4
anche le imprese europee hanno iniziato a stipulare tali contratti, sia tra imprese
di uno stesso Stato, che tra imprese di Stati differenti.
Tuttavia, lo sviluppo del franchising nel mercato europeo è profondamente
diverso da quello statunitense: infatti il franchisee americano opera con
l’obiettivo finale di diventare imprenditore autonomo, mentre il franchisee
europeo è maggiormente attento a limitare il rischio d’impresa
2
. Questa diversità
emerge non soltanto perchè il franchising rappresenta un nuovo istituto nei paesi
europei, ma anche per il fatto che sono diverse le esigenze cui è preposto: infatti
mentre negli Stati Uniti esso rappresenta un’alternativa alla grossa distribuzione,
in Europa accade esattamente il contrario, ossia sono le grosse catene di
distribuzione che vi ricorrono al fine di espandersi e penetrare in mercati in cui
sarebbe difficile entrare.
Anche in Italia
3
lo schema del franchising è sempre più utilizzato: i dati forniti
in merito dall’Associazione italiana del franchising (Assofranchising)
4
nel 2003
contavano 665 insegne, un numero di affiliati di 41.901 unità, per un giro d’affari
complessivo superiore a 15 milioni di euro. Confrontando tali dati con quelli
relativi al 2006 si può notare come tale rete continui ad espandersi: il numero
delle insegne è salito a 778 (con previsione di una crescita del 10% per il 2007),
il numero degli affiliati è salito a 45.340 unità (con previsione di una crescita tra
il 5% e il 7% per il 2007) per un giro d’affari complessivo superiore a 20 milioni
di euro (con previsione di una crescita tra il 5% e il 7% per il 2007)
5
.
Questa costante crescita ed evoluzione riscontrata nel mercato italiano e la
rilevanza economico-sociale acquisita da tale tecnica commerciale rappresentano
le principali ragioni che hanno indotto il legislatore all’elaborazione del
2
Cfr. A. Frignani, Factoring, Leasing, Franchising, Venture Capital, Leveraged buy-out, Hardship
clause, Countertrade, Cash & Carry, Merchandising, Know-how, Securitization, 6^ ed., Torino, 1996,
pagg. 130 ss..
3
In Italia la nascita del franchising risale al settembre 1970, anno nel quale venne creato a Fiorenzuola
(Pc) il primo affiliato della azienda Gamma, un’impresa della grande distribuzione, assorbita poi dalla
Standa.
4
Assofranchising è, come indicato dall’art. 3 del proprio Statuto, un’associazione senza scopo di lucro
che si propone di “rappresentare gli interessi generali del franchising in Italia e all’estero”, nonché di
“rappresentare, difendere e promuovere, in Italia e all’estero, gli interessi economici, sociali e
professionali dei suoi Soci Franchisors”, oltre che promuovere iniziative e scambi di informazione al fine
di qualificare e valorizzare il franchising.
5
Dati reperiti dal sito www.assofranchising.it/informazioni_statistiche.htm .
5
provvedimento normativo del 2004
6
, finalizzato
7
a garantire la massima
trasparenza nei rapporti contrattuali, sia attraverso l’imposizione di specifici
obblighi informativi durante la fase precontrattuale, sia con la previsione di un
contenuto essenziale minimo nel contratto, senza però, nel contempo, imporre
rigidi schemi contrattuali che porterebbero a compromettere quella elasticità e
flessibilità tipica del franchising, capace di adattarsi alle svariate esigenze del
sistema economico
8
.
La presente tesi ha lo scopo di studiare approfonditamente il contratto di
franchising, anche alla luce della nuova legislazione italiana emanata nel 2004,
cui la dottrina, tuttavia, non ha risparmiato pesanti critiche.
In particolare, il primo capitolo è dedicato all’analisi evolutiva del franchising,
partendo dal secondo dopoguerra, periodo in cui tale figura iniziò a svilupparsi,
con l’esame la storica sentenza “Pronuptia” che dettò le prime basi
giurisprudenziali in materia, arrivando successivamente ai Regolamenti emessi in
ambito comunitario con lo scopo di regolare il franchising, per poi occuparsi dei
primi commenti alla Legge n. 129 del 2004 italiana sul franchising.
Il secondo capitolo è riservato allo studio della disciplina del franchising, e al
confronto con altri contratti tipici del nostro ordinamento, descrivendo le diverse
tipologie esistenti di tale istituto, la struttura, gli elementi caratteristici e i
soggetti coinvolti.
Il terzo capitolo, invece, affronta la tematica centrale concernente la Legge n.
129 del 2004, il primo intervento normativo italiano in materia di franchising,
molto criticato a causa delle scarse novità apportate, in quanto non regola
compiutamente il contenuto di tale contratto, ma si limita a dettare alcune norme
in materia di tutela del contraente più debole.
6
Per l’analisi di tale provvedimento si rimanda al Capitolo 3.
7
Tali erano le intenzioni del legislatore durante i lavori preparatori come per esempio la Relazione alla
proposta di Legge n. 1523, presentata alla Camera dei Deputati il 24 agosto 2001, e la Relazione al d.d.l.
n. 19 d’iniziativa dei Senatori Maconi, Grosso, Pasquini e Piatti, comunicato alla Presidenza del Senato il
30 maggio 2001. Queste intenzioni, così come si potrà leggere nello svolgimento della tesi, secondo molti
studiosi del diritto non si è realmente concretizzato nella redazione della Legge del 2004.
8
Cfr. A. Finessi, La tipizzazione del contratto di franchising e i profili problematici della L. 6 maggio
2004, n. 129 (prima parte) in Studiami Iuris, 2004, tomo II, pagg. 1477-1488.
6
L’intento è, quindi, quello di analizzare a fondo tale Legge, col supporto delle
osservazioni provenienti dalla dottrina italiana, cercando anche di valutare se si
manifesti la necessità di un nuovo intervento del Legislatore in materia di
franchising, seguendo la nuova proposta di legge presentata lo scorso anno che,
se approvata, abrogherebbe la normativa appena entrata in vigore.
7
CAPITOLO 1: Origine ed evoluzione del contratto di
franchising
1.1 Aspetti definitori del franchising
Il termine “franchising” deriva dal francese “franchise”
9
che significa libertà,
privilegio, esclusiva, ed è stato poi tradotto “franchising” in inglese. Si tratta di
vocaboli che designano, appunto, una situazione di privilegio: il franchisee,
infatti, acquista, dietro corrispettivo, il “privilegio” di sfruttare la formula
commerciale del franchisor
10
.
Esso consiste in una tecnica di distribuzione di prodotti effettuata attraverso
l’utilizzazione, nei punti di vendita, del marchio e dei segni distintivi del
produttore-distributore. Quest’ultimo, anziché effettuare la vendita diretta,
attraverso esercizi commerciali e dipendenti organizzati direttamente e a proprio
rischio, decide di costruire la sua rete di vendita mediante accordi di franchising
con imprenditori locali (i franchisees) i quali si impegnano a vendere, spesso in
esclusiva, i prodotti del franchisor, utilizzando anche il marchio di quest’ultimo,
simboli e insegne, e spesso seguendo lo stesso allestimento dell’esercizio
imposto.
Il franchisor si impegna a fornire i prodotti da rivendere e ad accollarsi servizi
di assistenza ed altri eventuali costi, come per esempio le spese di pubblicità, le
spese iniziali di allestimento dell’esercizio commerciale ecc.. Il corrispettivo del
franchisor è composto da una parte fissa (entry fee o front fee) e da una parte
variabile in proporzione alle vendite realizzate (royalties).
Il franchisee si obbliga ad acquistare una quantità minima di prodotti e ad
osservare le modalità di vendita imposte dal franchisor
11
.
9
Che a sua volta deriva dalla radice franco renana “ frank”.
10
Cfr. A. Finessi., La tipizzazione del contratto di franchising e i profili problematici della L. 6 maggio
2004, n. 129 (prima parte) in Studium Iuris, 2004, tomo II, pagg. 1477-1488.
11
Cfr. M. Bessone, Lineamenti di diritto privato, 6^ ed., Torino, 2006, pagg. 582-583.
8
Fornire una definizione precisa e univoca di franchising risulta però difficile,
in quanto in passato sono state fornite diverse definizioni; si potrebbe, perciò,
adottare la descrizione in senso sostanziale dell’Associazione Italiana del
Franchising (Assofranchising), che lo considera, “una forma di collaborazione
continuativa per la distribuzione di beni o servizi fra un imprenditore
(franchisor) e uno o più imprenditori (franchisees) giuridicamente ed
economicamente indipendenti uno dall’altro, che stipulano un apposito contratto
attraverso il quale l’affiliante concede all’affiliato l’utilizzazione della propria
formula commerciale, comprensiva del diritto di sfruttare il suo know-how ed i
propri segni distintivi, unitamente ad altre prestazioni e forme di assistenza atte
a consentire all’affiliato la gestione della propria attività con la medesima
immagine dell’impresa affiliante; l’affiliato si impegna a far proprie politica
commerciale e immagine dell’affiliante nell’interesse reciproco delle parti
medesime e del consumatore finale, nonché al rispetto delle condizioni
contrattuali liberamente pattuite”
12
.
Un’altra definizione è fornita dal Codice Deontologico della Federazione
Italiana del Franchising in cui si descrive il franchising come “una forma di
collaborazione contrattuale tra parti giuridicamente ed economicamente
indipendenti, di pari dignità”
13
.
Il franchising costituisce perciò un “pacchetto di probabilità di successo” che
il franchisor mette a disposizione del franchisee; lo scopo principale dell’accordo
tra le parti è quello di procurare benefici ad entrambi i soggetti mediante la
combinazione delle loro risorse, mantenendo come preciso obiettivo l’interesse
del consumatore finale. Lo scopo del franchising rappresenta perciò una
collaborazione fiduciaria tra due partners; ciò che essi devono fare è “stabilire
chiare regole di gioco” relativamente flessibili, mantenendo però rigidi i principi
fondamentali della cooperazione, della collaborazione, del dialogo e
dell’equilibrio di diritti e doveri delle parti. La filosofia di base, dettata anche
dall’U.E., è quella di evitare il predominio di uno sull’altro.
12
Cfr. www.assofranchising.it alla voce “Che cos’è il franchising”.
13
Cfr. www.assofranchising.it alla voce “Codice deontologico della federazione italiana del franchising”,
art. 1.
9
Il contratto di franchising appartiene ai contratti cosiddetti “di integrazione”
14
,
cioè quei contratti di durata in cui un imprenditore affida in tutto o in parte la
fase della produzione dei propri beni o della distribuzione degli stessi
15
ad un
altro imprenditore, il quale effettua investimenti e acquisisce conoscenze per
poter eseguire tale attività. Quest’ultimo viene perciò stabilmente inserito nel
ciclo economico del primo; viene perciò “integrato” nel processo produttivo o
distributivo dell’altro imprenditore, il quale trasmette licenze di know-how, di
marchio, di insegna, di brevetto e ne organizza e indirizza il lavoro attraverso
precise direttive riguardanti le modalità della distribuzione o della produzione.
L’obiettivo principale di tali contratti è, quindi, quello di creare agli occhi del
consumatore un’immagine di unità e omogeneità tra i soggetti coinvolti
16
.
I costi sopportati per raggiungere l’integrazione nella struttura organizzativa
del partner contrattuale comportano che l’eventuale interruzione del rapporto
collaborativo si presenti all’integrato come un fatto da evitare; si viene perciò a
creare un barriera all’uscita costituita dalle spese per il mancato ammortamento
dei costi sostenuti e dalle nuove risorse che quest’ultimo dovrebbe spendere per
intraprendere una nuova attività imprenditoriale. Tutto questo può costringere il
soggetto ad accettare condizioni contrattuali svantaggiose in sede di rinnovo del
contratto pur di proseguire il rapporto collaborativo con l’imprenditore al quale è
“integrato”
17
.
Caratteristica degli “imprenditori integrati” è quindi quella di subire una
notevole ingerenza del soggetto al quale sono legati contrattualmente, pur
essendo giuridicamente autonomi ed economicamente indipendenti: infatti il
14
Cfr. A. Luminoso, Manuale di diritto commerciale, a cura di Buonocore V., Torino, 2001, pag. 905,
secondo cui, nell’ambito dei contratti di distribuzione, si è venuta a creare una gamma sfumata di modelli
organizzativi che permettono di coordinare variamente la fase produttiva con quella distributiva,
attraverso un fenomeno economico di “integrazione verticale”.
15
La distribuzione può avere ad oggetto non solo beni ma altresì servizi.
16
Ad esempio su come arredare i locali in cui si svolge la vendita; oppure circa quali materiali usare per
la fabbricare i beni.
17
Cfr. L. Delli Priscoli, La posizione dominante come presenza di una barriera, in Rivista del diritto
commerciale e del diritto generale delle obbligazioni, 1999, fasc. 2, pag. 223.
10
soggetto “integrato” si procura da sé i mezzi per lo svolgimento della propria
attività e si assume personalmente il rischio d’impresa
18
.
In realtà, spesso accade che l’imprenditore integrato risulti di fatto
economicamente dipendente, in quanto spesso “costretto” ad accettare i
“suggerimenti” circa i prezzi da praticare o le strategie commerciali da adottare
nella consapevolezza che questi consigli permetteranno il buon funzionamento
dell’intera catena distributiva o produttiva, attribuendo a se stesso, sia pure di
riflesso, dei vantaggi economici.
La condizione di debolezza dell’imprenditore integrato è rappresentata anche
dal fatto che la sua clientela è a lui legata solo fino a quando disporrà dei segni
distintivi dell’imprenditore concedente; dopo la conclusione del rapporto, non
potendo più esibirli, perderà inevitabilmente buona parte della clientela.
L’imprenditore integrato pertanto può essere destinatario dell’art. 9 della Legge
192/98 che disciplina l’abuso di dipendenza economica, come si esaminerà nel
prossimo capitolo.
1.2 Gli anni Settanta
Il fenomeno commerciale del franchising ebbe inizio negli Stati Uniti nel
periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale e rappresentò una possibilità
di crescita in un periodo caratterizzato da scarsità di risorse e mezzi finanziari.
Il successo si estese negli anni Settanta anche in Europa sull’onda dei buoni
risultati raggiunti oltreoceano. Da subito, ci si pose il problema di come poter
disciplinare tale contratto e, pertanto, vennero avviate dalla Commissione
Europea le prime riflessioni in ordine alla predisposizione di alcune regole guida
a fronte della crescita del franchising, con l’obiettivo di fornire qualche elemento
di certezza, in assenza di un quadro regolamentare.
18
Cfr. L. Delli Priscoli, Franchising, contratti di integrazione e obblighi precontrattuali di informazione
in Rivista del diritto commerciale e del diritto generale delle obbligazioni, 2004, fasc. 10-12, pagg. 1163-
1185.
11
Nel 1976, presso la Commissione Europea
19
venne istituito un gruppo di
lavoro con il compito di valutare l’opportunità di prevedere una disciplina
specifica del franchising, ma, dopo due anni, la sua attività venne terminata in
quanto si giunse alla conclusione che le problematiche andavano affrontate nel
quadro delle regole di concorrenza e che i tempi erano ancora poco maturi perchè
la Commissione dettasse una regolamentazione a livello europeo.
La stessa Commissione ribadì, tuttavia, la necessità che gli imprenditori,
mediante l’individuazione di una serie di regole, adottassero comportamenti
uniformi nel mercato europeo. Ciò che interessava maggiormente era la
questione del rispetto delle regole di concorrenza, soprattutto per quanto
riguardava le garanzie che potevano evitare ripercussioni negative sulle parti e
sui concorrenti esterni alla rete coinvolti nel mercato; le questioni prettamente
civilistiche, invece, andavano momentaneamente lasciate all’autonomia
contrattuale delle parti
20
.
La mancanza di un adeguato apparato normativo contribuì perciò alla graduale
affermazione di una disciplina convenzionale e di meccanismi di
autoregolamentazione, che trovarono la loro massima espressione
nell’elaborazione di codici deontologici
21
: nel 1978 l’Assofranchising
22
propose
un proprio Codice deontologico che assunse maggiore rilevanza nel 1995 grazie
all’adozione di un Regolamento vincolante per i soci dell’associazione
23
; nel
1981 venne pubblicato il “Codice europeo di deontologia del franchising”
24
presentato dalla European Franchising Federation ed elaborato in collaborazione
con la Commissione Europea ed i principali esperti in materia
25
. L’obiettivo di
19
Più precisamente presso la sezione Direzione generale “Mercato interno”.
20
Cfr. E.M. Tripodi, La disciplina italiana del franchising; brevi note alla legge 6 maggio 2004, n. 129 in
Disciplina del commercio e dei servizi, 2004, fasc. 3, pagg. 511-526.
21
I codici deontologici, o codici di condotta, o di autodisciplina, sono un fenomeno tipico delle
associazioni di imprenditori e degli ordini professionali. Essi stabiliscono, spesso in assenza di normative
specifiche, o ad integrazione di esse, le regole di condotta cui gli associati o i professionisti debbono
attenersi, non avendo, quindi, valore normativo erga omnes.
22
Associazione italiana del franchising.
23
Tale Regolamento è oggi denominato Codice Deontologico consultabile sul sito internet
www.assofranchising.it. Esso tiene conto dell’evoluzione della disciplina legislativa, giurisprudenziale ed
autodisciplinare del quadrante europeo.
24
Dopo una prima versione del 1972.
25
Nacque il problema di come gestire i rapporti tra il codice europeo e i diversi codici deontologici
emessi dai singoli Paesi. La dottrina sosteneva che, trattandosi di norme di comportamento fatte proprie
12
quest’ultimo era quello di regolare in modo uniforme i rapporti di franchising
esistenti in tutti i Paesi europei, sia da un punto di vista strettamente commerciale
ravvisando in tale contratto “un sistema di commercializzazione di prodotti e/o
servizi e/o tecnologie basato su una stretta e continuativa collaborazione tra
imprese legalmente e finanziariamente separate ed indipendenti”
26
, sia in una
prospettiva di stampo giuridico ponendo l’accento sul contenuto del contratto, in
forza del quale l’affiliante concedeva ai suoi affiliati il diritto, ed imponeva loro
l’obbligo, di intraprendere un’attività economica in base al sistema elaborato
dall’affiliante. Tale diritto legittimava e obbligava l’affiliato, in cambio di un
corrispettivo finanziario diretto o indiretto, ad usare il nome commerciale e/o i
marchi commerciali e/o i marchi relativi a prestazioni di servizi, il know-how, i
metodi commerciali e tecnici, le procedure e altri diritti di proprietà industriale
e/o intellettuale dell’affiliante, collegati ad una prestazione continuativa di
assistenza commerciale e tecnica, secondo le condizioni di un contratto di
affiliazione scritto, concluso tra le parti
27
.
Tali codici erano stati elaborati al fine di predisporre un insieme di regole
comportamentali, ispirate ai principi di correttezza e professionalità, la cui
ottemperanza favoriva l’instaurazione e lo svolgimento di un rapporto di
franchising corretto. Oltre a delineare i criteri da osservare ai fini della
stipulazione del contratto, i codici deontologici stabilivano in modo preciso e
chiaro anche le obbligazioni nascenti a carico di entrambe le parti, nonché gli
elementi volti a costituire il contenuto minimo essenziale del contratto.
L’inosservanza di tali regole non aveva però nessuna conseguenza giuridica
immediata nei rapporti tra le parti contraenti; tuttavia, la previsione
dalle associazioni di categoria, la disciplina da applicare dovesse ritenersi quella basata su norme meno
severe.
Cfr. A. Frignani, Il franchising, Torino, 1990, pagg. 167-175.
26
Cfr. art. 1 del Codice Deontologico europeo del franchising.
27
Il testo del codice deontologico è stato ampiamente criticato sia sotto il profilo della struttura che quello
della tecnica redazionale. Ad esempio, esaminando il testo il lingua inglese (che risulta essere stata la
lingua di lavoro nell’ultima fase preparatoria del codice, il quale invece prima portava lingua e impronta
francesi) non risultava chiaro cosa doveva intendersi per “rules concernine the contract”, essendo
menzionate sia regole formali che sostanziali. Oltre a ciò, nella versione pubblica distribuita a cura della
Commissione CEE, la traduzione italiana risultava non solo infedele rispetto ai testi inglesi e francesi, ma
altresì erronea nei termini giuridici utilizzati.
Cfr. A. Frignani, Il franchising, Torino, 1990, pagg. 167-175.
13
dell’esclusione dall’associazione dei soci che disattendevano quanto previsto dal
Codice rappresentava un’adeguata sanzione da un punto di vista economico, oltre
a un danno lesivo di immagine per l’imprenditore
28
.
Nel frattempo, alcuni Paesi europei come Francia e Spagna cercavano già di
fornire un’impostazione legislativa orientata ad assicurare ai potenziali affiliati il
maggior numero di informazioni possibili circa l’attività ad essi proposta, in
modo da riequilibrare la disparità informativa tra parti al momento della
conclusione del contratto
29
.
Grazie a tutte queste iniziative, il panorama regolamentare europeo iniziava a
trovare una certa stabilità, anche grazie alla sentenza della Corte di Giustizia sul
caso “Pronuptia”
30
, che gettò le basi giuridiche della materia, e al Regolamento
della Commissione n. 4087/1988 di esenzione per categoria degli accordi di
franchising
31
.
In mancanza, quindi, di una legge specifica che disciplinasse il franchising, il
maggiore problema era quello di fornire una definizione di tale istituto troppo
vasta
32
nella quale potevano anche rientrare una serie di schemi contrattuali
diversi quali l’agenzia, la somministrazione, la concessione a vendere, la licenza
28
Cfr. A. Finessi, La tipizzazione del contratto di franchising e i profili problematici della L. 6 maggio
2004, n. 129 (prima parte) in Studium Iuris, 2004, tomo II, pagg. 1477-1488.
29
Per la Francia cfr. la legge Doubin (legge n. 89-1008 del 31 dicembre 1989) che, per quanto riguarda i
contenuti informativi da presentare al potenziale affiliato, rinvia ad un décret d’application n. 91-337 del
4 aprile 1991.
Per la Spagna cfr. l’art. 62 della legge 15 gennaio 1996, n. 7 che, oltre a prevedere un registro pubblico in
cui devono essere iscritti i franchisors, introduce i prospetti informativi assimilabili a quelli delle imprese
sottoposte a controlli amministrativi.
30
Corte di Giustizia, 28 gennaio 1986, causa 161/84, in Raccolta di giurisprudenza della Corte, 1986,
pag. 353 e ss..
31
Regolamento Cee della Commissione del 30 novembre 1988, n. 4087/1988 concernente l’applicazione
dell’art. 85, par. 3 del Trattato a categorie di accordi di franchising.
32
Il franchising veniva definito come “un sistema di collaborazione tra un produttore (o rivenditore) di
beni od offerente di servizi (franchisor) ed un distributore (franchisee), giuridicamente ed
economicamente indipendenti l’uno dall’altro, ma vincolati da un contratto, in virtù del quale il primo
concede al secondo la facoltà di entrare a far parte della propria catena di distribuzione, con il diritto di
sfruttare, a determinate condizioni e dietro il pagamento di una somma di denaro, brevetti, marchi, nome,
insegna o anche una semplice formula o segreto commerciale a lui appartenente; inoltre il primo si
obbliga a rifornire bene o servizi, mentre il secondo si obbliga a conformarsi ad una serie di
comportamenti prefissati dal primo”. L’elemento essenziale sembrava dunque la trasmissione dal
franchisor al franchisee di una facoltà che il secondo non aveva, a fronte di una controprestazione
prevalentemente, ma non essenzialmente, monetaria.
Cfr. A. Frignani, Factoring, Leasing, Franchising, Concorrenza, 2^ ed., Torino, 1983, pag. 125.
14
ecc.
33
. Da qui ebbe inizio il periodo di maggiore interesse giurisprudenziale per il
franchising, di cui ci occuperemo nei paragrafi che seguono.
1.3 La sentenza “Pronuptia”
Come precedentemente affermato, già negli anni Settanta erano state fornite le
prime definizioni del contratto di franchising, ma solo nel 1986, con l’intervento
della Corte di Giustizia delle Comunità Europee, si riuscì a migliorare il quadro;
la sentenza “Pronuptia”
34
, infatti fornì le basi giurisprudenziali in materia
affermando che, nell’ambito di un sistema di franchising in materia di
distribuzione, l’impresa che si sia stabilita su di un mercato come distributore e
abbia così potuto mettere a punto un insieme di metodi commerciali concede,
dietro corrispettivo, a dei commercianti indipendenti la possibilità di stabilirsi su
altri mercati utilizzando l’insegna ed i metodi commerciali della prima. La Corte
però, rilevò che, sebbene il franchising rappresentasse, per l’impresa, un modo di
sfruttare economicamente, senza investire i propri capitali, un patrimonio di
cognizioni, sotto un altro punto di vista, questo sistema avrebbe consentito ai
commercianti sprovvisti dell’esperienza necessaria di avvalersi di metodi che essi
avrebbero potuto acquisire solo dopo una lunga e laboriosa ricerca e di giovarsi
della reputazione del segno distintivo del concedente.
33
Anche negli Stati Uniti esisteva lo stesso problema e la dottrina affermava che “il termine franchising è
stato applicato indiscriminatamente a rapporti tra loro molto diversi, da impedire ogni definizione. Ad un
estremo esso è la mera concessione, che una pare fa all’altra, di vendere i propri prodotti. All’estremo
opposto è un accordo commerciale globale in cui il franchisor conferisce la licenza del suo marchio e del
suo trade name; comunica, sotto il vincolo segreto, il suo know-how e, su base continuativa, fornisce
guida e dettagli relativi al modo preciso in cui il franchisee deve gestire il suo punto di vendita”. Si è
quindi concluso che il termine franchising “tende a coprire l’interezza dei contratti di distribuzione”.
Cfr. G. Santini, Il commercio, Bologna, 1979, pagg. 53 ss..
34
Corte di Giustizia, 28 gennaio 1986, causa 161/84, in Raccolta di giurisprudenza della Corte, 1986,
pag. 353 e ss.. La causa riguarda una grande azienda francese, Pronuptia, che vende abiti da cerimonia.
L’azienda aveva stipulato un contratto di franchising con un commerciante tedesco che aveva tre sedi:
Amburgo, Oldemburg e Hannover. Nel corso della lite per il pagamento delle royalties arretrate, i giudici
tedeschi si rivolsero alla Corte di Giustizia della Comunità Europee per chiedere se le clausole di quel
particolare contratto di franchising fossero in contrasto con le norme comunitarie in tema di concorrenza.
Si trattava in particolare di clausole che prevedevano l’approvvigionamento esclusivo dei prodotti presso
il franchisor e il divieto di pubblicità se non dietro approvazione del franchisor.
15
La Corte evidenziò, inoltre, il fatto che i contratti di franchising in materia di
distribuzione si differenziano dai contratti di concessione di vendita o da quelli
che vincolavano i rivenditori autorizzati in un sistema di distribuzione selettiva, i
quali non contemplavano né l’uso della stessa insegna, né l’applicazione di
metodi commerciali uniformi né il pagamento di compensi per i vantaggi
concessi.
Come si può notare, la Corte descrisse in maniera molto dettagliata la funzione
economica del contratto, facendo espresso riferimento soltanto ai contratti aventi
per oggetto la distribuzione di prodotti, caratterizzati dal fatto che il franchisor
trasmette al franchisee dei metodi di vendita (know-how commerciale) nonché la
possibilità di utilizzare l’avviamento collegato ad un segno distintivo che
contraddistingue la rete.
Ciò significa che i principi della sentenza non sono necessariamente
applicabili a situazioni diverse da quelle considerate, come ad esempio il
franchising di servizi
35
o forme di franchising basate unicamente sull’immagine
della rete non implicanti la cessione di know-how commerciale. Inoltre, la
sentenza aveva sottolineato la differenza tra franchising di distribuzione e
concessione di vendita; questo problema sorgeva esclusivamente nei paesi
europei, ma non negli Stati Uniti, poiché, la concessione di vendita non esisteva
all’interno dei Paesi di civil law
36
.
La sentenza ha sollevato un grande problema: ci si chiedeva, infatti, se il
franchising fosse contrario alle regole comunitarie in quanto limitativo della
concorrenza.
La Corte, nella sua pronuncia, decise che il franchising non arrecava
pregiudizio alla concorrenza e non ricadeva quindi nel divieto dell’art. 81
37
del
Trattato CE
38
nel caso in cui il franchisor “suggerisse” i prezzi di vendita al
35
Per l’analisi della differenza tra franchising di distribuzione e franchising di servizi si rimanda al
Capitolo 2.
36
Cfr. G. De Nova, voce “Franchising” in Digesto delle discipline privatistiche, Sezione Commerciale,
volume IV, Torino, 1991, pagg. 296-308.
37
Ex art. 85 del Trattato CEE.
38
L’art. 81 del Trattato CE recita: “Sono incompatibili con il mercato comune e vietati tutti gli accordi
tra imprese, tutte le decisioni di associazioni di imprese e tutte le pratiche concordate che possano
pregiudicare il commercio tra Stati membri e che abbiano per oggetto e per effetto di impedire,
16
franchisee, senza quindi imporli. La decisione della Corte di non considerare il
franchising contrario all’art. 81 del Trattato CE realizzava due obiettivi
considerati fondamentali: da un lato, consentire che il know-how potesse essere
trasferito ai franchisees senza che lo stesso andasse a vantaggio dei concorrenti
del concedente, dall’altro, permettere che venisse preservata l’uniformità e la
reputazione della rete.
In questo modo, la Corte ha fatto ricorso allo strumento della rule of reason
39
che consiste in un bilanciamento tra aspetti positivi e negativi di un determinato
fenomeno; tale strumento è stato utilizzato valutando una possibile restrizione
concorrenziale all’interno dell’art. 81 del Trattato CE ammettendo che il
franchising potrebbe essere da un lato lesivo della concorrenza, ma dall’altro, se
visto nel suo complesso potrebbe essere in grado di apportare benefici al
mercato.
Inoltre, la Corte ha individuato un elenco di clausole potenzialmente restrittive
che potevano considerarsi, nel contesto di un contratto di franchising, non
sottoposte al divieto dell’art. 81 del Trattato CE.
Si tratta, in particolare, delle clausole seguenti.
a) Obbligo di non concorrenza: si tratta del divieto imposto al franchisee “di
aprire durante la vigenza del contratto o durante un adeguato periodo dopo la
scadenza dello stesso, negozi per l’esercizio di attività identiche o simili in zone
in cui egli possa trovarsi in concorrenza con commercianti aderenti alla rete di
distribuzione”
40
.
restringere o falsare il gioco della concorrenza all’interno del mercato comune ed in particolare quelli
consistenti nel:
a) fissare direttamente o indirettamente i prezzi d’acquisto o di vendita ovvero altre condizioni di
transazione,
b) limitare o controllare la produzione, gli sbocchi, lo sviluppo tecnico o gli investimenti,
c) ripartire i mercati o le fonti di approvvigionamento,
d) applicare, nei rapporti commerciali con gli altri contraenti, condizioni dissimili per prestazioni
equivalenti, così da determinare per questi ultimi uno svantaggio nella concorrenza,
e) subordinare la conclusione di contratti all’accettazione da parte degli altri contraenti di
prestazioni supplementari, che, per loro natura o secondo gli usi commerciali, non abbiano alcun
nesso con l’oggetto dei contratti stessi.
Gli accordi o decisioni, vietati in virtù del presente articolo, sono nulli di pieno diritto.”
39
Cfr. L. Di Via, Alcune riflessioni sulla rule of reason e il concetto di consistenza di una restrizione
della concorrenza, in Diritto commerciale internazionale, 1996, pag. 289.
40
Sentenza Pronuptia, paragrafo 16.
17
Sembrerebbe quindi che la Corte si preoccupi di impedire la divulgazione del
know-how della rete vietando al franchisee di entrare in rapporti contrattuali con
eventuali concorrenti del franchisor.
Tuttavia, questa interpretazione non si concilia con la limitazione territoriale
dell’obbligo di non concorrenza, essendo evidente che per la divulgazione del
know-how è irrilevante che il franchisee operi per il concorrente in una zona
piuttosto che in un’altra
41
.
Effettuando un’analisi più approfondita è possibile ritenere che la Corte
intendesse invece proteggere il franchisor dal pericolo di uno sviamento della
clientela a favore dei concorrenti: infatti, quando la Corte afferma che l’obbligo
di non concorrenza serve ad evitare che i concorrenti possano giovarsi, anche
indirettamente, delle tecniche e dei metodi del concedente, si presume che
intenda riferirsi non tanto al know-how in quanto tale, ma all’avviamento
costruito grazie a questo.
Questo dovrebbe spiegare il fatto per cui si vieti al franchisee lo svolgimento di
un’attività concorrente unicamente nelle zone in cui operano altri affiliati, in cui
esiste quindi un avviamento da tutelare, e per quanto riguarda anche il divieto
postcontrattuale, solo per un periodo di tempo limitato
42
.
b) Obbligo di vendere esclusivamente prodotti forniti dal franchisor. Nell’ottica
di consentire il controllo sull’omogeneità della rete, la Corte ha ritenuto che
debba essere consentito al franchisor di controllare l’assortimento di tipologie
merceologiche offerte al franchisee, in modo da garantire che il cliente possa
trovare presso ogni negozio affiliato merce della stessa qualità. In alcuni casi
però (ad es. per gli articoli di moda) risulta impossibile stabilire criteri oggettivi,
mentre in altri (ad es. quando la rete è composta da un numero molto elevato di
franchisees) il controllo può rivelarsi troppo costoso; la Corte ha perciò concluso
che “in tali circostanze
43
la clausola che impone all’affiliato di vendere solo
41
Lo stesso vale per la limitazione temporale dell’obbligo di non concorrenza postcontrattuale: se lo
scopo fosse quello di proteggere la riservatezza del know-how, il divieto dovrebbe valere fino a quando
questo non diventi di dominio pubblico.
42
Infatti, è soprattutto nel periodo immediatamente successivo al passaggio del franchisee ad un’altra
rete che si presenta il rischio di uno sviamento della clientela.
43
Molti critici hanno osservato che nel testo italiano della sentenza è stato tradotto “di conseguenza”
invece di “in tali circostanze” trattandosi perciò di un evidente errore di traduzione delle parole “in such