6
e un’armonizzazione dei sistemi sociali dei vari Stati membri, allo scopo di
superare gli squilibri fra le diverse aree regionali della Comunità.
L’autonomia collettiva, ed in particolare la contrattazione collettiva, non
hanno mai avuto vita facile negli ambienti della Comunità, a fronte del loro
sviluppo sia pure diseguale registrato negli Stati membri. Ciò è imputabile
all’ipoteca politica iscritta nel codice genetico del Trattato Cee e nella
filosofia retrostante di protezione della concorrenza e di integrazione dei
mercati. Secondo il Trattato Cee, infatti, l’integrazione europea doveva
essere raggiunta attraverso la via dell’unione economica, e non dell’unione
politica, e ciò determinava un’attribuzione alla Comunità di competenze
molto ridotte nella materia della politica sociale (Art. 2 del Trattato,
collocato tra i Principi: “La Comunità ha il compito di promuovere,
mediante l’instaurazione di un mercato comune e di un’unione economica e
monetaria [...] uno sviluppo armonioso ed equilibrato delle attività
economiche nell’insieme della Comunità, un’espansione continua ed
equilibrata, una stabilità accresciuta, un miglioramento sempre più rapido
del tenore di vita e più strette relazioni fra gli Stati membri”).
Questa “astenia politica” obbligava gli Stati a riporre una compensativa
fiducia nelle virtù sociali del mercato comune, come mostrava l’art. 117 del
Trattato, in base al quale “il miglioramento delle condizioni di vita e di
lavoro della manodopera che consenta la loro parificazione nel progresso”,
sarebbe risultato dal “funzionamento del mercato comune”, oltre che
7
dall’azione delle istituzioni comunitarie2.
La dimensione sociale dello spazio europeo, intesa come componente del
mercato interno, originariamente aveva quindi lo scopo di compensare tale
accentuazione dell’aspetto economico. In base a tale considerazione, si può
concludere che l’idea di un “diritto del lavoro europeo”, nello stesso
significato utilizzato negli ordinamenti nazionali, sia improponibile3. Più
specificamente, la nozione di “diritto del lavoro”, familiare al giurista
italiano, non sembra riproducibile in quella di “politica sociale”
comunitaria; allo stesso modo non sono omogenee le loro funzioni.
Negli ordinamenti occidentali moderni, infatti, il diritto del lavoro nasce
come reazione ad una situazione di sottoprotezione sociale dei lavoratori
subordinati nell’impresa capitalistica. Tale reazione ha lo scopo di
prevenire danni all’interesse generale, o di proteggere il singolo lavoratore
nella formazione di un contratto e nello svolgimento di un rapporto che lo
pone in una situazione di potenziale debolezza nei confronti del suo datore,
e fornirgli, con il riconoscimento della libertà di organizzazione collettiva,
gli strumenti per un autonomo recupero di potere sociale e giuridico.
La politica sociale, invece, come è già stato detto in precedenza, è nata con
lo scopo prevalente di accompagnare lo sviluppo dell’integrazione
economica e del mercato unico, in funzione di uniformazione delle regole
(e soprattutto dei costi) della concorrenza, diretta ad evitare quel particolare
2
Arrigo, Il diritto del lavoro dell’Unione europea, tomo 1, Milano: Giuffrè Editore, 1998, p. 108.
3
Scarpelli, Diritto comunitario, diritto sindacale italiano e sistema di relazioni industriali: principi e
compatibilità, in DRI 1993, n. 1, pp. 151 ss., p. 153.
8
fenomeno distorsivo denominato social dumping.
La politica sociale, di conseguenza, pur essendo indicata nel Trattato come
obiettivo comunitario, veniva in realtà ridotta a politica indiretta, un
risultato automatico del funzionamento del mercato comune europeo. Le
enunciazioni in questa materia erano relegate sul piano delle dichiarazioni
programmatiche, senza che le istituzioni comunitarie avessero gli strumenti
giuridici per la realizzazione degli scopi. La contrattazione collettiva era
costretta quindi a scontare tali ritardi imputabili alla politica sociale
comunitaria. Una Cee dotata di poteri in campo sociale sarebbe potuta
diventare l’interlocutore istituzionale per il sindacato europeo,
quell’autorità di governo che negli Stati membri storicamente ha
rappresentato la fonte di appoggio esterno dell’azione collettiva. Essa
avrebbe potuto svolgere un’attività di programmazione, imponendo con i
propri strumenti giuridici degli standards legislativi e svolgendo una
funzione di mediazione nei momenti più acuti delle vertenze contrattuali. Il
mantenimento della competenza sociale in capo agli esecutivi nazionali
avrebbe invece determinato, oltre che una condizione di debolezza delle
istituzioni comunitarie, anche l’assenza di un interlocutore forte che fosse
in grado di consentire anche nell’ambito comunitario un diritto sindacale
“triangolare". In questo modo i centri decisionali nazionali avrebbero
svolto una funzione di semplice mediazione intergovernativa, volta alla
ricerca di condizioni minime comuni tra gli Stati appartenenti alla Cee, e il
sindacato europeo dei lavoratori avrebbe dovuto fondare le sue
9
rivendicazioni su standards normativi ed economici inferiori a quelli che
avrebbe potuto raggiungere con una separata azione sindacale nei contesti
nazionali più ricchi4. Tutto ciò spiega anche i timori ricorrenti dei sindacati
nordeuropei, per i quali la contrattazione collettiva a livello europeo si
sarebbe potuta svolgere a livelli inferiori a quelli dei loro Paesi.
In conclusione, si può dire che la politica sociale, essendosi sviluppata al
traino delle esigenze dell’integrazione economica, originariamente risultava
priva di una propria autonoma identità, con la conseguenza che, nel
rapporto con il diritto dei singoli Paesi, non si sarebbe potuta comunque
immaginare un’azione di “riregolazione”. Come si vedrà meglio in seguito,
solamente negli ultimi anni si è prodotto un progressivo distacco del diritto
comunitario da una prospettiva meramente mercantilista. Si tratta, tuttavia,
di tendenze che non invertono ancora la rotta che punta principalmente sul
mercato.
2.2 IL PROGRAMMA SOCIALE (1974) E LA TRANSIZIONE
La situazione di stallo insita nel Trattato Cee è stata sbloccata solo negli
anni ‘70, quando alla Conferenza dei capi di Stato e di Governo
dell’ottobre 1972 i governi nazionali affermarono che “un’azione vigorosa
nel campo sociale era importante quanto la realizzazione dell’Unione
economica e monetaria”, ed autorizzarono un primo “Programma di azione
sociale” che il Consiglio adottò nel 1974, su proposta della Commissione.
4
Pilati, Problemi della contrattazione collettiva…, p. 375, cit. a nt. 1.
10
Negli anni ‘80 il progresso sociale comunitario ha conosciuto un’altra
lunga stasi, interrotta solo nel 1986 con l’Atto unico europeo (Aue).
2.3 L’ATTO UNICO EUROPEO (1986)
L’Atto unico europeo (Aue) ha apportato una serie di innovazioni
istituzionali utili per lo sviluppo della politica sociale europea5. Esso,
infatti, ha fatto sì che entrasse per la prima volta nell’ordinamento
comunitario un nuovo principio: il riconoscimento dell’autonomia
normativa delle parti sociali, col superamento, almeno in prospettiva, della
funzione puramente consultiva.
Forse la novità di maggiore rilievo introdotta dall’Aue è costituita proprio
dall’introduzione di quell’istituto chiamato “dialogo sociale”6. Secondo il
tenore dell’art. 22, poi 118B del Trattato7, il dialogo tra le parti sociali che,
secondo l’Atto unico, la Commissione doveva sforzarsi di sviluppare, era
uno schema di intervento in cui il ruolo dell’autorità di governo politico
della Comunità si limitava a una funzione di stimolo delle intese che
avrebbero potuto svilupparsi successivamente ad opera delle sole parti
sociali, cui restava affidato il destino dello sviluppo della contrattazione
collettiva. Con l’art. 22, dunque, si raggiungevano due importanti obiettivi:
5
Arrigo, Il diritto del lavoro…, pp. 130 ss., cit. a nt. 2.
6
Veneziani, Dal dialogo sociale alla contrattazione collettiva nella fase della trasformazione
istituzionale dell’Unione europea”, in RGL, 1998, pp. 239 ss., p. 246.
7
Art. 22, poi 118B del Trattato: “La Commissione si sforza di sviluppare a livello europeo un dialogo tra
le parti sociali, il quale possa sfociare, se esse lo ritengono opportuno, in relazioni convenzionali”.
11
1. Esso costituiva una base giuridica per un’attività della Commissione di
stimolo e di sostegno, in vista di una decisione sul piano del dialogo
sociale riservata alle parti sociali. Il compito della Commissione era
quindi meramente promozionale.
2. Esso introduceva un primo riconoscimento formale delle relazioni
collettive a livello europeo, e nel contempo prefigurava una scelta non
regolativa nei confronti degli strumenti e sviluppi di tali relazioni: le
troppe differenze tra i singoli sistemi di relazioni industriali, così come
tra le regolazioni legali del diritto sindacale nei singoli Paesi,
impedivano di imporre modelli e regole unificanti.
Insomma, nella cauta e timida formulazione della norma si profilavano due
possibili modelli di sviluppo del ruolo dell’autonomia collettiva nella
dimensione europea: da un lato quello di destinataria delle (per così dire)
attenzioni della Commissione, e dall’altro quello di possibile, anche se non
necessaria, protagonista di un processo di negoziazione collettiva.
In ogni caso, per la prima volta un organo di vertice europeo finiva con
l’assumere un ruolo attivo di stimolo e propulsione dei rapporti collettivi.
Secondo una parte della dottrina, “il sistema di relazioni industriali era in
nuce nella scarna struttura della norma, per la verità più carica di previsioni
inespresse che di formule tecnicamente adeguate”8.
In generale, i commentatori hanno salutato l’ingresso del dialogo sociale
8
Veneziani, Dal dialogo sociale alla contrattazione collettiva…, p. 246, cit. a nt. 6.
12
nel vocabolario europeo con ironia; tale atteggiamento ha una
giustificazione storica, nella misura in cui, a distanza di trent’anni dal
Trattato Cee, ci si aspettava forse un maggiore impegno da parte del
legislatore per colmare una delle maggiori carenze della regolazione
comunitaria: l’assenza di un “modello europeo di relazioni professionali”9.
Si deve aggiungere, tuttavia, che proprio sul piano storico è da cogliere
l’innovazione contenuta nell’art. 118B. L’articolo in questione, infatti, era
tecnicamente flebile ed impreciso, e il suo carattere vago era espressione
della resistenza dei vari Stati al trasferimento di poteri comunitari in
materia contrattuale alle parti sociali; esso, tuttavia, consolidava una storia
e una tradizione esistenti alle spalle; era “il riconoscimento esplicito degli
sforzi compiuti per mitigare gli imperativi categorici imposti dal liberismo
manchesteriano, il vero feticcio a cui veniva attribuito il valore di motore
dello sviluppo senza limiti”10.
La storia era senza dubbio quella che muoveva dagli incontri di Val
Duchesse del 12 novembre 1985 tra i futuri attori delle relazioni industriali,
e cioè la Ces (Confèdèration europèenne des syndicats), le associazioni
degli imprenditori privati e pubblici, Unice (Union des industries de la
Communautè europeènne) e Ceep (Centre europeèn des entreprises
publiques), e la Commissione. Ed era ancora la storia dei “pareri comuni”11
9
Veneziani, Dal dialogo sociale alla contrattazione collettiva…, p. 247, cit. a nt. 6.
10
Veneziani, Dal dialogo sociale alla contrattazione collettiva…, p. 247, cit. a nt. 6.
11
Gli incontri svoltisi a Val Duchesse avevano condotto ad una Dichiarazione comune di intenti sul
dialogo sociale e le nuove tecnologie; erano seguiti poi altri pareri comuni nel 1986 e nel 1987,
riguardanti rispettivamente una “strategia di cooperazione per la crescita e l’occupazione” e la
“formazione e la motivazione, l’informazione e la consultazione”; tali incontri avrebbero trovato infine un
consolidamento nel 1989, con la riunione di Palais d’Egmont (creazione di un Gruppo di pilotaggio a
13
scaturiti da quegli episodi, come esiti deboli dal punto di vista tecnico
giuridico, strutturalmente inadatti a creare vincoli giuridici (perché la
maggioranza degli autori ritiene che l’accordo si sia formato non su di una
regola, ma, su di una opinione, e ciò è accaduto per l’assenza nei
negoziatori di mandati a negoziare), ma in ogni caso sensori di una prassi e
di un metodo che si sarebbero ripetuti anche in futuro. Con l’Aue, dunque,
veniva istituzionalizzata la prassi di tali riunioni fra la Commissione e le
parti sociali.
Secondo una parte della dottrina, il dialogo sociale, sia pure caratterizzato
dai suoi due ruoli, di specchio della storia e di categoria giuridica figlia di
una gracile tecnica normativa, andava quindi apprezzato per il valore di
metodo che gli è (tuttora) attribuibile, e non certo per le proprietà tecnico-
formali che una disciplina di rango dovrebbe contenere. Sotto questo
profilo, la portata delle innovazioni introdotte dall’art. 118B era dunque
alquanto limitata, dato che esso né imponeva alla Commissione degli
obblighi giuridici, né offriva una legittimazione diretta al contratto
collettivo come fonte del diritto concorrente con gli atti delle istituzioni
comunitarie. Il testo della norma parlava infatti in via primaria di uno
stimolo al dialogo fra le parti sociali, che eventualmente, ma senza alcun
vincolo, sarebbe potuto sfociare in relazioni convenzionali. Per non tacere,
poi, della inadeguatezza della traduzione del termine “conventionelle”
livello politico presieduto dal Commissario per gli affari sociali il quale doveva organizzare su base
permanente i lavori del dialogo sociale), di cui si dirà anche infra.
14
(convenzionali), che nei rispettivi testi francesi e tedeschi era invece reso,
più opportunamente, con espressioni equivalenti a “relazioni contrattuali”.
L’Aue, inoltre, evocava i protagonisti della scena, ma ad essi riconosceva
poteri limitati e, come si è detto, largamente volontari; indicava sì le
funzioni dagli stessi svolte, ma non assegnava loro alcuna fisionomia
tecnicamente precisa. La formula si presentava aperta e poteva
ricomprendere, come ricomprese, di tutto, di tutto ciò che potesse rientrare
in un ampio processo di negoziazione trilaterale e bilaterale, dalle semplici
intese, alle raccomandazioni comuni, alla contrattazione, sia pure nella
forma non reciprocamente impegnativa degli accordi quadro12. L’Aue
legittimava, quindi, il semplice dialogo, ma era come se si arrestasse alle
soglie della contrattazione collettiva tout court, per la quale, come
insegnano le esperienze emergenti a livello comparato, c’è bisogno di
strutture portanti che corroborino la vincolatività dell’atto (forma,
legittimazione dei soggetti contraenti, efficacia)13.
Per concludere, si può dire che la categoria formale introdotta nel 1987 in
sé avrebbe potuto, se solo si fosse voluto, conferire dignità formale a
quell’embrione di sistema di relazioni industriali che si stava sviluppando
all’ombra del Trattato.
Un’altra innovazione degna di nota introdotta dall’Aue è rappresentata
dall’art. 21, poi art. 118A del Trattato, par. 214. Tale articolo, infatti,
12
Veneziani, Dal dialogo sociale alla contrattazione collettiva…, p. 248, cit. a nt. 6.
13
Veneziani, Dal dialogo sociale alla contrattazione collettiva…, p. 249, cit. a nt. 6.
14
Art. 21, poi art. 118A, par. 2 del Trattato: “[…] Il Consiglio […] adotta mediante direttive le
prescrizioni minime applicabili progressivamente, tenendo conto delle condizioni e delle normative
tecniche esistenti in ciascuno Stato membro…”.
15
insieme all’art. 118B, mostrava come nel diritto del lavoro comunitario
coesistessero due concezioni, che apparentemente sembravano contrastanti,
ma che in realtà erano tra loro complementari, e cioè:
1. L’attuazione di un’armonizzazione normativa mediante direttive, con lo
scopo di eliminare le differenze di trattamento tra i vari ordinamenti
nazionali;
2. L’esigenza di affidare la disciplina ad una fonte giuridica collettiva, che
fosse in grado di tener conto delle diversità delle prassi e delle tradizioni
nazionali e dotata di maggiore effettività nei vari contesti nazionali.
La Commissione aveva cercato di conciliare queste due concezioni,
affermando che, per realizzare l’Europa sociale, non fosse opportuno
arrivare ad una uniformazione dei vari diritti sociali nazionali, bensì fosse
necessario tenere in giusta considerazione le differenze esistenti nei sistemi
giuridici e nelle prassi e tradizioni degli Stati membri. Per realizzare ciò, la
disciplina sociale comunitaria doveva limitarsi ad una regolamentazione
di base, di prescrizioni minime, che sarebbero poi state sviluppate nei
singoli ordinamenti nazionali.
In questo senso si è parlato di:
1. Sussidiarietà verticale: l’intervento comunitario è necessario solo se la
materia non può essere regolata al meglio a livello nazionale;
2. Sussidiarietà orizzontale: una ripartizione “giudiziosa” di potere
normativo tra la fonte legislativa e quella contrattuale.
16
2.4 LA CARTA COMUNITARIA DEI DIRITTI SOCIALI FONDAMENTALI E IL
GRUPPO DI PILOTAGGIO (1989)
Le innovazioni introdotte dall’Aue riflettono il mutamento ideologico che
era in atto in quegli anni: sette anni dopo tale atto, Jaques Delors affermava
che “La contrattazione collettiva è uno dei fondamentali pilastri
dell’economia del mercato sociale”15. Tale affermazione evidenziava la
convinzione che fosse necessario ribaltare la logica che aveva segnato il
Trattato di Roma quarant’anni prima, che la dimensione sociale non
scaturisse automaticamente dall’instaurarsi del mercato unificato delle
merci, ma che solo a condizione di ottenere un largo consenso sociale
potesse realizzarsi l’obiettivo economico voluto16. Questa dichiarazione di
principio può oggi servire a capire anche quanta traccia di questa ideologia
del “mercato sociale” sia presente nei successivi atti politici comunitari.
Uno di essi è la Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei
lavoratori, adottata nel 1989 come dichiarazione solenne da undici Stati
membri, escluso il Regno Unito. Essa ha portato al riconoscimento di un
insieme organico di diritti sociali fondamentali; inoltre le raccomandazioni
in essa contenute sostenevano che fosse necessario sostenere la
contrattazione collettiva e il dialogo sociale comunitario. Nella parte
dedicata alla “libertà di associazione e contrattazione collettiva” vi era una
15
Conferenza sul futuro della politica sociale europea, Options for Union, Bruxelles, 26-28 maggio 1994,
p. 5. L’autore è citato da Veneziani, Dal dialogo sociale alla contrattazione collettiva…, p. 249, cit. a nt.
6.
16
Ve neziani, Dal dialogo sociale alla contrattazione collettiva…, p. 250, cit. a nt. 6.
17
disposizione dedicata al dialogo sociale la quale confermava
sostanzialmente l’art. 118B e la scelta del riconoscimento dell’autonomia
normativa delle parti sociali europee, indicando, in più, gli ambiti che più
credibilmente avrebbero potuto vedere sviluppi di carattere convenzionale,
esplicitamente definiti contrattuali17.
Le tappe attraverso le quali si è consolidata la filosofia del “mercato
sociale” appartengono alla storia recente: gli incontri nella seconda metà
degli anni ottanta, sempre su iniziativa della Commissione, portavano,
attraverso il già citato Accordo di Palais d’Egmont del 12 gennaio 1989,
alla costruzione di un Gruppo di pilotaggio incaricato di potenziare le
relazioni collettive. La tappa finale è rappresentata dall’Accordo sulla
politica sociale18.
2.5 L’ACCORDO SULLA POLITICA SOCIALE (1991) E IL TRATTATO DI
AMSTERDAM (1997)
Gli obiettivi prefissati dalla Carta sociale in materia di contrattazione sono
stati ripresi nell’Accordo sulla politica sociale (Aps), allegato al Trattato di
Maastricht tramite un apposito Protocollo, e trasposizione quasi letterale di
una Dichiarazione comune sottoscritta nel 1991 da Ces, Unice e Ceep, in
conclusione di un complicato negoziato avviato su impulso della
Commissione. Tale negoziato aveva lo scopo di portare alla conferenza
17
Art. 12, 2° comma: “ Il dialogo che deve instaurarsi tra le parti sociali a livello europeo può giungere,
se esse lo ritengono auspicabile, a rapporti contrattuali, soprattutto su scala interprofessionale e
settoriale”.
18
Veneziani, Dal dialogo sociale alla contrattazione collettiva…, p. 250, cit. a nt. 6.
18
intergovernativa una posizione comune delle parti sociali favorevole al
rafforzamento del dialogo sociale ed al riconoscimento del contratto
collettivo come fonte normativa in ambito comunitario. In questa
Dichiarazione comune l’Unice e la Ces, che sostenevano due punti di vista
opposti, avevano trovato un momentaneo accordo. L’Unice, infatti, era
tradizionalmente contraria ad un’evoluzione istituzionale della politica
sociale, mostrando una preferenza per la voie conventionelle19, mentre la
Ces aveva in precedenza manifestato una propensione per una più incisiva
attività normativa delle istituzioni, ritenuta “necessaria per rafforzare il
dialogo sociale e costruire un autentico spazio sociale europeo” (Congresso
di Lussemburgo del 1991).
I capisaldi dell’accordo consistono in:
1. Un ampliamento delle competenze comunitarie in materia sociale;
2. Un’estensione delle procedure di deliberazione del Consiglio a
maggioranza qualificata, peraltro con efficacia territorialmente limitata
agli undici Stati firmatari dell’Aps (vedi infra);
3. Un sostegno alla contrattazione collettiva. Sotto questo aspetto, l’Aps
riprende e rilancia l’originaria ispirazione dell’Atto unico europeo,
sviluppandola sul piano della ingegneria istituzionale, che ridisegna una
nuova mappa della dislocazione dei poteri pubblici e privati20.
19
Arrigo, Il diritto del lavoro…, p.140, cit. a nt. 2.
20
Veneziani, Dal dialogo sociale alla contrattazione collettiva…, p. 250, cit. a nt. 6.
19
L’Aps è stato concluso dagli undici Stati membri che avevano sottoscritto
la Carta, e quindi sempre con l’opposizione del Regno Unito, ma,
differentemente da essa, era produttivo di norme immediatamente efficaci.
In un secondo tempo esso è stato sottoscritto da Austria, Finlandia e Svezia,
in seguito alla loro adesione all’Unione europea nel 1995. Si è aperta così
una fase di integrazione sociale differenziata21. Più specificamente, l’Aps
ha costituito una base giuridica di una politica sociale a “undici Stati” (poi
divenuta a “quattordici Stati”). Esso conteneva importanti innovazioni
istituzionali: come è stato visto precedentemente, conferiva alla Comunità
europea competenze sociali più ampie e prevedeva procedure di
deliberazione a maggioranza qualificata, seppure con efficacia territoriale
limitata agli Stati firmatari; in secondo luogo valorizzava l’autonomia
contrattuale nei modi che si vedranno in seguito. Gli atti normativi in tal
modo adottati, e le eventuali “conseguenze finanziarie diverse dalle spese
amministrative sostenute dalle istituzioni”, tuttavia, non erano applicabili al
Regno Unito che, pertanto, veniva esonerato dagli obblighi e dagli oneri
derivanti dall’applicazione dell’Aps. La scelta di condurre una politica
sociale differenziata, in realtà, non era inedita nell’esperienza giuridica
comunitaria, trattandosi di una delle forme di integrazione differenziata o a
geometria variabile note alla tradizione comunitaria. I limiti più vistosi
dell’Aps non stavano tanto nella sua atipica configurazione giuridica,
quanto nel fatto che l’Accordo non favoriva la coerenza né l’omogeneità
21
Arrigo, Il dialogo sociale istituzionale dopo il Trattato di Amsterdam, in LI n. 15-16 1998, pp. 5 ss., pp.
7 ss.