale in tutti compiti
cognitivi connessi a ragionamento, soluzione di problemi, comprensione,
1
«La comprensione del presente e la previsione del futuro si fondano sulla capacità di comunicare con il
passato. Quando perdiamo la capacità di viaggiare nel tempo, ci stacchiamo da quasi tutto quello che ci
tiene ancorato il senso di chi siamo e di dove andiamo. Eppure anche nei casi di amnesia piø profonda, il
passato non molla mai la presa sul presente. Quando nella memoria esplicita non rimane piø niente, il
passato continua a condizionare il presente attraverso sottili influenze che agiscono al di fuori della
consapevolezza. Per capirle, dobbiamo immergerci nel mondo della memoria implicita» (SCHACTER
1996).
2
Cfr. NICOLETTI-RUMIATI 2006 per una panoramica degli assunti cognitivisti sulla memoria, con
relativa bibliografia. La trattazione su tipi di memoria e modalità di registrazione delle informazioni sarà
inoltre ripreso in maggior dettaglio in, Cap. II § 3.3.
3
A dire il vero, a rigore, il concetto di memoria di lavoro e a breve termine dovrebbero essere distinte
(cfr. MARINI 2008: 95-101). La memoria a breve termine infatti rappresenta un concetto piø generico,
essendo una sorta di «magazzino passivo in cui le informazioni rimangono in attesa di essere incamerate
nei sistemi di memoria a lungo termine o prodotte dai sistemi esecutivi». La memoria di lavoro invece,
come lascia intendere il suo nome, ha una funzione di natura operativa ed è pertanto da considerarsi «un
magazzino di capacità limitata che non si limita a trattenere per breve tempo le informazioni la esegue
operazioni mentali sui contenuti in esso presenti.»
9
4
apprendimento e linguaggio; una memoria a lungo termine (o secondaria) invece
mantiene le informazioni in modo permanente, o per lo meno per lungo tempo. A sua
volta essa viene ulteriormente suddivisa in altri “magazzini”, in base alla tipologia di
informazione ivi archiviata: si avrà allora una memoria procedurale, per le conoscenze
che si utilizzano per svolgere dei compiti (es. “X si fa/svolge così”), di cui non si ha
consapevolezza anche quando vengono messi in atto; episodica, per le informazioni che
riguardano la nostra autobiografia soggettiva (eventi, esperienze, azioni che
appartengono a noi soltanto, per lo piø non condivise con gli altri), che tanta parte
svolge nel conferire all’individuo un senso d’identità; una memoria semantica, che
riguarda cioè le nostre conoscenze proposizionali, su che cosa sono alcuni oggetti o
eventi (proposizioni del tipo: “qualcosa è X”), ed enciclopediche (cioè su parole e
concetti, proprietà e relazioni reciproche, simboli ecc.), con il compito di sottendere alla
nostra capacità di astrazione: essa risulta pertanto necessaria al linguaggio, proprio
5
come quella di lavoro, ma non solo. Inoltre, le informazioni archiviate nella memoria
semantica ed episodica, secondo il modello di Tulving, sarebbero organizzate in un
sistema gerarchico e secondo diversi gradi di astrazione, formando un reticolato di
informazioni tra loro interconnesse, ma secondo diverse modalità:
i concetti, intesi come la conoscenza enciclopedica acquisita su fatti, oggetti
o individui sarebbero qui [memoria a lungo termine] codificati in modo
indipendente dalla modalità originaria d’ingresso delle informazioni e senza
le coordinate spaziali e temporali che ne hanno portato all’acquisizione.
Queste coordinate sarebbero invece elemento distintivo della memoria
episodica.
(LUZZATI 1996: 1079)
4
Cfr. PENNISI 2006: «La memoria di lavoro è un ambito in cui viene dimostrato chiaramente come il
ruolo della memoria sia imprescindibile per una normale funzionalità del linguaggio poichØ il suo
funzionamento esatto dipende da come le singole lingue strutturano la loro morfologia e sintassi e da
come il senso delle frasi sia legato o meno ad un’ontologia epistemica della realtà »
5
«Mentre la memoria semantica riguarda solo i fatti acontestuali e la capacità di saper descrivere oggetti
e fenomeni, la memoria episodica riguarda eventi relativi al vissuto personale di ciascuno e la capacità di
saper raccontare i fatti della propria autobiografia. Per capire meglio in cosa consiste la memoria
semantica possiamo dire che essa riguarda sia il modo in cui il lessico si struttura attraverso relazioni
semantiche molto precise,[…] sia i vari reticoli associativi che legano tra loro le parole di una lingua […].
Occorre chiarire subito che la memoria semantica non comprende solo il dominio della memoria
preposizionale linguistica. Dopo la prima formulazione Tulving si è reso conto che l’aggettivo semantico
ha tratto in inganno gli studiosi, i quali hanno pensato che essa si riferisse solo al linguaggio verbale e non
anche a tutti gli altri formati sensoriali (analogico-visivi, uditivi, olfattivi ecc.) in cui la conoscenza viene
immagazzinata» (PENNISI 2006: 139-140).
10
Spinnler mette in evidenza come AD danneggi soprattutto le forme di memoria esplicita
e a breve termine, in correlazione con la difficoltà all’elaborazione attentiva, meno
invece le forme di memoria implicita e procedurale:
Le conseguenze nella vita di ogni giorno dell’amnesia alzheimeriana sono
molteplici: all’amnesia episodica il demente deve la sua smemoratezza per i
fatti correnti, a quella semantica ed autobiografica la sua perenne titubanza
cognitiva e trepidazione emotiva, mentre alla migliore tenuta della memoria
procedurale la gestibilità relativamente lunga nel suo contesto familiare. La
combinazione dell’amnesia episodica e di quella semantica confluiscono
nello stato confusionale cronico dalla fase alzheimeriana florida.
(SPINNLER 1996: 941)
A questo punto, schematizzando e semplificando, possiamo definire per ogni tipo di
memoria, le principali caratteristiche dell’amnesia provocata da AD:
- memoria a breve termine: è correlata fortemente alla difficoltà nel mantenimento e
nella focalizzazione dei meccanismi di attenzione; anzi nelle prime fasi della
malattia risulta sostanzialmente nella norma. Con il suo progredire, tuttavia, i
problemi aumentano, soprattutto per quel che riguarda l’elaborazione dei dati piø
recenti;
- memoria episodica: i danni alla componente a lungo termine si concentrano
soprattutto per quel che riguarda i compartimenti episodici della capacità
mnemonica, ancora una volta probabilmente in correlazione con difficoltà attentive,
anche in fasi anteriori. Le ripercussioni sulla conservazione di un senso d’identità
personale sono notevoli. Gran parte del problema probabilmente è dovuta
all’«estrema e pervasiva difficoltà mettere in atto intenzionalmente uno sforzo
progettuale diretto alla ricerca sistematica di qualsiasi informazione remota (come
quelle autobiografiche) la cui emergenza alla consapevolezza non fruisca già di un
meccanismo automatico contesto-suggerito» (SPINNLER 1996: 938).
- memoria semantica: i danni relativi a questo tipo di memoria si manifestano
6
soprattutto per quanto riguarda la titubanza cognitiva, l’incertezza nel giudizio,
ovvero la difficoltà a rendere disponibili con fluidità e prontezza le conoscenze
6
«Anche nelle circostanze piø banali (ad es. decidere dell’entità approssimativa del prezzo di un chilo di
carne) la condotta è imbarazzata ed incerta, si svolge per tentativi ed errori come se la circostanza fosse
nuova ed il problema quasi insolubile, e le convinzioni del paziente al riguardo fossero vaghe e in
definitiva interamente affidate alla sanzione di un congiunto presente, eletto a leader» (SPLINNLER
1996: 936).
11
generali sulle cose del mondo, al fine di interagire in maniera efficace con
l’ambiente. Ciò compromette abilità quali l’accesso al lessico, alle conoscenze
aritmetiche, geografiche ecc., probabilmente a causa di un accesso difettoso alle
rappresentazioni semantiche;
- memoria procedurale: inizialmente non viene intaccata per quanto riguarda le
attività quotidiane di base, in particolare motorie; pare invece si protragga, anche in
fasi piuttosto avanzate, una certa conservazione di procedure precedentemente
apprese. Nondimeno sono frequenti fenomeni di aprassia (mal destrezza e incertezza
nell’uso di oggetti o strumenti comuni, come accendere la tv, aprire la porta ecc.) e
agnosia, in particolare visiva (perdita della capacità di riconoscere gli oggetti e il
7
loro uso appropriato).
2.2. Disturbi delle funzioni strumentali.
Sono quei difetti di natura neuropsicologica, sia dell’emisfero destro che sinistro, che
hanno ripercussioni sulle relative specifiche funzioni psicologiche. Lesioni o disturbi
all’emisfero sinistro, quello dominante, hanno come conseguenza i disturbi del
linguaggio (piø che di vera e propria afasia, vedremo piø avanti, a quanto pare si tratta
di una compromissione delle capacità comunicative e relazionali), aprassie motorie e
ideative di varia natura e gravità, e che comunque non sono elementi caratteristici
dell’AD, agnosie di oggetti comuni. Danni meno frequenti all’emisfero destro, invece
si ripercuotono, con gradi diversi, sulla cognizione spaziale e sulla discriminazione di
elementi percettivi tra cui: aprassia dell’abbigliamento (necessità di aiuto, fino ad
arrivare alla non autonomia, per vestirsi); deficit visuo-percettivi, incapacità di
governare lo spazio, anche nelle mansioni piø di routine; disorientamento topografico.
2.3. Disturbi delle funzioni di controllo.
Si tratta soprattutto di deficit che coinvolgono funzioni cognitive come l’attenzione e
l’intelligenza (tra loro intimamente collegati), inclusi anche gli aspetti motivazionali.
- Attenzione: «è quel processo che opera una selezione tra tutte le informazioni che in un
dato istante colpiscono i nostri sensi (informazioni esterne) e/o i nostri ricordi
(informazioni interne), consentendo soltanto ad alcune di accedere ai successivi stadi di
elaborazione» (NICOLETTI-RUMIATI 2006: 60). Essa è pertanto essenziale per
7
Questa dissociazione sembra indicare la possibilità di un’ulteriore suddivisione interna alla memoria
procedurale. SCHACTER 1996: trad. it. 196-7, a riguardo.
12
evitare di sovraccarico del sistema cognitivo, ciò che invece succederebbe qualora
dovessimo prendere in esame tutti gli stimoli che l’ambiente esterno ci offre; la sua
funzione dunque è quella di selezionare solo le informazioni che ci interessano, o che ci
sono utili, specie durante la fase di elaborazione della percezione o dell’informazione
8
mnemonica, o ancora nel compito di problem-solving. I soggetti affetti da demenza
incontrano molta difficoltà a focalizzare l’attenzione su un compito correlato a un certo
processo psicologico e mantenerla fino alla sua conclusione, al riparo dalle interferenze
che provengono dall’ambiente esterno, in particolare quando si tratta di un compito
poco frequente, contenente imprevisti, e che attiva schemi poco automatizzati o non
cristallizzati. L’ipotesi che fa Spinnler è che, per svolgere prestazioni di tipo
automatico, già a partire dalla fase d’esordio i dementi di Alzheimer siano costretti a
profondere un notevole sforzo attentivo, a causa dei danni neuronali che la malattia
comporta; con il progredire della demenza, infine, questa difficoltà si acutizzerebbe,
ponendo il malato in balìa degli stimoli ambientali a tal punto da riuscire a fornire solo
«risposte stereotipate e scarne, prive di ogni capacità di adattamento sensibile»
(SPINNLER 1996: 954);
- Intelligenza: l’intelligenza non va vista come una funzione unitaria della cognizione
9
umana, ma al contrario formata da diverse sottocomponenti di struttura modulare,
preposte alla risoluzione di diversi compiti o alla risoluzione di problemi. In altre parole
rappresenta un «sistema che include necessariamente l’insieme dei processi che
presiedono l’elaborazione dell’informazione […] che viene acquisita dal mondo esterno
e immagazzinata in memoria e dopo essere stata trasformata viene utilizzata per
svolgere un dato compito» (NICOLETTI-RUMIATI 2006: 255). Indicatori
dell’intelligenza di un individuo saranno allora le prestazioni in compiti come quelli dei
tempi di reazione nella scelta e la velocità nell’accesso lessicale e di discriminazione
degli stimoli visivi: insomma, l’intelligenza si definisce come proprietà cognitiva
plastica, modellabile, che permette alla memoria di lavoro di eseguire dei compiti di
10
elaborazione in maniera veloce e di mantenere un’alta quantità d’informazione. In AD
le difficoltà di accesso alle informazioni mantenute in memoria semantica e
8
In questo senso il concetto cognitivo di attenzione come meccanismo di selezione delle informazioni in
entrata risulta il punto di partenza fondamentale per lo sviluppo della teoria pertinenza che, come si vedrà
(Cap. II), ha lo scopo di definire le modalità attraverso le quali la cognizione umana selezioni gli stimoli
utili che caratterizzano i processi comunicativi.
9
Cfr. Cap. II, § 3.1.
10
Cfr. RUMIATI 2006.
13
procedurale, così come quelle di attenzione, con conseguente depotenziamento delle
capacità della memoria di lavoro, fanno sì che «il demente di Alzheimer non soffra solo
di un difficoltoso accesso al poliedrico archivio di routine astratte, ma che di queste si
siano andate deteriorando nel corso dell’AD al punto da costituire una trama sempre piø
lacunosa ed operativamente piø inefficiente» (SPINNLER 1996: 959).
2.4. Manifestazioni psichiatriche.
Il demente di Alzheimer conserva a lungo, durante buona parte del periodo la coscienza,
sia parziale che totale di essere malato. Alcune patologie di tipo psicotico possono
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trovarsi collegate, in diversi gradi e forme, all’AD, in particolar modo nelle fasi piø
avanzate della malattia (piø raro invece trovarle in quelle precoci). Tra i malati di AD è
possibile incontrare quindi sindromi pseudo-depressive come l’abulia e l’apatia e, in
particolar modo negli stadi piø maturi, manifestazioni comportamentali di tipo psicotico
come allucinazioni, deliri e mispercezioni; tipiche invece delle fasi di esordio, e
correlate ai primi segni di incompetenza cognitiva, può occorrere la nevrosi ansiosa,
eventualmente associata a tratti pre-morbosi come ipocondria, meticolosità,
autoritarismo. Per tutto l’arco della malattia infine, la maggior parte dei casi i pazienti
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risulta affetta da depressione.
3. Disturbi del linguaggio in AD
Gli studi effettuati sui deficit del linguaggio nelle demenze, e in particolare in AD, si
rivelano di grande interesse per almeno due motivi: il primo è di ordine demografico, in
quanto l’aumento delle aspettative di vita e il ridotto tasso di natalità hanno provocato
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Cfr. SPINNLER 1996: 960-962.
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«Le alterazioni del comportamento in corso di patologia demenziale sono l’epifenomeno piø frequente:
il 70% circa dei pazienti manifesta apatia, il 40% irritabilità, il 30% circa disinibizione; l’agitazione, un
disturbo molto composito, che va dalla vocalizzazione persistente all’aggressività, è presente in circa il
60% dei casi; sintomi ansiosi sono osservabili in circa il 50% dei dementi, ma questa percentuale varia tra
le varie patologie demenziali e attraverso gli studi. Nel morbo di Alzheimer l’ansia è meno frequente che
nella demenza vascolare o in quella frontotemporale. Il sintomo ansioso piø frequente nel morbo di
Alzheimer è la facies apprensiva (circa 70%), la paura, la tensione, l’irrequietezza, l’irritabilità (37%-
57%); meno frequenti i sintomi dell’ansia somatica e il disturbo del sonno (8%-34%). Le modificazioni
del tono dell’umore sono frequenti: nel 30 80% dei pazienti vengono riscontrati sintomi depressivi, nel
5% euforia, nel 40% labilità emotiva e nel 30-60% dei pazienti è riportata sintomatologia di tipo psicotico
(deliri, allucinazioni, iterazioni/perseverazioni). I sintomi depressivi sono da distinguersi dai sintomi
negativi, simili a quelli riscontrati nella schizofrenia e indipendenti dalla dimensione depressiva. Un
sintomo negativo come l’apatia si correla alla compromissione funzionale globale, che viene spiegata per
il 27% della sua varianza da questo sintomo, mentre i sintomi comportamentali spiegano il 17%.»
(ACCORR` e coll. 2004)
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l’innalzamento dell’età media della popolazione, fino a giungere alla prevalenza degli
anziani (con relativo aumento di malattie collegate alla vecchiaia); il secondo, di ordine
linguistico, riguarda la capacità, da parte dell’analisi dei problemi linguistici dell’AD, di
essere vista come la dimostrazione della separazione tra la componente semantica e
lessicale del linguaggio da quella fonologica e sintattica:
La possibilità di una selettiva compromissione semantico-lessicale, in
assenza di deficit sintattici e fonologici ha a sua volta motivato un ulteriore
interesse per i deficit di linguaggio nella DA [AD]: un danno isolato delle
capacità semantico- lessicali permetterebbe di studiarne l’organizzazione
mentale in modo piø diretto di quanto non sia possibile sulla base dei
disturbi del linguaggio afasici ove le diverse componenti linguistiche sono
compromesse in modo sovrapposto. […] In un soggetto afasico si
tratterebbe principalmente di un deficit di accesso ad informazioni lessicali e
semantiche relativamente intatte, mentre nella DA [AD] di un degrado delle
informazioni stesse.
(LUZZATI 1996: 1060)
Queste difficoltà (che si collegano ovviamente ai problemi di ordine cognitivo cui
abbiamo accennato nel paragrafo precedente), come vedremo, hanno vaste ripercussioni
in particolare sulle abilità comunicative e conversazionali, tanto che possiamo definire
AD un disturbo piø comunicativo che linguistico in senso stretto.
Per prima cosa c’è da mettere in evidenza che già di norma (in condizioni non
patologiche) l’invecchiamento porta di per sØ a una trasformazione delle capacità
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cognitive dell’anziano, e in particolare ad un deficit piø o meno intenso delle capacità
di memoria (soprattutto per quel che riguarda la sedimentazione di nuove informazioni),
di concentrazione e di prontezza nelle risposte motorie volontarie; rimangono piuttosto
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conservate, al contrario, le abilità apprese in passato. In diversi studi, inoltre, si è
dimostrato che queste difficoltà nell’uso della memoria di lavoro, e il generale
rallentamento dei processi sia fisici che mentali, si ripercuote anche sul linguaggio e
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«Piuttosto che accettare come definizione per l'anzianità un limite temporale, sarebbe piø corretto
prender in considerazione piø fattori, come l'efficienza fisica e mentale, l'autosufficienza e la qualità di
vita. Seguendo questa linea di ragionamento possiamo parlare di very healthy elderly e di anziano fragile.
Il very healthy elderly si qualifica come quel soggetto di età superiore ai 70 anni con sane abitudini di
vita; senza malattie infiammatorie, neoplasie, infezioni croniche, malattie immuni; senza alterazioni di
parametri di laboratorio che indichino una alterazione di funzionalità d'organo e senza un trattamento
cronico per queste malattie. La fragilità dell'anziano invece si configura come una sindrome e costituisce
un fattore indipendente di disabilità e eventi avversi. La fragilità è uno stato di fisiologica vulnerabilità
legato all'invecchiamento dovuto ad un'alterazione della capacità di riserva omeostatica e una ridotta
capacità dell'organismo di far fronte a stress come malattie acute» (ROMANELLI 2007: 14).
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Cfr. LUZZATI 1996: 1061.
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