nell’esercizio dei poteri del datore di lavoro la pubblica
amministrazione è “parte” e non “autorità”
1
.
Se gli atti amministrativi, adottati dall’amministrazione
nell’esercizio del proprio potere organizzativo, in ragione del loro
carattere generale ed astratto, non sono idonei ad incidere
direttamente sul singolo rapporto di lavoro, essi, tuttavia, possono
acquisire rilevanza in qualità di “presupposti” di successive
decisioni assunte dall’amministrazione come parte, e nell’esercizio
della sua autonomia negoziale.
In questo caso, si pone l’esigenza di evitare il frazionamento
della tutela che deriverebbe dall’obbligo del dipendente di
impugnare, innanzi al giudice amministrativo, l’atto amministrativo
illegittimo (ad esempio, riduzione della consistenza complessiva
della dotazione organica), prima di poter contestare, dinanzi al
giudice ordinario, la misura di gestione del rapporto di lavoro
individuale adottato su tale atto (ad es., trasferimento d’ufficio del
pubblico dipendente).
A tale scopo l’art. 68, D. Lgs. n. 29/93, ha conferito al giudice
ordinario anche il potere di valutare la legittimità degli atti
1
M. D’Antona, op. cit., pag. 629.
amministrativi presupposti, e, in caso di illegittimità, di
disapplicarli
2
.
Si tratta, indubbiamente, di una disposizione che amplia le
possibilità del giudice ordinario di sindacare la discrezionalità
dell'amministrazione e si collega al giudizio del giudice ordinario,
che è un giudizio di cognizione dell'intero rapporto
3
.
La disposizione citata conferisce, appunto, il potere di
disapplicare un atto amministrativo "rilevante" ai fini della
decisione. Tale potere sarebbe comunque spettato al giudice
ordinario in base all’art. 5 della Legge Abolitiva; alla ritenuta
necessità del legislatore di prevederlo espressamente può essere
attribuito il significato di ribadire e confermare un dato normativo
che – oltre a rivelare un utile significato interpretativo di carattere
generale – nel contesto in esame emerge rafforzato.
Infatti, tale potere di disapplicare è strettamente legato alla
previsione della prima parte del 2° comma dell’art. 68, secondo cui
il giudice adotta, nei confronti delle pubbliche amministrazioni, tutti
i provvedimenti, di accertamento, costitutivi o di condanna, richiesti
dalla natura dei diritti tutelati, e che semplicemente in base alla
disciplina contenuta negli artt. 4 e 5 non sarebbe possibile adottare.
2
S. Battini, op. ult. cit., pag. 390.
3
V. Rago, relazione tenuta al corso di aggiornamento sulla riforma della giurisdizione in
materia di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, organizzato a Roma dal 12
aprile 1999 dal Ministero delle Finanze – Dip.to delle Dogane.
Ciò vuol dire che i giudizi relativi a rapporti di lavoro con le
pubbliche amministrazioni hanno acquisito il carattere di una
giurisdizione sul rapporto che, pur utilizzando, talvolta, le
tradizionali forme dell’impugnativa di atti, trascende la loro
semplice eliminazione, perchè finalizzata alla regolazione delle
situazioni sostanziali delle parti, ed alla determinazione di una
norma agendi idonea a vincolare le parti per il futuro, anche
attraverso la disapplicazione
4
.
Ciò ha sicuramente modificato le caratteristiche della tutela
giurisdizionale del pubblico dipendente nella materia in argomento,
incrementando gli spazi di ingerenza del giudice sul rapporto;
infatti l’intervento del giudice ordinario sulle controversie di lavoro
è di maggiore elasticità ed ampiezza rispetto a quello
tradizionalmente ritenuto consentito al giudice amministrativo,
caratterizzato, invece, dalla necessaria impugnazione di un atto
(amministrativo), con tutti i limiti formali e sostanziali che si ritiene
derivino da una simile impostazione, in relazione all’imperatività
dei provvedimenti e ai termini di decadenza.
Analizziamo, quindi, il concreto funzionamento della
disapplicazione nel rapporto di impiego alle dipendenze delle
pubbliche amministrazioni.
4
D. F. G. Trebastoni, La disapplicazione nel processo amministrativo, in www.diritto.it.
L’atto privatistico di gestione del rapporto di lavoro o il
comportamento datoriale che il dipendente assume lesivo di un suo
diritto possono trarre origine da un precedente provvedimento
adottato dall’amministrazione nell’esercizio di una potestà
pubblica. Allo scopo di evitare che il lavoratore si veda costretto a
duplicare le sue iniziative in sede giudiziaria, il legislatore ha
attribuito al giudice ordinario medesimo il potere di disapplicare, se
illegittimi, gli atti amministrativi presupposti che vengano in esame
e siano rilevanti ai fini della decisione
5
.
Il potere di disapplicazione rappresenta così lo strumento di
controllo sull’attività stricto sensu amministrativa, quando
funzionale alla tutela dei diritti del lavoratore pubblico
6
.
Per la verità tale situazione nella quale l’atto espressivo della
capacità di diritto privato del datore di lavoro pubblico risulta legato
da un nesso di presupposizione
7
con un precedente atto espressivo
della capacità di diritto pubblico risulterà di meno frequente
emersione rispetto a quanto era dato prevedere sulla base
dell’originario impianto del decreto legislativo. E’ infatti da
sottolineare che la riformulazione degli articoli 2 e 4 del Decreto ha
5
D. Iaria, L’ambito oggettivo della giurisdizione del giudice del lavoro e del giudice
amministrativo dopo i decreti legislativi n. 80 e n. 387 del 1998, in Il lavoro nelle pubbliche
amministrazioni, 1999, II, pagg. 291-292.
6
R. Tiscini, op. cit., pag. 325.
7
Per nesso di presupposizione si intende il rapporto di interdipendenza logica e temporale che
sussiste tra l’atto presupposto e l’atto successivo consequenziale, A. M. Corso, Atto
amministrativo presupposto e ricorso giurisdizionale, Padova, 1990, pag. 105.
determinato una sensibile restrizione dell’attività organizzativa
propriamente pubblicistica. Una volta delineato il quadro strutturale
fondamentale, “le determinazioni per l’organizzazione degli uffici e
le misure inerenti alla questione dei rapporti di lavoro sono assunte
dagli organi preposti alla gestione con la capacità ed i poteri del
privato datore di lavoro” (art. 4, comma 2). Ciò significa che,
normalmente, “a monte” dell’atto lesivo del diritto soggettivo potrà
esservi sì un atto organizzativo, ma essendo espressivo della
capacità di diritto privato dell’amministrazione sarà direttamente
sindacabile dal giudice del lavoro in sede di cognizione piena e
diretta, prendendo a parametro le norme ed i principi generali
privatistici (ivi compresi la correttezza e la buona fede), nonché le
clausole contrattuali
8
.
E’ poi da ribadire che è venuta meno la corrispondenza tra
ambito della giurisdizione lavoratistica e riserva normativa
pubblicistica, quale delineata dall’elenco di materie dall’art. 2,
comma 1 lett. c) della Legge Delega n. 421/92; e che è addirittura
prospettabile l’abrogazione implicita di detto elenco per effetto del
combinato disposto tra l’art. 11 della nuova Legge Delega n. 59/97
e l’art. 2, comma 1 del D. Lgs. n. 29/93 come novellato dal D. Lgs.
n. 80/98. Su questi presupposti possiamo riscontrare atti di gestione
8
D. Iaria, op. cit., pagg. 292 e ss.
del rapporto di lavoro che trovano la loro fonte in specifiche
disposizioni legislative, le quali sono quindi da collocarsi, pur
prendendo atto del loro contenuto derogatorio, nella più generale
categoria delle norme di diritto del lavoro comune (ad esempio, gli
atti assunti dal datore di lavoro pubblico in materia di
incompatibilità); sì da non integrare ovviamente gli estremi degli
atti amministrativi da disapplicare.
Si prospetta, invece, la possibilità della disapplicazione
dell’atto presupposto allorché questo sia un provvedimento
amministrativo vero e proprio. Si pensi, ad esempio ad una
ristrutturazione degli uffici e della pianta organica che si traduca
nella soppressione di una serie di posti, i cui titolari siano
conseguentemente collocati in mobilità o addirittura licenziati per
giustificato motivo oggettivo. In tale ipotesi gli atti privatistici di
gestione che i lavoratori assumono essere lesivi dei loro diritti sono
in realtà meramente consequenziali di precedenti atti amministrativi
nei confronti dei quali si estende quindi la cognizione del giudice
del lavoro: cognizione che può portare non ad una decisione di
annullamento dell’atto amministrativo con effetti di giudicato, bensì
soltanto ad una pronuncia di disapplicazione resa incidenter tantum
nell’ambito della sentenza che accerti il diritto del lavoratore e cioè
l’invalidità dell’atto datoriale privatistico di gestione del suo
rapporto di lavoro. L’atto disapplicato non viene meno, salvo che
con riferimento allo specifico rapporto di lavoro dedotto in giudizio
rispetto al quale non può spiegare alcun effetto.
Data la peculiarità delle fattispecie il nesso di presupposizione
è tale da risultare più o meno appariscente. Può verificarsi il caso in
cui il lavoratore avverta la lesione già subito dopo il provvedimento
organizzativo: si pensi, ad esempio, alla soppressione dell’ufficio
cui non faccia immediatamente seguito una ricollocazione del
dipendente; tuttavia anche qui l’oggetto diretto dell’azione sarà
costituito dalla domanda di accertamento di un diritto in ipotesi leso
da un comportamento datoriale (ad esempio il non utilizzo delle
prestazioni del lavoratore) la quale trarrà fondamento nella
preliminare richiesta di accertamento in via incidentale della
legittimità dell’atto amministrativo posto “a monte” dello stesso
comportamento datoriale.
Quella in esame è, per la verità, una disapplicazione “diversa”
da quella tradizionalmente configurata dalla dottrina e dalla
giurisprudenza.
Come esaminato, la disapplicazione, di cui all’art. 5, Legge n.
2359/1865 all. E, concerne un atto amministrativo rilevante ai fini
del decidere, ma non costituente l’oggetto principale (essenziale)
della controversia. La fattispecie prevista, invece, dall’art. 4 della
stessa Legge, dove l’atto è assunto come direttamente lesivo del
diritto, è stata normalmente riferita a situazioni nelle quali, a ben
vedere, l’atto amministrativo non c’era, vertendosi in situazioni di
carenza o di decadenza di potere. E’ risaputo, infatti, che, in base ai
consolidati principi in tema di riparto di giurisdizione, allorquando
un atto amministrativo valido ed efficace costituisca l’oggetto
principale dell’azione civile del soggetto leso, questi deve chiederne
l’annullamento al giudice amministrativo, onde poi agire
successivamente, sussistendone eventualmente i presupposti, sul
piano civile per la tutela dei diritti dei quali il giudice
amministrativo abbia verificato l’illegittimo affievolimento.
Nella fattispecie dell’art. 68 del Decreto lo stesso riferimento
testuale alla disapplicazione degli atti presupposti comporta
l’attribuzione al giudice ordinario del potere di conoscere, ancorché
in via incidentale, tutti gli atti amministrativi collegati all’atto o al
comportamento datoriale privatistico che si assume come
“direttamente” lesivo; ciò anche nelle situazioni sopra esemplificate
nelle quali detti provvedimenti amministrativi costituiscono
l’oggetto essenziale della controversia, risultando, infatti, gli atti o i
comportamenti datoriali suddetti meramente consequenziali rispetto
a quelli.
In altre parole, un licenziamento per giustificato motivo
oggettivo, determinato da soppressione dell’ufficio, può essere, in
sé e per sé, ineccepibile, ma invalidato dalla illegittimità della
disposta soppressione dell’ufficio, sulla quale dunque finisce
sostanzialmente per incentrarsi il giudizio lavoratistico: da qui la
differenza rispetto alla disapplicazione tradizionalmente intesa e la
maggiore assimilabilità, semmai, alla fattispecie dell’art. 4 della L.
n. 2359/1865 all. E.
D’altronde, nel momento in cui l’art. 68 consente ogni
pronuncia nei confronti delle pubbliche amministrazioni finisce per
ammettere una profonda ingerenza del giudice ordinario nei
confronti delle pubbliche amministrazioni, la quale rende
sistematicamente compatibile anche un accertamento diretto da
parte di quel giudice sulla legittimità dell’atto amministrativo;
accertamento diretto che la giurisprudenza ha, nei cento anni e più
trascorsi, sostanzialmente escluso, ancorchè la formulazione
dell’art. 4 della Legge n. 2359/1865 all. E lo consentisse quasi
espressamente
9
.
9
D. Iaria, op. cit., pag. 296.
4. Il divieto di pregiudizialità amministrativa.
Il potere di disapplicazione del giudice del lavoro, inoltre,
risulta per così dire, rafforzato dalla contestuale previsione
normativa che l’eventuale impugnazione innanzi al giudice
amministrativo dell’atto amministrativo rilevante nella controversia
non è causa di sospensione del processo.
La ratio di questa scelta è individuata innanzi tutto nel
tentativo di evitare il ritardo che avrebbe prodotto sul processo
ordinario la sospensione per pregiudizialità del giudizio
amministrativo, e questo nel nome delle esigenze di snellezza e
celerità, cui il D. Lgs. n. 80/98 appare ispirato
10
.
Forse non è azzardato dire che questa è la disposizione che più
delle altre contribuirà a conferire effettività alla giurisdizione
ordinaria in materia d’impiego alle dipendenze delle pubbliche
amministrazioni. Infatti, in assenza di una disposizione del genere,
sarebbe stato davvero arduo escludere la facoltà del giudice di
sospendere il procedimento in attesa della definizione di quello
avente ad oggetto proprio la legittimità dell’atto amministrativo
10
R. Tiscini, op. cit., pag. 325.
presupposto. Invece, a seguito dell’intervento del legislatore del
1998 al giudice ordinario è fatto espresso divieto – in ogni caso – di
sospendere il processo
11
.
Tuttavia, al riguardo è stato da taluni sostenuto che quello del
divieto di pregiudizialità amministrativa (e della stessa
disapplicazione degli atti amministrativi), sarebbe un falso
problema. Gli atti amministrativi organizzativi, nella misura in cui
sono espressivi della capacità di diritto pubblico, non atterrebbero al
rapporto di lavoro, in quanto quest’ultimo è oggi integralmente
disciplinato dal diritto privato. Pertanto i diritti del lavoratore
pubblico non potrebbero che scaturire dal rapporto di lavoro al
quale gli atti amministrativi sarebbero estranei; perciò, quando il
lavoratore dovesse assumere la lesione di tali diritti avrebbe titolo
soltanto a lamentare lo scorretto esercizio dei poteri privatistici del
datore di lavoro. Da ciò è stata fatta conseguire “per un verso la non
configurabilità dell’atto amministrativo eventualmente illegittimo
come lesivo del diritto tutelato davanti al giudice ordinario; e, per
altro la non prospettabilità di un interesse del dipendente ad ottenere
11
P. Sordi, op. cit., pag. 513.
l’annullamento dell’atto o l’accertamento della illegittimità dello
stesso con efficacia di giudicato
12
.
Tale posizione interpretativa, allo stato minoritaria, merita di
essere attentamente valutata, stante, se non altro, l’autorevolezza
dei suoi sostenitori. Essa muove da un presupposto corretto, quale è
quello della assimilazione del datore di lavoro pubblico a quello
privato, ma trascura di considerare che il primo dei due conserva
anche una capacità di diritto pubblico che lo contraddistingue dal
secondo.
E’, infatti, evidente che il potere dell’imprenditore privato di
ristrutturare o finanche di chiudere la propria azienda attiene alla
sua incoercibile libertà d’intrapresa economica, costituzionalmente
garantita ex art. 41 Cost.; di conseguenza è ovvio che al lavoratore
privato l’ordinamento non riconosca alcun interesse giuridicamente
rilevante a sindacare tali scelte imprenditoriali che si esprimano in
atti organizzativi capaci di giustificare comportamenti incidenti,
anche in senso risolutivo, sui rapporti di lavoro.
Ben diversa è la posizione del datore di lavoro pubblico, i cui
poteri organizzativi pubblicistici sono tutti indiscutibilmente
12
Così D. Borghesi, La giurisdizione, in Il lavoro alle dipendenze delle pubbliche
amministrazioni, a cura di F. Carinci-M. D’Antona, Milano, 2000, pagg. 1126 e ss.; nonché F.
Liso, La privatizzazione dei rapporti di lavoro, in Il lavoro alle dipendenze, cit., pagg. 230 e ss.
funzionalizzati e, come tali, doverosamente orientati al
perseguimento dell’interesse pubblico ex art. 97 della Costituzione.
Se, tale datore non è “libero” nello svolgimento della propria
attività organizzativa, stante il suddetto vincolo funzionale ribadito
anche dagli stessi articoli 2 e 4 del Decreto, non si vede perché
l’attività svolta debba risultare insindacabile da parte dei lavoratori,
i quali sono i soggetti maggiormente interessati al corretto,
imparziale ed efficiente operato organizzativo delle pubbliche
amministrazioni
13
.
La diversa posizione del datore di lavoro pubblico rispetto a
quello privato si riflette proprio in una diversa disciplina dei
rapporti di lavoro nelle pubbliche amministrazioni che continua ad
essere, seppure limitatamente, condizionata dalle modalità di
esercizio del potere organizzativo.
Per chiarire meglio è opportuno ricorrere ancora una volta alla
esemplificazione.
La pianta organica è, nell’impresa privata, un dato
giuridicamente irrilevante, mentre ciò che riveste importanza è la
specifica posizione di lavoro. Pertanto, ai fini della rivendicazione
degli effetti giuridici ed economici derivanti dallo svolgimento di
13
D. Iaria, op. cit., pag. 298.
mansioni superiori, è sufficiente che il lavoratore dimostri
l’effettivo contenuto delle mansioni svolte.
Viceversa, nelle pubbliche amministrazioni, l’esistenza del
posto in organico costituisce il presupposto indefettibile, in base
all’art. 56 del Decreto, per il conferimento ed il riconoscimento
delle mansioni superiori; onde deve riconoscersi al lavoratore
pubblico un interesse qualificato e differenziato ad un corretto
dimensionamento della pianta organica, potendo costituire questa il
presupposto per far valere taluni suoi diritti a contenuto
patrimoniale
14
.
Come si comprende, il lavoratore può, nel caso illustrato, far
valere un diritto solo in quanto gli sia consentito di contestare la
legittimità di taluni atti amministrativi di sicuro contenuto
pubblicistico. Pertanto, se gli atti amministrativi a contenuto
organizzatorio nei quali si esprime tale potere pubblico sono tipici
atti discrezionali, devono considerarsi esperibili nei loro confronti i
normali mezzi di tutela apprestati allo scopo dall’ordinamento
15
.
Ne consegue che il lavoratore pubblico può chiederne
l’annullamento al giudice amministrativo ovvero la disapplicazione
14
D. Iaria, op. cit., pag. 298.
15
L. Torchia, Giudice amministrativo e pubblico impiego dopo il D. Lgs. n. 80/1998, in Il
lavoro nelle pubbliche amministrazioni, Milano, 1998, pag. 1060.
al giudice ordinario, in quanto in entrambi i casi portatore di un
interesse differenziato e qualificato.
Non sono condivisibili neanche le seguenti argomentazioni
addotte per negare l’utilità di una impugnativa diretta dell’atto
amministrativo di fronte al giudice amministrativo: il lavoratore per
un verso può raggiungere quasi sempre lo stesso risultato mediante
la disapplicazione dello stesso da parte del giudice del lavoro; per
l’altro, il processo del lavoro non può essere influenzato dalla
contemporanea pendenza del processo amministrativo. Deve
aggiungersi che la sospensione cautelare dell’atto presupposto da
parte del giudice amministrativo, la quale potrebbe effettivamente
condizionare lo svolgimento del giudizio lavoratistico, è
difficilmente ottenibile in concreto dal ricorrente, dato che il
pregiudizio paventato non sarà normalmente assistito dal requisito
dell’attualità: la lesione della sua sfera giuridica sarà determinata
dall’adozione del successivo atto privatistico di gestione del
rapporto di lavoro.
Ed inoltre, per negare la legittimazione a ricorrere innanzi al
giudice amministrativo da parte del lavoratore potrebbe sostenersi,
da un lato, che egli non ha un interesse attuale a ricorrere rispetto
all’atto presupposto, con correlativa inammissibilità
dell’impugnativa in ipotesi preposta; e dall’altro che non risulta
praticabile una impugnativa successiva, temporalmente collocabile
al momento dell’adozione dell’atto consequenziale di gestione del
rapporto, non essendo possibile una azione di annullamento
cumulativa contro entrambi gli atti: l’atto consequenziale, avendo
natura privatistica, non è impugnabile innanzi al giudice
amministrativo
16
.
Tuttavia, le suddette argomentazioni non sono condivisibili
poiché condurrebbero ad una soluzione alquanto formalistica, in
16
D. Iaria, op. cit., pag. 299.