CAPITOLO PRIMO
1.1 Inquadramento Geologico.
I Monti Cimini sono situati nel Lazio settentrionale poco a nord del lago di Vico(FIG. 1.1) e
sono costituiti da prodotti vulcanici eruttati circa 1.3 Ma fa che occupano una posizione
peculiare all’interno del panorama del vulcanismo laziale. Essi infatti, sono situati al confine
tra due province magmatiche da sempre ben distinte dagli Autori: la provincia anatettica
toscana e la provincia comagmatica romana, entrambe inserite nel più ampio contesto del
vulcanismo del margine tirrenico sviluppatosi in più fasi a partire dal Pliocene (Barberi et al,
1994).
I numerosi lavori sullo studio della crosta nell’area tirrenica hanno messo in luce come questa
sia caratterizzata da spessori piuttosto ridotti lungo il versante occidentale della catena
appenninica, esattamente in corrispondenza della fascia allungata NW-SE interessata dal
vulcanismo. Gli spessori massimi si trovano in corrispondenza della zona assiale della catena
stessa (FIG. 1.2), al di sotto della quale, linee sismiche ( Nicolich, 1989) e la distribuzione di
terremoti intermedi e profondi (Amato et al., 1993) suggeriscono un raddoppiamento crostale
con la sovrapposizione della Moho tirrenica al di sopra della Moho adriatica (FIG. 1.3.).
Al di sotto dell’arco calabro, un piano di Benioff con inclinazione compresa tra i 70° e gli 80°
ed immersione verso NW, coincidente con una zona di alta velocità delle onde sismiche
riscontrata fino a 400-500 km di profondità, indica la subduzione della litosfera ionica
(Giardini and Velonà, 1988; Suhadolc and Panza, 1989; Cimini and Amato, 1993; Spakman et
al., 1993; Selvaggi and Chiarabba, 1995). La continuità del piano di subduzione tra l’arco
calabro e l’Appennino centro–meridionale non è chiara. Al di sotto dell’Appennino
settentrionale la distribuzione di terremoti subcrostali fino alla profondità di 90 km e la
presenza di una zona di alta velocità delle onde sismiche con immersione WSW, profonda
fino a 250 km, suggeriscono che il processo di subduzione sia in corso (Selvaggi and Amato,
1992; Cimini and Amato, 1993). L’apertura del bacino Tirrenico viene comunemente
considerata come la conseguenza del “retreat” della subduzione immergente verso W-NW
(FIG. 1.4) della litosfera ionico-adriatica (Malinverno and Ryan, 1986; Jolivet et al., 1998 e
bibliografia all’interno). La migrazione della deformazione procede verso E durante il
Miocene fino al Pleistocene, interessando le aree dell’attuale Tirreno e dell’Appennino e
sviluppando bacini estensionali ad orientamento circa NW-SE sempre più giovani verso E
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Fig. 1.2.Carta dell’andamento della Moho nell’italia centrale. (da Wigger, 1984)
Fig 1.3. Sismicità registrata dalla rete sismica nazionale dell’istituto Nazionale di Geofisica nel periodo 1983-
1991, nell’Appennino centro settentrionale (da Amato & Selvaggi, 1991).
Fig. 1.4.Ricostruzione schematica in quattro fasi del processo di “retreat” della subduzione lungo i profili in
basso a sinistra. (da Faccenna et al., 2001).
(Patacca et al., 1990). Il perdurare della deformazione a carattere distensivo porta
all’assottigliamento progressivo della crosta continentale e in ultimo stadio alla formazione,
nel Miocene superiore, di nuova crosta oceanica a nord dell’attuale Sicilia.
Contemporaneamente si registrano movimenti compressivi nelle zone interne della catena che
accompagnano la graduale apertura del bacino Tirrenico, secondo un meccanismo di
thrusting. Tale meccanismo viene accompagnato da complesse rotazioni del fronte di catena (
Mattei et al., 1995), la cui parte attiva migra progressivamente verso E. Nel contempo le parti
inattive della catena vengono frammentate da tettonica distensiva a direzione NW-SE, NE-
SW e N-S a partire dal Messiniano e fino al Pleistocene, senza evidenza di rotazioni (Mattei et
al., 1996). La tettonica distensiva porta alla formazione di una serie di alti e bassi strutturali
che disegnano una movimentata paleogeografia, resa ancor più complessa dalle ingressioni e
regressioni marine associate a forti sollevamenti di estesi settori dell’attuale fascia costiera. E’
proprio in questo scenario che si comincia ad avere traccia dell’attività vulcanica “on-shore”
lungo il margine tirrenico, con prime manifestazioni nell’area toscana e nel Lazio
settentrionale nel Pliocene superiore, e dando vita in seguito ai vulcani laziali e campani nel
corso del Pleistocene. E’ a cavallo di queste due diverse attività che si sviluppa il vulcanismo
cimino, costituendo così, sia da un punto di vista temporale che dal punto di vista
petrografico, un ulteriore punto di sovrapposizione tra la provincia magmatica toscana
(PMT)e quella romana (PMR).
1.2 Il vulcanismo del Lazio.
Il vulcanismo laziale dunque comprende sia prodotti appartenenti alla PMR che alla PMT.
Alla prima apartengono gli apparati dei Vulsini, Vico, Sabatini e dei Colli Albani mentre gli
apparati di Tolfa , Ceriti-Manziana, Ponza e Cimini vengono generalmente associati alla
seconda provincia (FIG. 1.1).
Washington (1906) riunì i prodotti del vulcanismo fortemente alcalino e potassico laziale
all’interno di una provincia comagmatica denominata Provincia Romana, alla quale vengono
associati anche i vulcani campani per le loro analogie petrografiche. Tali prodotti sono
tipicamente sottosaturi e ricchi in K
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O, tanto che la leucite costituisce il minerale più diffuso.
La genesi di queste vulcaniti di età quaternaria viene ricondotta a fusi magmatici di origine
subcrostale. I vulcani della PMR sono caratterizzati sia da apparati centrali sia da caldere
sommitali, che da veri e propri sprofondamenti vulcano tettonici a carattere areale.
Per quanto riguarda la provincia toscana, Marinelli (1961) propose un modello petrogenetico
evolutivo. Egli interpretò le rocce ignee toscane, i Monti Cimini e il vulcanismo tolfetano
come il prodotto di anatessi di crosta continentale. Le differenze chimico-petrografiche
osservate nelle rocce di questa provincia venivano spiegate come il risultato di complessi
processi di ibridizzazione ed assimilazione partendo da un magma comune di origine crostale.
Così le rocce ignee della Toscana, i Monti Cimini e l’area di Tolfa, risultavano appartenere ad
una provincia a carattere genetico uniforme chiamata Provincia Anatettica Toscana o
Provincia Magmatica Toscana.
In letteratura i prodotti vulcanici dell’area tolfetana e dei Monti Cimini vengono indicati
genericamente come acidi. Serri et al. (1991) hanno classificato i prodotti dei distretti
vulcanici di Tolfa, Ceriti-Manziana come appartenenti alla serie alcalina mentre i prodotti dei
Cimini come appartenenti ad entrambe le serie alcalina ed ultrapotassica.
Studi di carattere petrologico e geochimico hanno messo in luce come la genesi dei prodotti
vulcanici laziali possa essere spiegata invocando magmi a derivazione sia mantellica che
crostale appartenenti a serie distinte (Locardi et al.,1975; Vollmer, 1977; Serri et al., 1991). I
nomi di Provincia Magmatica Toscana e Provincia Magmatica Romana sono ancora in uso ma
si ritiene poter attribuire a queste definizioni un significato puramente temporale e geografico
(Serri et al., 1991).
L’età dei vulcani laziali facenti parte della PMT è ancora oggi oggetto di dibattito. Le prime
manifestazioni di questi vulcani sono relative al distretto tolfetano. Villa et al. (1989)
attribuiscono ai prodotti tolfetani un’età di 3.46 Ma, sulla base di datazioni radiometriche. Più
recentemente, De Rita et al. (1997) hanno evidenziato, sulla base di dati di campagna, come la
messa in posto dei magmi tolfetani abbia un’età compresa tra il Pliocene superiore ed il
Pleistocene inferiore, in accordo con quanto proposto da Lombardi et al. (1974). Allo stesso
modo l’età radiometrica del vulcanismo cerite risulta compresa tra 4.1 e 2.4 Ma (Fornaseri,
1985). Anche in questo caso dati di terreno mostrano un’età di questi prodotti riferibile al
Pliocene superiore (De Rita et al., 1994). Il vulcanismo cimino conclude l’attività di questo
gruppo di vulcani. Le datazioni dei suoi prodotti finali mostrano un’età di 0.9 Ma (Villa et al.,
1989).
All’interno di questo gruppo di vulcani vanno incluse anche le isole di Ponza, Palmarola e
Zannone di età tardo pliocenica. Questi centri vulcanici sono caratterizzati da un’ attività
iniziale che vede la messa in posto, in ambiente subacqueo, di lave riolitiche calcalcaline
ricche in potassio (Conte e Savelli, 1994). In particolare l’isola di Ponza, dopo la fase di
crescita di domi subacquei coalescenti (De Rita et al., 2001), ha avuto un’attività
prevalentemente di tipo subaerea durante il Pleistocene inferiore, con l’emissione di lave
trachitiche e piroclastiti, datate a 1.3 Ma (Bellucci et al., 1997).
L’attività dei vulcani appartenenti alla PMR inizia a 0.6 Ma nei Vulsini orientali e nei
Sabatini orientali (Serri et al., 1991), e si sviluppa contemporaneamente in tutto il Lazio
durante il Pleistocene (FIG. 1.5).
Fig. 1.5. Datazioni radiometriche che illustrano la
distribuzione nel tempo delle attività vulcaniche della
PMT e della PMR (da Locardi et al., 1977).
Rispetto al vulcanismo cimino assumono una importanza particolare i vulcani dell’area
tolfetana e il vulcano di Vico. I primi oltre alle analogie petrografiche risultano essersi messi
in posto secondo meccanismi molto simili a quelle dei domi cimini (De Rita et al., 1997; De
Rita et al., 1994). Il vulcano di Vico invece, per la sua posizione geografica e per la
distribuzione temporale della sua attività risulta strettamente connesso alla geologia dei
Cimini (Bertagnini e Sbrana, 1987; Sollevanti, 1983; Perini et al., 2000).
1.2.1 Il vulcanismo alcalino (Pliocene sup. – Pleistocene inf.).
Area tolfetana.
L’area tolfetana, caratterizzata dalla presenza di vulcaniti a chimismo saturo di età pliocenica,
è localizzata proprio in un settore di transizione tra il dominio toscano e quello laziale (FIG.
1.1). La sua storia evolutiva è dunque di grande importanza per la comprensione dei rapporti
tra queste due province magmatiche ed in generale per la comprensione dell’evoluzione
geodinamica recente del margine tirrenico.
Stratigrafia.
Unità prevulcaniche.
I depositi sedimentari che costituiscono il substrato di deposizione delle vulcaniti tolfetane
sono stati descritti da Fazzini et al., (1972) che li hanno raggruppati in tre complessi in parte
coevi e sovrapposti tettonicamente, in parte trasgressivi: “complesso basale” composto dal
“Calcare Massiccio”, dai “Calcari selciferi” e dalla “Scaglia toscana “; “complesso alloctono”,
è costituito da diverse unità di flysch ed è sovrapposto tettonicamente al “complesso basale”;
“complesso neoautoctono” comprende successioni sedimentarie depositate dal Miocene
superiore al Quaternario, trasgressive sulle sottostanti.
I terreni neogenici e quaternari si presentano in facies conglomeratiche, argillose e sabbiose la
cui distribuzione areale individua settori con diversa evoluzione paleomorfologica.
Unità vulcaniche.
Le facies vulcaniche sono costituite nella quasi totalità da rilievi domiformi oltre che da
dicchi e manifestazioni ipoabissalitiche (Ferrini et al., 1970). La geometria dei domi in
superficie, l’omogeneità e la continuità degli affioramenti lavici, non permettono
l’individuazione delle singole forme e di allineamenti preferenziali. Le lave dunque
costituiscono una serie di domi coalescenti ubicati lungo fratture ad orientamento regionale.
Nel dettaglio è possibile riconoscere una massa pressoché unica in corrispondenza di Tolfa e
pochi altri corpi isolati a sud e a est di Tolfa e verso la costa (De Rita et al., 1997).
Le lave che costituiscono i domi presentano struttura da ipocristallina a vetrosa ed una
sostanziale omogeneità composizionale e strutturale. Infatti tutte le lave rientrano nel campo
delle trachidaciti (al limite con il campo delle rioliti). Non esistono evidenze di stasi nella
messa in posto delle vulcaniti e dei domi. Tuttavia in tutto l’areale tolfetano non si riscontra la
presenza di facies esplosive legate alla dinamica di crescita dei domi in superficie. I rapporti
giaciturali con le formazioni sedimentarie circostanti non sono chiari. Il profilo morfologico e
la posizione delle facies plioceniche collocate ai margini orientali, suggeriscono che le
vulcaniti di Tolfa si siano messe in posto sollevando i terreni precedentemente deposti, dopo
essersi intruse fino in ambiente subsuperficiale (De Rita et al., 1997). La presenza di lembi di
argille e porzioni di flysch sollevati e termometamorfosati, nonché anomalie giaciturali dei
terreni neogenici associate ai dati di sondaggi effettuati per l’esplorazione geotermica e
mineraria permettono di ricostruire le geometrie dei domi come un unico corpo unito in
profondità. I domi possono essere quindi classificati come “criptodomi” (Cas & Wright,
1987).
Unità postvulcaniche.
Sono costituite da depositi fluvio-lacustri pelitici cui si intercalano livelli sabbiosi e
conglomeratici. La fauna di ambiente salmastro che si rinviene all’interno di tali depositi
risulta essere di età pleistocenica inferiore. Le facies conglomeratiche sono costituite
prevalentemente o esclusivamente da ciottoli derivati dallo smantellamento dei domi tolfetani.
Tali osservazioni consentono agli Autori di collocare gli eventi vulcanici di Tolfa tra il
Pliocene superiore ed il Pleistocene inferiore (Lombardi et al., 1974; De Rita et al., 1997).
Gravimetria.
Le anomalie di Bouger ricostruite da De Rita et al. (1997) per l’area della Tolfa, mettono in
evidenza come la struttura del substrato sia piuttosto articolata, individuando una zona di
bassi gravimetrici allineati NNE-SSW e WNW-ESE (FIG. 1.6). Con l’analisi delle
isoanomale residuali integrate con le osservazioni di terreno, gli stessi Autori mostrano come
il bacino di Tolfa si sia sviluppato con una dinamica di tipo semi-graben la cui faglia
principale si trova nel margine settentrionale. La sua evoluzione si sarebbe verificata in
continuità dal Messiniano al Pliocene superiore, approfondendo il bacino con depocentri
Fig. 1.6. Anomalie di Bouguer: Lave dei Monti della Tolfa; 2) Unità
neoautoctone; 3) Complessi alloctoni tolfetani; 4) Isoanomale
(Mgal); 5) stazione gravimetrica; 6) massimo gravimetrico; 7)
minimo gravimetrico (da De Rita et al., 1997).
successivi da SE verso NW. L’approfondimento del bacino verso NE si sarebbe verificato
successivamente, guidato da lineamenti strutturali orientati N-S visibili sia dall’analisi
gravimetrica sia da quella strutturale.
Caratteristiche strutturali.
L’analisi delle giaciture dei depositi neogenici, associata ad osservazioni di terreno,
descrivono per il bacino di Tolfa un depocentro allungato in direzione N 20°-30° E, lungo il
margine settentrionale del bacino stesso. Questi elementi consentono agli Autori di affermare
che la faglia principale sia una faglia di crescita con movimento a componente
prevalentemente normale orientata N 20°-40° E ed immersione verso ESE (FIG. 1.7). La
posizione del corpo vulcanico in corrispondenza della faglia, permette di ipotizzare che questa
abbia giocato un ruolo importante nella risalita dei magmi in superficie (De Rita et al., 1997).
Si registrano all’interno del bacino elementi di tettonica trascorrente connessi a faglie inverse
che vengono associati dagli stessi Autori ad episodi deformativi locali legati alla messa in
posto dei corpi subvulcanici. In seguito alla messa in posto delle vulcaniti si registrano altre
due fasi deformative legate rispettivamente a direttrici E-W e N 20° W. Questo ultimo sistema
Fig. 1.7. Evoluzione schematica del bacino di Tolfa (da
De Rita et al., 1997).
interessa le lave dei domi ed è secondo De Rita et al. (1997) il risultato della riattivazione
della discontinuità bordiera principale sotto il rinnovato campo di sforzi estensionali; tale
episodio deformativo viene riscontrato in tutta l’area ed è stato documentato anche nel
distretto vulcanico sabatino (Faccenna et al., 1994).
Area Cerite.
I Monti Ceriti sono localizzati al margine Sud-Occidentale del distretto vulcanico sabatino,
alcuni chilometri a nord di Roma (FIG. 1.1). La geologia dell’area è prevalentemente
costituita da domi e cupole di lava, sviluppatesi a ridosso delle strutture sedimentarie dei
Monti della Tolfa.
La natura chimica dei prodotti vulcanici (rioliti e trachirioliti Negretti & Morbidelli, 1963) e
l’età radiometrica stimata tra i 4.1 e 2.4 M.a. (Fornaseri, 1985), fanno sì che il vulcanismo
cerite (come quello tolfetano) venga inquadrato nell’ambito della Provincia Magmatica
Toscana.
Stratigrafia.
Unità prevulcaniche.
Le unità prevulcaniche sono costituite da un complesso basale alloctono a sua volta diviso in
due unità a natura calcarea e granulometria sabbioso-pelitica: il “gruppo dei flysch della
Tolfa”, di età cretacica e dal “gruppo della Pietraforte”, sovrascorso sul precedente, ascrivibile
al Cretacico-Paleocene (Fazzini et al., 1972).
Seguono nella colonna stratigrafica, conglomerati stratificati messiniani costituiti da
frammenti ben arrotondati dei complessi alloctoni ed in contatto tettonico, argille grigio-blu
del Pliocene inferiore (De Rita et al., 1994).
Chiudono il ciclo sedimentario prevulcanico i conglomerati di Gricciano la cui età è
ascrivibile al Pliocene superiore sulla base di correlazioni stratigrafiche (De Rita et al., 1994).
Unità vulcaniche.
L’unità più antica di tutta l’area è l’unità piroclastica di Monte Stradello (De Rita et al., 1994),
ed è composta da una facies conglomeratica basale e da una soprastante facies ignimbritica.
La facies basale era già nota in letteratura come “complesso dei tufi caotici” di Negretti et al.
(1962). La facies ignimbritica mostra strutture di pseudostratificazione e strutture vetrose a
fiamme (“ignimbrite omogenea” di Negretti e Morbidelli, 1963). Seguono in stratigrafia le
unità laviche. A differenza dei domi di Tolfa, i domi ceriti risultano costituiti da tre facies
laviche differenti tra loro sia per la posizione sia per le caratteristiche petrografiche. Le facies
a composizione riolitica risultano più antiche rispetto alla facies a composizione
trachidacitica. Entrambe le facies presentano al loro interno cristalli di sanidino di dimensioni
centimetriche
In accordo con la classificazione di S. Blake (1990), i domi riolitici vengono associati a
morfologie di tipo “upheaved plugs” e “Peléean” con fianchi molto inclinati e strutture di
pseudostratificazione subverticali. La facies a composizine trachidacitica costituisce domi di
forma variabile tra “low lava domes” e “coulee” e rappresenta il gruppo di domi più
meridionale di tutta l’area (De Rita et al.,1994).
Completano la serie dei prodotti vulcanici, tre unità ascrivibili all’attività del vicino distretto
vulcanico sabatino. Esse comprendono una colata di lava leucititica, il Tufo Rosso a Scorie
Nere sabatino e l’Unità Piroclastica di Bracciano .
Unità postvulcaniche.
Sono costituite in buona parte da depositi di rimaneggiamento delle unità vulcaniche del ciclo
cerite e del ciclo sabatino. Fanno eccezione a questo tipo di sedimentazione, i depositi
travertinosi presenti all’estremità occidentale della zona in esame interpretati dagli Autori
come prodotti dalla venuta in superficie di acque termominerali (De Rita et al., 1994 e
bibliografia all’interno). Chiudono il ciclo sedimentario alluvioni recenti e talus, questi ultimi
particolarmente sviluppati al contatto tra i domi ed i depositi argillosi e sui fianchi dei domi
stessi.
Gravimetria.
Le analisi gravimetriche (De Rita et al., 1994), congiuntamente ai dati di magnetometria e dei
pozzi perforati a scopi geotermici e per la ricerca di idrocarburi, mettono in evidenza la
presenza di un basso strutturale sepolto al di sotto della copertura vulcanica, allungato in
direzione NE-SW, limitato a nord da un lineamento strutturale a direzione analoga ed
interrotto a E da un secondo elemento lineare di importanza regionale a direzione NW-SE
(FIG. 1.8).
Fig. 1.8. Modello gravimetrico tridimensionale (da De Rita et al.,
1994).
Il basso strutturale risulta colmato da depositi argillosi ascrivibili al Messiniano e al Pliocene,
e sembrerebbe essersi generato in funzione del rigetto del lineamento strutturale a direzione
antiappenninica. Tale lineamento avrebbe condizionato in seguito anche la messa in posto
delle vulcaniti.
Caratteristiche strutturali.
Il lineamento che sembra aver maggiormente controllato l’evoluzione del vulcanismo dei
Monti Ceriti è la faglia normale ad andamento regionale orientata N30°-40°, come
evidenziato dalle analisi gravimetriche. Tale lineamento sarebbe stato attivo già prima del
Pliocene superiore e sarebbe in seguito stato riattivato durante la messa in posto dei domi,
consentendo, congiuntamente al sistema di fratture associato, la circolazione tardiva di fluidi
idrotermali (FIG. 1.9).
Fig. 1.9. Schema strutturale. 1)A. Unità alloctone della Tolfa, B. Unità sedimentarie;2) Piroclastiti di M.
Stradello; 3)Domi lavici; 4)Unità piroclastiche sabatine; 5)Travertini; 6)Stazioni di analisi strutturale;
7)Direzione e immersione degli strati; 8)Faglie normali, tratteggiate quando presunte (da De Rita et al.,
1994).
Esistono evidenze di una tettonica transtensiva sviluppata secondo sistemi coniugati orientati
N 60° e N 130° rispettivamente a componente destra e sinistra. La tettonica più recente è
rappresentata da sistemi di faglie normali e joints estensionali a direzione N 150°-180°, ben
visibile all’interno dei prodotti sabatini.
Localmente risultano evidenti le deformazioni all’interno delle unità argillose e dei
conglomerati di Gricciano indotte dalla venuta a giorno dei domi di lava. Sono visibili
deformazioni di tipo duttile e fragile a basso angolo. La deformazione duttile del substrato
sedimentario argilloso è compatibile con il modello di crescita di domi endogeni. Al
raffreddarsi del carapace esterno, la deformazione passa gradualmente alla fase fragile. Gli
angoli di tiltaggio del materiale neogenico raggiungono intorno ai domi i 20°-30°. Le
deformazioni osservate attorno ai domi possono quindi essere considerate sin-cinematiche alla
crescita dei domi stessi (De Rita et al., 1994).