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benessere del fanciullo e capaci di offrire gli aiuti appropriati ai genitori o ai tutori legali
del bambino (Cantatore, 2005). La Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia stabilisce che
il bambino i cui genitori (o uno solo dei due) si trovano in stato di reclusione, deve avere la
possibilità di portare avanti con loro un legame appropriato.
È ormai dimostrato che una vita familiare equilibrata e soddisfacente (in particolare
un buon legame con i genitori) sono elementi molto importanti per lo sviluppo intellettuale
e sociale del bambino.
A questo proposito è però importante specificare che in alcune situazioni e davanti
ad alcuni particolari reati (come i casi di abuso e pedofilia) mantenere una continuità nella
relazione padre-figlio non sempre è funzionale. Davanti ad un padre che abusa fisicamente
o sessualmente del proprio bambino e in una situazione in cui si accerta la possibilità di
ulteriori abusi o in cui il genitore non-abusante non crede al bambino (e quindi non è in
grado di proteggerlo) è indispensabile l’allontanamento temporaneo del bambino in una
struttura protetta e quindi anche l’interruzione del rapporto con il padre abusante. La non-
continuità del legame padre-figli può essere motivata e richiesta dal Tribunale dei minori
in altri casi e davanti ad altri particolari reati in cui si dimostri l’incapacità genitoriale del
reo.
Il campione da me analizzato all’interno del Penale è composto da soggetti ai quali
il Tribunale e il Personale addetto all’Osservazione e Trattamento dei detenuti non ha
vietato l’incontro con i propri figli. Nonostante ciò, ci sono stati dei casi in cui a mio parere
il padre poteva non rappresentare un valido modello o esempio per il figlio (situazioni
come queste però non erano così estreme da determinare una completa negatività o
incapacità del ruolo genitoriale).
L’interruzione del rapporto con il padre può creare una serie di problematiche per il
figlio e risulta difficile e complicato continuare ad esercitare la paternità quando si è in
carcere. Molto spesso l’arresto del padre comporta un interruzione della vita affettiva nella
coppia ed è per questo motivo che diminuiscono ancor di più le possibilità del genitore
ristretto di vedere il figlio.
È importante, per garantire un ottimale sviluppo psicofisico del bambino che egli
continui a mantenere un rapporto con il padre detenuto (sempre laddove la capacità
genitoriale del recluso non risulti compromessa).
A questo proposito è bene ricordare che nella Casa Circondariale di Milano “San
Vittore” sono state attivate diverse iniziative volte al sostegno del mantenimento del
legame tra il genitore detenuto e i figli.
9
Queste esperienze includono: i momenti di incontro tra genitori e figli, l’attivazione
dei colloqui Area Verde, interventi volti al rafforzamento della genitorialità e tanti altri
ancora (Galletti, Longo, 2005).
Il rapporto tra i figli e il padre in prigione è reso difficile da una serie di fattori
psicologici ma anche da diversi aspetti sociali. Basti pensare al fatto che i figli, per poter
avere il colloquio con il proprio genitore, vengono perquisiti dagli agenti penitenziari per
poi incontrare il padre in grandi sale spesso squallide, rumorose e piene di estranei o di
agenti in divisa. Questo porta il bambino a vivere l’incontro con il genitore ancor più
carico di tensione.
Ho deciso di iniziare questo lavoro con una breve analisi del sistema carcerario e
della riforma penitenziaria che ha cambiato la funzione della pena.
Ho continuato affrontando il tema della sofferenza del detenuto (che è una delle
vere priorità del carcere), la sindrome da Prisonizzazione (che non potevo non citare
perché il campione da me analizzato è detenuto nel Penale e quindi si trova a scontare una
lunga pena) e i purtroppo molto frequenti casi di suicidio e autolesionismo.
Visto l’argomento che ho deciso di affrontare e dato il mio particolare interesse per
l’approccio sistemico relazionale ho voluto parlare della famiglia secondo l’ottica
sistemico relazionale.
Prima di riportare la mia esperienza con i detenuti all’interno della Casa di
Reclusione di Rebibbia, è stato sicuramente necessario analizzare il tema della co-
genitorialità e della genitorialità, il ruolo educativo (e non solo) del padre all’interno della
famiglia e gli effetti sui figli della sua assenza insieme alla riorganizzazione dell’assetto
familiare in seguito alla carcerazione del genitore.
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CAPITOLO I
LA CARCERAZIONE
1.1. Il carcere: dalla riforma penitenziaria del 1975 alla legge Gozzini
“Le pene non possono consistere in trattamenti
contrari al senso di umanità e devono tendere
alla rieducazione del condannato”
Dall’Art. 27 della Costituzione
Il carcere è un’Istituzione totale caratterizzata da una struttura gerarchica in cui
sono presenti delle regole finalizzate a controllare comportamenti, compiti, ruoli e altro.
Ogni momento della vita del ristretto è controllata e organizzata secondo ritmi prestabiliti.
Il principale obiettivo dell’Istituzione Penitenziaria è di isolare i soggetti ritenuti pericolosi
per garantire la sicurezza sociale. Il carcere rientra nella categoria delle Istituzioni
positive/intenzionali che seguono la normativa giuridica (Serra, 2004).
È bene sapere che in passato le prigioni erano caratterizzate dalla vendicatività e
dalla ferocia; ogni tipo di reato veniva espiato attraverso le punizioni corporali.
Nel Nord degli Stati Uniti erano presenti tre tipologie di sistema penitenziario:
1) Il “Sistema Filadelfiano” caratterizzato dall’isolamento totale del detenuto;
2) Il “Sistema Auburniano” caratterizzato dall’isolamento notturno del reo e dall’obbligo
di lavorare insieme agli altri detenuti durante il giorno rimanendo però nell’assoluto
silenzio;
3) Il “Sistema Irlandese” caratterizzato da otto-nove mesi di Regime Filadelfiano, da
diversi mesi di Regime Auburniano e infine dal lavoro all’aperto fino ad ottenere la
libertà in prova.
In tali contesti non si prestava attenzione allo studio della personalità del carcerato e non
esistevano delle pene specifiche per le varie categorie di detenuti. Gradualmente, con il
passare degli anni, la funzione della pena subisce dei cambiamenti.
Con l’istituzione della Legge 354 del 1975 si mette in luce l’importanza di
risocializzare il reo; si prevede così una pena rieducativa (Di Gennaro, Breda, La Greca,
1999). Da questo momento in poi il ristretto comincia ad essere visto come una persona
con una propria dignità da rispettare. Inizia anche lo studio scientifico della personalità del
11
detenuto in modo tale da permettere che le pene siano individualizzate, cioè adatte alle
caratteristiche e alla personalità di ogni singolo detenuto (Serra, 2005). L’osservazione e il
trattamento dei carcerati è stato possibile grazie all’introduzione nei penitenziari di figure
professionali specializzate come psicologi, criminologi, psichiatri, assistenti sociali ed
educatori. Oltre al bisogno di rieducare il detenuto, la riforma penitenziaria del ’75 si pone
l’obiettivo di ridurre la tensione tra i ristretti e di attenuare le rivolte carcerarie; questo
perché la legge dà la possibilità, al detenuto che ha avuto un comportamento calmo e
pacifico, di poter usufruire di una serie di benefici (Di Gennaro, 2005).
La legge del 26 luglio 1975 ha introdotto nel nostro Paese una serie di misure alternative e
sostitutive alla detenzione :
• Affidamento in prova al servizio sociale: questa è la misura alternativa in eccellenza,
volta a evitare la carcerazione a soggetti non ritenuti pericolosi e a permetterne il
reinserimento sociale per mezzo del controllo e dell’assistenza dei servizi sociali. Può
essere concessa ai soggetti con una pena o con un residuo di pena inferiore ai 3 anni;
inferiore ai 4 qualora il detenuto sia tossicodipendente o alcool-dipendente;
• La semilibertà: lo stato di detenzione permane anche se intervallato da contatti con
l’ambiente esterno che permettono al detenuto di partecipare ad attività lavorative e ad
altre attività volte al reinserimento sociale. Ne possono usufruire i reclusi che hanno
scontato almeno metà della pena o almeno i due terzi della pena nel caso di reati gravi;
• La libertà anticipata: consiste in una riduzione della pena, concessa ai detenuti come
riconoscimento della “buona condotta” mantenuta. Può essere concessa anche ai
detenuti che scontano la pena in semilibertà o in detenzione domiciliare;
• I permessi premio: possono essere concessi al detenuto, solo dopo che ha scontato una
parte della pena, per coltivare principalmente interessi familiari);
• Il lavoro all’esterno dell’istituto: è noto anche come Articolo 21 dell’Ordinamento
Penitenziario; esso prevede la possibilità che i detenuti escano dal carcere per lavorare
ed anche per studiare. È la misura alternativa alla carcerazione i cui termini maturano
più in fretta.
Queste misure orientano l’esecuzione penale sul concetto di “Decarcerizzazione” e sono
riservate a quei detenuti che sono stati condannati definitivamente, cioè a tutti quei soggetti
verso i quali il giudice ha pronunciato un “verdetto di colpevolezza”. Per la concessione
12
del beneficio è importante che il detenuto mostri partecipazione attiva all’opera di
rieducazione, un comportamento meritevole e l’abbandono dei disvalori che sono stati
all’origine del crimine (Ponti, 1999).
L’introduzione della successiva legge n° 663 del 1986, nota come “Legge Gozzini”,
ha permesso di apportare alcuni cambiamenti sulla precedente legge. Essa si basa
principalmente sulla partecipazione e cooperazione collettiva e introduce un nuovo regime
di permessi premio per coloro che hanno avuto una condotta regolare. Grazie
all’approvazione del cosiddetto “Diritto Premiale” questa nuova legge incita i ristretti a
mettere in atto un comportamento collaborativo e quieto.
La legge, inoltre, introduce la “Detenzione Domiciliare”, una misura alternativa che
permette di scontare la pena nella propria abitazione o in un altro luogo pubblico quando
si tratta di:
Donna incinta o madre con figli di età inferiore ai 10 anni;
Padre esercente la potestà di prole di età inferiore ai di 10 anni, quando la madre è
deceduta o non in grado di dare assistenza;
Soggetto in condizioni di salute molto gravi o d’età superiore ai 60 anni.
Questa misura (che è rivolta ha chi è già stato condannato dal giudice) non deve essere
confusa con gli arresti domiciliari che si applicano invece nella fase processuale quando vi
sono gravi indizi di colpevolezza. L’attuazione di questa legge mette in luce l’importanza
della riduzione della pena (nei limiti del possibile) perché si crede che il detenuto abbia
maggiori probabilità di reintegrarsi nella società se il reinserimento in essa è più veloce
(Serra, 2005).
1.2. La sofferenza mentale in carcere
“Un essere vivente ha bisogno in ogni momento,
per vivere di qualcosa di estraneo a sé con cui interagire.
La vita è aperta.
Un essere umano totalmente isolato muore immediatamente”
La sofferenza mentale o psicologica è una delle vere priorità del carcere. La
detenzione è prima di tutto un’azione, quella di chiudere dentro qualcuno, condurlo e
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relegarlo in un sistema chiuso dove si sente solo ed isolato. Una volta dentro la vita
relazionale e personale del soggetto viene profondamente alterata. Il detenuto è una
persona privata di diversi elementi molto importanti come la libertà, le relazioni sessuali,
l’autonomia, la sicurezza, i beni, i servizi e tanti altri. Entrando in prigione, il soggetto non
ha possibilità di scegliere neanche le cose più elementari come il momento in cui lavarsi, il
momento in cui andare a dormire, cosa e quando mangiare. Tutta la sua vita è severamente
controllata e prestabilita da ritmi e regole abbastanza rigide.
Le principali emozioni vissute dal reo sono:
a) La “nostalgia” per tutto ciò che sta fuori dall’Istituto, in modo particolare la famiglia e
la libertà;
b) La “rabbia” che raramente il detenuto può manifestare liberamente e che quindi
trasforma in auto-agressività;
c) La “tristezza” per sentirsi solo e isolato in un mondo che è completamente diverso dal
precedente
d) La “paura” per l’incertezza del proprio futuro.
La mancanza di stimolazione e la monotonia possono profondamente influenzare la
psicologia dei ristretti. È infatti molto frequente che il detenuto, soprattutto nei primi
cinque mesi di detenzione, vada incontro ad una sindrome depressiva.
Molti ristretti inoltre possono sviluppare la cosiddetta “Sindrome di
Congelamento”, caratterizzata da passività, incapacità a provare emozioni e perdita di
contatto con la realtà (Serra, 2004).
Altri disturbi psichiatrici e problemi di comportamento di frequente riscontro
all’interno del carcere sono: l’ansia, le depressioni, la mania, i disturbi somatoformi, e lo
sciopero della fame. Quest’ultimo può trovarsi spesso in associazione a disturbi psicotici o
di personalità o a disturbi dell’alimentazione; ma più frequentemente si presenta come un
fenomeno a sé stante, volontario e programmato e finalizzato al raggiungimento di
obiettivi ben precisi (Costa, 2001).
Il soggetto che sviluppa uno stato d’ansia percepisce qualcosa di penoso che crea
disagio ed agitazione ed ha l’impressione che stia per capitare qualcosa di spiacevole.
14
L’Ansia è caratterizzata dalla presenza di una sintomatologia somatica e psicologica (Sims,
1995)
3
.
Tra i sintomi somatici è bene ricordare:
9 Palpitazioni;
9 Senso di costrizione e difficoltà a respirare;
9 Mancanza di salivazione;
9 Nausea;
9 Frequente minzione;
9 Vertigini;
9 Sudorazione elevata;
9 Tensione muscolare;
9 Tremori e pelle fredda;
9 Dolori e fastidi addominali.
Tra le manifestazioni psichiche, di solito si presentano le seguenti:
9 Senso di terrore;
9 Senso di minaccia;
9 Irritabilità;
9 Panico e terrore interiore;
9 Difficoltà nell’attenzione e nella concentrazione;
9 Insonnia;
9 Difficoltà a rilassarsi;
9 Preoccupazione per nulla di fondato.
Nel caso della Depressione il soggetto presenta uno stato emozionale caratterizzato
da malinconia e tristezza, sentimenti di inadeguatezza, perdita di interessi e di piacere,
sensazione di blocco nello scorrere del tempo. La persona che ne soffre manifesta
rallentamento motorio e del pensiero, torpore delle funzioni vegetative come il desiderio
sessuale e l’appetito, difficoltà del sonno, disturbi somatoformi o altri disturbi di tipo
organico. In base alla durata, all’inizio, all’intensità e al decorso di questa condizione, si
3
Traduzione italiana 1997.
15
può parlare di diverse forme cliniche di depressione come: depressione maggiore,
depressione reattiva e distimia (Costa, 2001).
Per quanto riguarda la Mania, si parla di “Episodio Maniacale” nel caso in cui il
soggetto presenti umore anormalmente elevato o irritabile della durata di almeno una
settimana. Nel periodo di alterazione dell’umore possono presentarsi in maniera persistente
tre o più dei seguenti sintomi: autostima ipertrofica, eccessiva loquacità, fuga delle idee,
agitazione psicomotoria, distraibilità, diminuzione del bisogno del sonno (ad esempio il
soggetto si sente riposato dopo aver dormito solo per tre ore). I sintomi causano una forte
compromissione a livello lavorativo o sociale e portano all’ospedalizzazione per evitare
danni a sé o agli altri. Si parla invece di “Episodio Ipomaniacale” quando il soggetto
presenta umore persistentemente elevato o irritabile che dura ininterrottamente per almeno
quattro giorni. Nel periodo di alterazione dell’umore possono presentarsi tre o più dei
seguenti sintomi: autostima ipertrofica, maggiore loquacità del solito, fuga delle idee,
diminuzione del bisogno del sonno. Contrariamente all’Episodio Maniacale, in questo caso
la sintomatologia non è abbastanza grave da procurare una menomazione significativa a
livello lavorativo o sociale o da richiedere l’ospedalizzazione (Mancinelli, Pompili, 2003).
I Disturbi Somatoformi sono caratterizzati dalla presenza di sintomi di tipo fisico,
che fanno pensare ad una condizione medica generale che viene poi esclusa dopo accurati
esami di laboratorio. La sintomatologia inoltre non è la conseguenza diretta di una
sostanza.
I disturbi somatoformi comprendono diverse sottocategorie:
9 Disturbo di somatizzazione: è caratterizzato da diversi sintomi che durano per più anni
e che solitamente compaiono prima dei 30 anni;
9 Disturbo somatoforme indifferenziato: è caratterizzato da lamentele fisiche non
giustificate e la sua durata è di almeno 6 mesi;
9 Disturbo da dolore psicogeno: il dolore è il punto focale principale del cambiamento
clinico;
9 Disturbo da conversione: è caratterizzato da sintomi ingiustificati di deficit che
riguardano le funzioni motorie volontarie e sensitive, che fanno pensare ad una
condizione neurologica o medica;
16
9 Ipocondria: in questo caso il soggetto teme o è convinto di avere una grave malattia e la
sua preoccupazione sussiste anche dopo le rassicurazioni mediche;
9 Dismorfismo corporeo: è caratterizzato da eccessiva preoccupazione per un presunto
difetto dell’aspetto fisico;
9 Disturbo somatoforme non altrimenti specificato: è caratterizzato da una
sintomatologia che non soddisfa i criteri diagnostici dei precedenti disturbi.
In tutte le categorie di disturbo somatoforme i sintomi causano una forte compromissione a
livello sociale, lavorativo e anche in altre aree (American Psychiatric Association, 1994)
4
.
In psichiatria si parla di “Psicosi da Detenzione”, in riferimento a quei soggetti che
vivono periodi prolungati in una condizione di isolamento, con scarse probabilità di
comunicazione. È frequente, in questi casi, il presentarsi di stati d’ansia con tendenza
all’interpretazione delirante, e a volte anche di episodi allucinatori (Galimberti, 2006).
1.3. La prisonizzazione
“Per tutti i carceri, vecchi e nuovi,
intorno c’è un’impalpabile, ma ugualmente reale,
cintura di sicurezza, una sorta di terra di nessuno,
una spessa cortina fatta di barriere materiali e psicologiche,
che fanno essere il carcere una struttura fuori dal mondo,
una sorta di extraterritorialità, una realtà pesantemente estranea”
Benigni
Il carcere è un’Istituzione totale che priva il detenuto della propria identità,
imponendo regole rigide e autoritarie. L’ingresso al suo interno è sicuramente e
inevitabilmente molto traumatico; il soggetto è impossibilitato allo scambio sociale e
all’uscita verso il mondo esterno.
Quando una persona viene obbligatoriamente privata delle stimolazioni relazionali
e sociali, viene conseguentemente toccata nel cuore della sua umanità e per questo ferita e
mutilata.
L’Istituzione Penitenziaria lascia un profondo segno nell’esperienza psichica del
soggetto e sono veramente pochi quelli che riescono ad uscire dal carcere interamente
indenni. Capita spesso invece che i detenuti sviluppino gravi e complesse reazioni
psicopatologiche, ma è bene ricordare che l’influenza del periodo di detenzione dipende
4
Traduzione italiana 1996.
17
molto dalla struttura di personalità presente già prima dell’ingresso in carcere e
dall’interazione di altri fattori di tipo psicologico, sociale e biologico.
Goffman (1961)
5
ritiene che il processo di adattamento psicologico del ristretto, che
in alcuni casi può portare ad una grave e irreversibile alterazione dell’apparato
psicologico, è caratterizzato dalle seguenti fasi:
♦ Ritiro dalla situazione: il detenuto “ritira” apparentemente l’interesse da tutto quanto e
si concentra unicamente su ciò che riguarda il proprio corpo. Questa diminuzione di
interesse per gli eventi (nota come regressione) porta alla istituzionalizzazione
carceraria e può in un secondo momento trasformarsi in una psicosi carceraria. Le
psicosi sono quelle patologie in cui il soggetto perde quasi totalmente la capacità di
capire la realtà in cui vive e in cui tende a mettere in atto un comportamento non più
autonomo e responsabile;
♦ Linea intransigente: il soggetto si rifiuta di collaborare con il personale di polizia
penitenziaria e con gli altri operatori specializzati (psicologici, educatori, assistenti
sociali) e sfida volontariamente l’Istituzione carceraria. Questa reazione solitamente si
presenta nella fase iniziale e tende ad essere temporanea;
♦ Colonizzazione: la realtà che l’Istituzione offre al detenuto è percepita da lui come tutta
e l’unica realtà. Egli riesce così a costruirsi una vita stabile e parzialmente serena. Il
detenuto che riesce ad accettare facilmente questa linea di adattamento, viene visto
dagli altri ristretti come uno a cui “le cose non gli sono mai andate così bene e come
uno che ha trovato casa”. Per questo, i coloni possono arrivare a smentire il piacere con
cui si sentono legati al penitenziario, per essere solidali con i compagni di detenzione;
♦ Conversione: l’internato cerca di recitare il ruolo del detenuto perfetto mettendosi a
completa disposizione dello staff penitenziario, assumendo su di sé l’idea che il
personale penitenziario ha di lui.
Goffman (1961) dimostra che è raro che i detenuti seguano una sola di queste fasi;
solitamente tendono a combinarle seguendo la linea nota come il “prendersela calma” (il
soggetto tende così a mostrarsi docile davanti allo staff, mentre davanti ai compagni di
cella cambia faccia appoggiando le loro ribellioni).
5
Traduzione italiana 1968.
18
Come ho già detto l’atmosfera che si respira all’interno del carcere può influire
notevolmente e in maniera negativa sull’esperienza psichica del detenuto. Gli elementi che
più influenzano la vita dei ristretti sono: “la perdita di controllo sul proprio agire” (e quindi
l’impossibilità di scegliere anche le cose più elementari), “la mancanza di stimolazione”
(data dalla routine carceraria e dai rarissimi cambiamenti all’interno dell’Istituto) e
“l’isolamento”.
Il termine “Prisonizzazione” viene usato per indicare quell’insieme di quadri
psicopatologici che sono l’effetto complessivo dell’esperienza carceraria sull’individuo. La
Prisonizzazione è vista come un processo in cui il soggetto perde gli schemi di
comportamento sociale adeguati alla cultura dominante, le sue capacità intellettive di
performance fino ad uno stato di deterioramento mentale, in cui si trova ad acquisire
schemi comportamentali, ruoli e valori propri della cultura carceraria. Questa sindrome fa
si che i valori del soggetto vengano sostituiti da quelli indotti dall’Istituzione a tutti i
detenuti (Strano, 2003). Serra (1994) sottolinea come attraverso la Prisonizzazione, il
carcere elimini le differenze individuali nei ristretti, inducendo abitudini comuni
6
. La
comparsa di questa sindrome dipende dalla personalità del soggetto e dalla sua sensibilità
che dipende a sua volta dal tipo di legami e rapporti che l’individuo ha avuto prima della
sua detenzione.
L’ingresso in carcere comporta l’ingresso in un luogo con elevati livelli di stress;
tra i fattori stressanti più rilevanti nel determinare le sindromi da Prisonizzazione è bene
ricordare:
9 La perdita della libertà personale (impossibilità di scegliere anche le cose più semplici
come il lavarsi, il vestirsi, l’andare in bagno o il mangiare);
9 La prevedibilità delle condizioni di vita;
9 La nostalgia per tutto ciò che sta fuori, soprattutto per gli affetti;
9 La monotonia e l’isolamento;
9 Lo stato di dipendenza;
9 La deprivazione degli stimoli e l’impoverimento delle esperienze culturali (la riduzione
degli stimoli esterni può infatti influire negativamente sull’articolazione del pensiero
dei ristretti);
9 L’ipersensibilità emotiva;
6
I bisogni e le esigenze dei soggetti vengono sostituiti da altri eteroindotti e più coerenti con le finalità del
carcere.
19
9 L’adattamento alle regole imposte dall’alto;
9 La rinuncia delle attività fisiologiche.
Clemmer (1941)
7
ritiene sia molto importante, per il soggetto detenuto, mantenere le
relazioni interpersonali con le persone all’esterno, perché questo eviterebbe il
completamento del processo di Prisonizzazione.
1.4. I comportamenti autolesivi e il suicidio
“Mi metto a pensare alla mia pena..
respiro, dormo, bevo, sogno.. Insomma vivo,
ma sarebbe meglio dire che muoio vivendo,
dato che, mentre gli altri detenuti vivono per la libertà,
gli ergastolani vivono solo per morire..
Il mondo la fuori non ti appartiene più..
Non potrai vivere insieme ai tuoi figli e alla tua compagna,
invecchierai e morirai in carcere, solo la morte ti può salvare..
E’ facile, basta prendere un lenzuolo, tagliarlo, farci delle corde,
legarlo alle sbarre.. Hai la libertà a portata di mano o meglio di collo”
Detenuto di Nuoro
Quando si parla del carcere non si può non ricordare che la comunicazione verbale
è considerata molto rischiosa dai detenuti ed è per questo motivo che la maggior parte di
essi tende ad utilizzare principalmente il canale comunicativo non verbale.
La comunicazione non verbale è meno soggetta a censure e a limitazioni; essa
diventa il mezzo principale con il quale esprimere frustrazione, disagio, bisogni ed
emozioni. I ristretti fanno ricorso alla comunicazione non verbale per necessità ed è per
questo motivo che, nelle Istituzioni totali come il carcere, essa viene definita un canale
“necessitato”. Serra (2004) ritiene che il canale comunicativo non verbale permetta al
soggetto di manifestare bisogni aggressivi che egli non può esprimere verbalmente
evitando così le frustrazioni e le tensioni. Inoltre, la comunicazione non verbale, consente
di realizzare i bisogni e le motivazioni umane permettendo di mantenere un buon
equilibrio psicologico ed emotivo.
A questo proposito è bene sottolineare che all’interno del carcere sono tanti i
detenuti che, per esprimere la sofferenza e il disagio della detenzione, sono soliti aggredire
il proprio corpo provocandosi numerose ferite con lamette e con qualunque altra cosa che
tagli. L’autolesionismo rappresenta un’espressione di dissenso e una forma particolare di
7
Traduzione italiana 1997.
20
comunicazione estrema. Può rappresentare anche una richiesta d’aiuto, un comportamento
che esprime turbamento, incapacità di adattamento e panico di fronte ad una situazione
percepita come dolorosa e intollerabile.
Il comportamento autolesivo può essere considerato una forma di “parasuicidio”,
anche se l’Amministrazione Penitenziaria è solita definirlo “Suicidio Manipolativo”. In
riferimento a ciò è bene sapere che le classificazioni delle condotte suicidarie sono diverse.
Generalmente si è soliti parlare di: suicidio, tentato suicidio e parasuicidio (Mancinelli,
Pompili, 2003).
♦ “Suicidio”: è un atto a esito fatale che il soggetto (in questo caso il detenuto) ha
pianificato e portato a termine per ottenere l’obiettivo desiderato, cioè quello di morire.
Esso viene visto come l’unica soluzione ad una situazione che è diventata insostenibile,
in cui l’individuo ha difficoltà a soddisfare i bisogni primari e in cui vive uno stato di
disperazione e di stress insopportabili. Il suo obiettivo è quindi quello di porre fine alla
sofferenza e ai problemi;
♦ “Tentato Suicidio”: è un gesto non abituale che ha un esito non fatale, intenzionalmente
iniziato dal soggetto e portato a compimento;
♦ “Parasuicidio”: anche questo è un gesto non abituale che non ha un esito fatale, che
però è iniziato deliberatamente dal soggetto e portato a termine con la speranza di un
qualche esito, in grado di realizzare il desiderio autolesivo.
È stato dimostrato che in carcere gli atti di autolesionismo e i tentativi di suicidio
hanno una funzione soprattutto dimostrativa. Il comportamento autolesivo e il tentativo di
suicidio rappresentano l’unica voce per chi in realtà è rimasto “senza parola” (Manconi,
2003).
È ormai chiaro che sono i primi cinque mesi di detenzione ad essere a maggior
rischio di suicidio (e questo vale soprattutto per i più giovani, per chi ha una carriera
criminale più recente o per chi è incensurato).
All’interno del carcere la persona non ha la possibilità di organizzare e vivere il
presente e, soprattutto nel momento dell’ingresso, il soggetto è privato degli affetti, dei
legami e dei sentimenti che provengono principalmente dalla propria famiglia e che sono
per chiunque fonte di consolazione.