6ad un riesame delle categorie interpretative tradizionali
all’epoca più diffuse : nasceva la New Archaeology
1
.
Ad un rapido affermarsi del nuovo paradigma statunitense e
dei suoi evanescenti “universali” in patria, si contrappose
un forte scetticismo soprattutto in Europa
2
dove un saldo
collegamento istituzionale all’interno delle università tra
archeologia e storia preservava gli studiosi dall’aderire
agli estremismi più “dogmatici” della Processual Archaeology.
Tale scetticismo sfociò poi (soprattutto in Gran Bretagna)
nell’importante momento della critica all’approccio dei
sistemi (già sviluppatasi in seno alla stessa New
Archaeology) che portò successivamente al recupero del valore
del contesto attuatosi grazie all’archeologia post-
processuale ed ad altri contributi di matrice prevalentemente
europea
3
. Questa discussione, pur avendo talvolta peccato in
autoreferenzialità - circoscrivendo e limitando gli spunti
che avrebbe potuto accogliere, talora scadendo in inutili
eccessi polemici - ha avuto l’indubbio merito di fungere da
stimolo alla creazione di un dibattito metodologico
“autonomo”.
Così, a partire dall’inizio degli anni ‘60, sotto lo sprone
della New Archaeology, che da alcuni studiosi era sentita
addirittura come una “rivoluzione”
4
, il “pensiero”
archeologico presa consapevolezza della propria esistenza
inizia a “distendersi” e a ramificarsi in una serie di ambiti
specifici di ricerca.
1
Nel 1968 veniva pubblicato su “American Antiquity” il famoso
“manifesto” non ufficiale di questo movimento Cfr. BINFORD 1968
2
Cfr. HODDER 1986. In Italia ad esempio durante gli anni ottanta sulle
pagine della rivista Dialoghi di Archeologia (cfr. DiArch 1985)
3
Per una sintesi esauriente Cfr. TRIGGER1998, per quanto riguarda la
critica all’approccio dei sistemi da parte di esponenti della stessa New
Archeology Cfr. FLANNERY 1973, WYLIE 1985; per quanto riguarda il contesto
e l’archeologia post-processuale si veda HODDER 1986, HODDER 1989 e BARRETT
1987, senza però dimenticare l’attenzione che il termine “contesto” aveva
già suscitato in alcuni studiosi precedenti su tutti l’archeologo-
filosofo R. Collingwood (cfr. COLLINGWOOD 1946)
4
Celeberrima è “la perdita dell’innocenza” profetizzata da David L.
Clarke nel suo articolo su “Antiquty” (cfr. CLARKE 1973) e la polemica
introduzione al suo Analytical Archaeology (cfr. CLARKE 1968)
7L’“Archaeology of Death” può essere in larga parte
considerata come un prodotto di questo vasto e variegato
fenomeno . Con questo non intendo affermare che prima di quel
movimento gli archeologi si fossero completamente
disinteressati ai contesti funerari ed alle loro intrinseche
potenzialità esegetiche. Sicuramente essi avevano dedicato
attenzione a tombe e sepolcreti ma lo avevano fatto
prevalentemente sotto un’ottica formalista, considerando cioè
le evidenze funerarie esclusivamente come miniere di dati
tipologici ed antiquari.
Costituisce un’eccezione un semisconosciuto lavoro di Gordon
Childe della metà degli anni ‘40
5
nel quale lo studioso
anglosassone osservava una serie di tendenze a lungo termine
nei rituali funerari dell’Europa preistorica, deducendo
alcune affermazioni (come il legare la comparsa delle
cosiddette tombe “reali” a momenti di crisi di legittimazione
durante la transizione che conduce dalle società basate sul
gruppo familiare agli stati veri e propri) che poi sarebbero
state largamente riproposte dalla letteratura successiva
sull’argomento
6
.
Anche lo studio di Paulsen del ’67 su alcune tombe gentilizie
alemanne precede di qualche anno l’interesse dell’approccio
dei sistemi verso questo settore di ricerca
7
. L’archeologo
tedesco fondava la sua interpretazione del gruppo di
sepolture delle quali si occupava su due presupposti
principali, uno religioso, l’altro di diritto. Il primo era
che il rituale testimoniato dalla sepoltura rappresentasse le
credenze dell’inumato nell’oltretomba, così che le
distinzioni sociali presenti tra i vivi venivano traslate
attraverso il costume del corredo nel mondo dei morti. Il
5
Cfr. CHILDE 1945.
6
in particolare questo aspetto ricorda molto la “Stress Hypothesis” e la
“style war” proposta da Hodder in un suo lavoro (cfr. HODDER1979) e
successivamente applicato da Parker-Pearson ad alcune sepolture dell’età
del ferro danese.
7
Cfr. PAULSEN 1967; per dettagli sulla tradizione tedesca di studi su
sepolture e rituali funerari si veda HARKE 1989.
8secondo era che la natura di alcuni oggetti posseduti da un
individuo in vita fosse così personale da renderli di fatto
inalienabili ad un qualsiasi altro membro della comunità.
Entrambi i concetti, spesso non apertamente manifestati,
saranno ampiamente presenti nelle trattazioni seguenti ed
avranno lunga vita nella concezione che gli oggetti deposti
insieme ad un defunto rappresentino una sorta di identikit
dell’individuo
8
.
Ma il primo contributo che intendesse dichiaratamente
esplorare le possibilità metodologiche offerte dallo studio
delle evidenze funerarie in genere, si deve a Lewis Binford,
uno dei “padri” dell’archeologia processuale. In questo
lavoro, pubblicato nel ’71 e sviluppato come una critica ad
un vecchio articolo dell’antropologo americano A. Kroeber,
Binford introduceva l’analisi delle pratiche funerarie nella
sua più generale middle range theory il cui obiettivo -
espresso in maniera sistematica solo qualche anno più tardi
9
- era la ricerca nei resti materiali di relazioni invariabili
che collegassero la staticità del record archeologico alla
dinamicità dell’ agire umano. Lo studioso americano
proponeva, in sintesi, che vi fosse una correlazione diretta
tra la posizione sociale del defunto e la quantità di persone
con le quali egli avesse una qualche relazione e , di
conseguenza, che i “ruoli” sociali della persona e la loro
rappresentazione attraverso il rituale funerario, debba
variare proporzionalmente al “rango” occupato dall’estinto
durante la sua vita. Queste affermazioni venivano dimostrate
facendo ricorso ad un certo numero di esempi etnografici
suddivisi in tre classi principali di crescente “complessità
8
Per la verità questa convinzione informa da sempre in maniera più o
meno esplicita la grande maggioranza degli studi su necropoli e
sepolture, solo negli ultimi dieci-quindici anni nuovi approcci
sociologici stanno - dialogando col dibattito metodologico storico-
archeologico - minando questo assunto che per tanto tempo è stato
considerato così ovvio da essere spesso sottinteso (cfr.infra) Cfr. PARKER
PEARSON 1999 e GIDDENS 1992.
9
Cfr. BINFORD 1971 ; BINFORD 1977; KROEBER 1963.
9sociale”
10
. Dal modo in cui i dati relativi a questo campione
si organizzavano all’interno delle categorie, Binford ancora
deduceva che le differenze tra i vari aspetti della persona
sociale
11
fossero molto più rimarcate nella classe degli
“agricoltori sedentari” (la più “evoluta” tra quelle prese in
considerazione dallo studioso) piuttosto che nelle altre, ed
in base alle osservazioni effettuate concludeva che alcuni
elementi distintivi dell’identità dell’inumato si
“riflettevano” regolarmente in determinate caratteristiche
delle sepolture. Ad esempio, mentre il sesso del defunto era
rappresentato attraverso l’orientamento della tomba e gli
oggetti di corredo, aspetti come l’età venivano espressi per
mezzo della posizione del corpo, il tipo di sepolcro ed altri
fattori di questo tipo.
Risale all’incirca agli stessi anni dell’articolo di Binford
la tesi di dottorato di A. Saxe riproposta qualche tempo dopo
in un lavoro su di una popolazione mesolitica dello Wadi Hafa
in Sudan
12
. Questo studio propone una serie di ipotesi ancora
una volte testate su alcuni riscontri etnografici ripresi
dalla letteratura antropologica. Le conclusioni alle quali
Saxe perviene sono molto vicine a quelle di Binford e, al di
là di formalizzare nelle sue “ipotesi” alcune affermazioni
che nelle analisi del suo predecessore non erano apertamente
esplicitate, - come l’assunto (o il pregiudizio) che le
culture più “semplici” abbiano rituali funerari meno
articolati rispetto alle società complesse e gerarchizzate
13
- il contributo più rilevante dato al dibattito sull’esegesi
delle evidenze funerarie è costituito dalla sua ottava
10
I circa quaranta esempi etnografici utilizzati da Binford erano
organizzati in un archivio denominato “Human Relations Area Files” che
successivamente ha continuato ad essere implementato fino ad oggi
(cfr.BINFORD 1971).
11
per una precisa definizione dei termini “ruolo sociale” e “persona
sociale “nell’accezione New Archaeology vedi oltre.
12
Cfr. SAXE 1971, SAXE 1977.
13
un esempio evidente di quanto possa essere falso questo preconcetto è
riportato da Parker Pearson all’inizio di un suo recente libro e consiste
nella descrizione dei complessi rituali di un funerale vichingo così come
ci vengono tramandati da un cronista arabo (cfr. PARKER PEARSON 1999).
10
ipotesi. In essa lo studioso americano afferma che cimiteri e
necropoli (o per usare la farraginosa terminologia di Saxe
“Formal disposal areas exclusively for burials of the dead”
14
) sarebbero gestiti da dei gruppi corporati che, per mezzo
di questo controllo, legittimerebbero il proprio diritto di
accesso esclusivo ad alcune risorse cruciali attraverso il
passare delle generazioni.
Poiché il problema a cui questa proposta tenta di dare
soluzione - e cioè il rapporto tra la dislocazione delle
sepolture ed il controllo del territorio e delle sue risorse
- è da sempre fortemente avvertito dagli archeologi (a ben
vedere da molto prima che la New Archaeology lo formulasse
nei suoi termini
15
), l’ipotesi otto di Saxe ha catturato
negli anni l’attenzione di molti altri ricercatori ed è stata
più volte riesaminata con esiti spesso discordanti
16
.
Un altro lavoro che ha avuto una certa risonanza nel campo
dell’analisi delle pratiche funerarie è stato lo studio del
1975 di J. Tainter sul rapporto tra status sociale e
differenze nel trattamento del defunto svolto da questo
ricercatore attraverso un confronto culturale incrociato su
circa un centinaio di società documentate (come al solito)
etnograficamente
17
. Le conclusioni di Tainter introducono nel
dibattito metodologico la nozione di energy expenditure ,o
“quantità di lavoro” impiegata nel rituale funerario, quale
discriminante “oggettivo” (o presunto tale) per stabilire lo
14
Cfr. SAXE 1970 , p.119.
15
Il concetto espresso da Saxe ricorda molto da vicino l’ipotesi
formulata più di un secolo prima da Fustel de Coulanges a proposito del
ruolo centrale svolto dal culto della tomba degli avi nella città antica
(cfr. FUSTEL DE COULANGES 1864; MORRIS 1991).
16
Tra i primi lavori a rianalizzare le formulazioni di Saxe, troviamo
quello di Lynn Goldstein che, pur basandosi ugualmente su confronti
etnografici (questa volta però più numerosi rispetto a quelli individuati
dall’autore originale), tenta di circoscrivere e di definire in maniera
più puntuale gli ambiti di validità dell’ipotesi 8 (cfr. GOLDSTEIN 1976).
Successivamente, negli anni ’80, le ipotesi di Saxe sono divenute uno
degli argomenti più presi di mira dalla critica post-processualista
all’approccio dei sistemi (cfr. HODDER 1984, 1992 ; SHANKS &TILLEY 1987 ;
PARKER PEARSON 1999).Particolarmente interessante lo studio di Morris in
cui l’ipotesi 8 viene messa alla prova nell’Atene di età classica e nella
Roma tardorepubblicana (cfr. MORRIS 1991).
17
Cfr. TAINTER 1975.
11
status sociale di una sepoltura. Anche questo concetto, come
molti altri “universali” dell’archeologia processuale, si è
guadagnato, soprattutto in Europa, una ridda di giudizi
negativi
18
.
Non è necessario ricorrere a tutti gli esempi etnografici
messi in campo da Ucko
19
o agli avvertimenti dell’antropologo
britannico E. Leach
20
per intuire quanto in realtà corrano il
rischio di essere semplicistiche e fuorvianti le
generalizzazioni fin qui proposte. Occorre in primo luogo
sottolineare l’incapacità degli esponenti della New
Archaeology ad accostarsi nelle loro formulazioni teoriche,
non solo a realtà sociali storicizzate ( seppure nel contesto
di un discorso generale di critica allo storicismo culturale,
il disinteresse verso la “storia” è stato più volte
apertamente espresso da vari new archaeologists
21
), ma anche
solo ad un record etnoarcheologico che non sia uno statico
“fotogramma” adeguatamente selezionato a priori. Quando i
teoremi dell’approccio dei sistemi si devono confrontare con
18
Su tutti quello di B. D’Agostino (cfr. D’AGOSTINO 1985)il quale critica
il concetto di astratta quantità di lavoro, figlio secondo l’archeologo
della “moderna società mercantile”. Egli inoltre propone che qualsiasi
distinzione e gerarchizzazione (dei corredi funerari come di altri
aspetti del rituale) andrebbe semmai tarata attraverso criteri
“qualitativi”(bellezza,perizia tecnica ecc.) Pur condividendo l’impianto
generale della critica posta da D’Agostino, ovvero la non universalità
del criterio dell’energy expenditure, nutro forti perplessità sulla
validità delle linee di comportamento alternative proposte dallo
studioso. Per restare sempre nel mondo greco si potrebbe ad esempio
osservare, come fa F. Frisone,(cfr. FRISONE 1994) che qualcosa di molto
simile alla “astratta quantità di lavoro” era in realtà presente nelle
leggi antisuntuarie dell’Atene del V sec. (Cic. De Leg.,2,25,64) o
sottolineare come fa Vickers che l’attribuzione di un determinato valore
estetico o economico ad un oggetto è stata, nel corso della storia
dell’archeologia classica, molto spesso fortemente influenzata da
elementi squisitamente moderni. Questi, nella fattispecie, notando in un
suo lavoro la assoluta prevalenza di oggetti in ceramica nelle sepolture
ateniesi di età classica, affermava che questa caratteristica non
sottintendeva affatto una maggiore considerazione di quel materiale
rispetto ad esempio ai metalli, e che questa convinzione immotivata si
era largamente diffusa tra gli archeologi (insieme all’immagine idilliaca
dell’Atene dei cittadini-artigiani) grazie alle opinioni di Lord Beazley
e di altri autorevoli ricercatori.(cfr. VICKERS 1987)
19
Cfr. UCKO 1969 ; un lavoro che in tempi precedenti alla New Archaeology
avvisava della difficoltà di trarre conclusioni dirette sulla struttura
sociale di una cultura basandosi esclusivamente sul suo rituale
funerario.
20
Cfr.LEACH 1974.
21
su tutti CLARKE 1968.
12
la verifica del terreno molto spesso il prodotto che ne
scaturisce è una costruzione interpretativa estremamente
fragile. Può essere considerato un esempio palese lo studio
svolto da Peebles e Kus sulla grande area cerimoniale di
Moundville in Alabama dove un “apparato” di indagine molto
articolato (comprendente anche un largo uso di analisi
statistiche multivariate) era impiegato per analizzare le più
di duemila sepolture del sito, collocabili in un orizzonte
cronologico lungo cinquecento anni (1050-1550 D.C.). Il
quadro che di questo complesso centro danno i due archeologi
appare sorprendentemente schematico, organizzato com’è in
un’astratta struttura gerarchica piramidale , all’interno
della quale vengono disposti i clusters delle tombe
caratterizzate da un crescente status sociale senza tenere
conto delle significative differenze cronologiche e degli
importanti simbolismi legati all’offerta del mais, le cui
tracce sono presenti su tutto il sito, e che le realtà
storiche di quelle sepolture sottintendono
22
.
D'altronde il retroterra teorico di questi lavori attinge ad
una concezione della società sotto molti aspetti superata,
consolidatasi negli Stati Uniti nel secondo dopoguerra
attraverso i vari indirizzi socio-antropologici del
neoevoluzionismo culturale di White, e dell’evoluzionismo
multilineare di Steward
23
, correnti queste che, nel momento
in cui venivano assunte dall’approccio dei sistemi come punto
di riferimento per le proprie indagini, vivevano oramai da
tempo nel resto delle scienze sociali un periodo di forte
crisi
24
. In questo singolare milieu occupa un posto di
rilievo la teoria dei ruoli di Goodenaugh
25
che fornisce alle
analisi funerarie dell’archeologia processuale uno
“scheletro” per i propri concetti di status sociale. Secondo
22
Cfr. PEEBLES &KUS 1977 ; KNIGHT &STEPONAITIS 1998, PARKERPEARSON 1999
23
Cfr.WHITE 1949; STEWARD 1955; per una sintesi Cfr.TRIGGER 1998 pp.311 e
ss.
24
Cfr.HODDER 1986.
25
Cfr. GOODENOUGH 1965.
13
questa teoria l’individuo è considerato come una Social
Persona che interpreta nei vari ambiti della propria
esistenza una serie di ruoli la cui somma costituisce lo
status sociale. Senza addentrarsi nei dettagli del dibattito
sociologico degli ultimi trent’anni basterà qui ricordare
come le nozioni di “ruolo” e di Social Persona siano state
fortemente criticate nell’ultimo periodo per la scarsa
attenzione all’individuo e per l’ineludibilità di ruoli
imposti a priori. Il concetto di status ha subito una lenta
“erosione” della sua compattezza originale
26
ed è oggi
largamente considerato come articolato in vari livelli
all’interno dei quali gioca un ruolo preponderante la
“ricorsività” dell’ agire umano nel mondo e la continua
rinegoziazione di valori che attraverso di essa l’individuo
attua su strutture ed istituzioni sociali. Si fa qui
riferimento alla “teoria della pratica”, nelle sue varie
versioni, ed in particolare alla trattazione organica che di
essa ha dato A. Giddens nella sua più generale “Teoria della
Strutturazione”
27
. La realtà sociale non è quindi una gabbia
deterministica retta da ferree leggi alle quali non ci si
potrà mai sottrarre, non obbliga in ruoli dove gli uomini
“sono addestrati alla pura autoconservazione, rifiutando loro
nello stesso tempo, la conservazione della propria
identità”
28
. La società è insieme durée e struttura, e noi,
in quanto parte di essa, la subiamo e la modifichiamo, ne
siamo al contempo suoi prodotti e suoi creatori
29
.
Nel riconoscere e nel sottolineare i limiti
dell’impostazione teorica (e molto spesso anche della riprova
“sperimentale”) dei lavori in precedenza citati non intendo
affatto affermare l’inutilità degli spunti proposti nel tempo
dai vari “archeologi processuali”, quanto piuttosto
26
Cfr. BOURDIEU 1977 ; TURNER 1988 ; senza però dimenticare alcuni
importanti spunti precedenti dati dalla discussione sulla natura della
società all’interno della Scuola di Francoforte (in part. Cfr.ADORNO 1972)
27
Cfr. BOURDIEU 1977; GIDDENS 1990 ; GEERTZ 1973.
28
Cfr. ADORNO 1972.
29
Cfr. GIDDENS 1990 ; VERNANT 1965.
14
contestarne la presunta “universalità”. Concetti come
l’ipotesi 8 di Saxe o l’energy expenditure di Tainter possono
in realtà costituire dei suggerimenti particolarmente utili a
chi voglia penetrare le realtà sociali che le evidenze
funerarie testimoniano, a condizione che la loro applicazione
si svolga nel più rigoroso rispetto del contesto preso in
esame.
E siamo al punto cruciale della questione. Come ci avvisa
Morris esaminare il contesto nella sua integrità significa,
nell’ambito del quale ci si sta occupando, essere in primo
luogo consapevoli che sepolture e necropoli rappresentano
esclusivamente le vestigia materiali di una parte di un
complesso rituale, “non necessariamente la più importante”
30
e, aggiungerei io, non necessariamente l’ultima. Sin dal
lavoro di Binford, il richiamo alla necessità di considerare
le evidenze funerarie come parte di un più ampio rituale
riconducibile nella sua struttura allo schema dei “riti di
passaggio” formulato da Van Gennep
31
è stata sempre
dichiarata nei lavori di “archeologia della morte”. Quanto
poi questa dichiarazione programmatica si sia trasformata in
una reale attenzione in sede di interpretazione è altra cosa.
Fanno eccezione oltre alle acute analisi di J. P. Vernant, (
il quale con un certo anticipo sulle trattazioni successive
riguardanti il mondo antico, poneva l’accento sulla
problematica natura di realia delle sepolture e sulla
relazione intercorrente tra quest’ultime e le realtà sociali
che le avevano prodotte
32
) l’importantissima ed oramai
pluridecennale opera di B. D’Agostino incentrata sull’esame
del rituale funerario greco ed indigeno così come è
testimoniato in vari contesti prevalentemente campani,e,da
30
Cfr.MORRIS 1992, p.13.
31
Cfr.VAN GENNEP 1909.
32
Cfr.VERNANT 1982 , senza dimenticare il contributo di altri importanti
esponenti del Centre des recherches comparées sur les sociétés anciennes
come P. Vidal Naquet, M. Detienne, A.Schnapp, F. Lissarrague, C. Mossè,
N. Loraux, F.Frontisi, ed altri.
15
ultimo, il recentissimo lavoro sulla necropoli
orientalizzante di Pontecagnano di M. A. Cuozzo
33
.
Tutti questi contributi hanno avuto l’enorme merito di
introdurre lo studio del rituale funerario, inteso come
espressione simbolica complessa, nel mondo dell’archeologia
classica, dove tradizionalmente questo tipo di problematiche
erano sacrificate in favore della sempre urgente opera di
organizzazione della vasta mole di documentazione materiale
disponibile. Allo stesso tempo, la gran parte di essi ha,
parallelamente a quanto andava facendo l’archeologia post-
processuale in Gran Bretagna, sottolineato un punto a mio
avviso cruciale, generalmente lasciato indiscusso dalla
letteratura anglosassone di matrice New Archaeolgy. Questo
punto equivale alla più spontanea delle domande che ci si
possa porre nel momento in cui ci si confronta con una
cultura diversa dalla nostra e con i suoi prodotti e cioè il
cosa significa? o piuttosto (in questo caso) il cosa
significava per loro? Che si tratti della posizione del
corpo del defunto o di un oggetto deposto insieme all’inumato
o di un qualsiasi altro aspetto del rituale precedente o
successivo alla deposizione, la ricerca contestuale dei
significati culturali deve essere il punto di partenza (e per
certi versi di arrivo) di ogni studio. Se non siamo in grado
di delineare l’ambito semantico dei vari elementi così come
interagiscono tra di loro, se non riusciamo, in una parola, a
cogliere la “grammatica”
34
del rito ogni ulteriore analisi
(della struttura sociale o delle dinamiche di relazione tra
vari soggetti) ed ogni quadro interpretativo conseguente ci
lascia inesorabilmente con un senso di incompletezza. Anche
33
Importantissime sono anche le indagini svolte da A. M. Bietti Sestieri
sulla necropoli protostorica laziale dell’Osteria dell’Osa. Cfr.
D’AGOSTINO 1977, 1982, 1985, 1988 a , 1988 b , 1990, 1991 , 1996, 1999 a,
1999b;CUOZZO 2003 ; BIETTI-SESTIERI 1992.
34
Il lavoro di M. A. Cuozzo (dal quale ho ripreso questa espressione) è
tra i primi a muoversi in questa direzione proponendo una “semiotica” del
rituale funerario, sulla scorta delle trattazioni di Eco e della
“semiologia funeraria” dell’antropologo Thomas . Cfr. CUOZZO 2003, THOMAS
1975.
16
Ian Morris è stato tra i primi a porre apertamente questo
problema che nello studio del mondo antico è sentito in
maniera ancora più scottante per quei contesti (come quelli
indigeni dell’Italia meridionale) dove le fonti scritte ci
sono d’aiuto solo fino ad un certo punto. Lo studioso inglese
nega del tutto la possibilità di dare una qualche risposta
alla domanda cosa significava per loro? in quanto sostiene
che “the kind of evidences required simply does not exist”
35
.
A mio avviso questa affermazione non è condivisibile.
Raggiungere i significati culturali, passare cioè secondo
l’efficace formula di Parker Pearson “dalla forma al
contenuto”
36
del rituale, non solo è possibile ma è
addirittura necessario. Non appare inoltre lecito tirarsi
indietro per quel che concerne l’interpretazione dei simboli
del passato adducendo in propria difesa la necessità di
salvaguardare una presunta “scientificità” dell’ indagine,
poiché interpretare vuol dire sempre e comunque attribuire
una certa “quantità” di significato agli oggetti della
cultura materiale, operazione questa che viene, nei fatti,
continuamente compiuta (anche se ad un altro livello) in
qualsiasi studio archeologico in questo come in altri ambiti
di ricerca
37
. Il problema risiede piuttosto nel come venga
compiuta. Una piccola frase di Edmund Leach ci aiuta a
comprendere quanto in realtà possano essere arbitrari alcuni
assunti che nel mondo dell’archeologia sono così radicati da
essere spesso dati per scontati. Leach, da antropologo
culturale abituato ad avere a che fare con culture ancora
vive, si sorprende del “costume” degli archeologi di
considerare il corredo o comunque l’insieme degli oggetti
deposti nella sepoltura alla stregua di un identikit sociale
del defunto affermando che “se le tombe sono in un qualsiasi
35
Date queste premesse lo studioso dichiara di essere interessato solo
alla “storia sociale” testimoniata dal rituale. Cfr. MORRIS 1992, pp.20-
21, 28.
36
Cfr.PARKERPEARSON 1999.
37
Cfr. HODDER 1992 p.190.
17
modo un indice di un certo status sociale è quello degli
organizzatori del funerale piuttosto che quello del
defunto”
38
. Nella sua apparente banalità l’affermazione dello
studioso britannico ci invita a tenere sempre presente la
natura “partecipativa” del rituale funerario in quanto
prodotto di una realtà sociale articolata, ricca di
contraddizioni, che non si esprime solo per mezzo di esso ma
che riproduce e modifica attivamente le proprie istituzioni
attraverso ogni ambito della propria esistenza.
Consapevoli di ciò dovremo allo stesso tempo allargare e
restringere il campo della nostra indagine: allargarlo verso
ogni testimonianza che ci parli della società e degli agenti
che hanno prodotto questo rituale ; restringerlo mediante
l’uso di quella che Hodder definisce “analogia relazionale”,
vagliando cioè accuratamente all’interno del contesto, tra
quanto può e non può essere considerato simile o espressione
di un medesimo processo
39
.
2) I perché di un lavoro su scala regionale
L’obiettivo che questa ricerca si propone di realizzare è lo
studio del rituale funerario. Come si può intuire dalle
premesse metodologiche sopra esposte essa non è però
finalizzata a generare un astratto modello teorico, ma a
delineare e ad interpretare le caratteristiche di questa
pratica culturale così come si manifestano in un particolare
contesto che è quello del Salento indigeno, dall’età del
Ferro fino alle soglie della romanizzazione. E’ importante
sottolineare la novità costituita dalla dimensione regionale
della nostra indagine. Infatti, nonostante negli ultimi anni
sia stata da più parti richiamata la necessità di analisi a
più ampio raggio, l’interesse dell’archeologia classica nei
38
Cfr. LEACH 1979 (in discuss.)
39
Per il concetto di analogia relazionale Cfr. HODDER1992b lo stesso ce
ne fornisce un esempio pratico nel suo noto lavoro sulle tombe
megalitiche in Europa occidentale (cfr. HODDER 1982 b, 1992 b).
18
confronti dei contesti funerari si era fino ad ora
concretizzato o nella pubblicazione di singoli sepolcreti o
di gruppi di necropoli pertinenti allo stesso insediamento, o
in excursus metodologici di argomento molto ampio
40
.
Potrebbero a questo punto sorgere dei dubbi sulla reale
unitarietà culturale dell’oggetto della nostra analisi e
sull’opportunità di definire come “contesto” un insieme di
realtà insediative particolarmente ampio e diversificato che
copre un arco cronologico di oltre tre secoli: in particolare
dall’inizio del VI sec. a.C., ovvero dal periodo a cui datano
le prime sepolture di cui si abbia conoscenza
41
, fino alla
conquista romana il cui termine è stato posto, in accordo con
le fonti, intorno alla metà del III sec a.C.
42
Ma i risultati ottenuti negli anni dall’archeologia
insediamentale hanno permesso di sottolineare, seppure in un
quadro ampio e variegato, alcune sostanziali omogeneità che
sembrano anche avere una controparte in quel processo
simbolico complesso che l’evidenza funeraria sottintende.
D’altronde delle peculiarità dell’area culturale messapica
abbiamo tracce a partire dall’ età mediogeometrica (seconda
metà dell’VIII sec a.C.), quando il Salento inizia a
differenziarsi chiaramente dal resto dell’area iapigia
attraverso una cultura materiale contraddistinta dal forte
40
Come l’esemplare lavoro di Morris (dal taglio prettamente
“archeologico”) quello di Sorvinou Inwood (più propriamente “storico”) ed
alcuni articoli di D’Agostino nella collana “I Greci” ed in “La Magna
Grecia 3”. Molto interessante anche lo studio di F. Frisone incentrato in
particolare sulle leggi e i regolamenti funerari nel mondo greco, e per
ora limitato alle sole testimonianze epigrafiche(cfr. MORRIS1992 ;
SOURVINOU INWOOD 1995 ; D’AGOSTINO 1988,1996 ; FRISONE 2000).
41
A questo periodo risalgono, secondo le datazioni proposte da G.
Semeraro nel suo lavoro sulla ceramica d’importazione greca nel Salento,
i materiali di una sepoltura rinvenuta ad Oria nella zona Ciriaco-
Maddalena, precedentemente considerata della fine del VII e oggi invece
datata al primo trentennio del VI sec. a.c.(cfr. FORTI 1972, 12; YNTEMA
1993, 155, n23, LOMBARDO 1994 ; SEMERARO 1997 p.140 ).
42
Al 267-266 a.C. si data, secondo i Fasti Consulares la definitiva
conquista romana delle popolazioni indigene salentine, dovuta ai consoli
Fabius Pictor e Iulius Pera (appena un quinquennio dopo la caduta di
Taranto). Tale assoggettamento non fu in realtà così totale come sembra
testimonino la recrudescenza della ribellione durante la seconda guerra
punica (213-212 a.C.) e la successiva partecipazione dei Messapi alla
guerra sociale contro Roma (90 a.C.). (cfr.DEGRASSI 1947, p.547)
19
peso delle importazioni corinzie
43
e dalla caratteristica
ceramica geometrica decorata con motivi di derivazione
illirica
44
, così come testimoniato in particolare dagli
scavi di Otranto
45
. Le differenze emerse permangono ed anzi
si rafforzano ulteriormente in età arcaica, quando l’area
messapica sembra connotarsi per lo sviluppo ed il
consolidamento di molte delle realtà insediative
precedentemente attestate in nuove ed articolate forme
(insediamenti molto ampi, in alcuni casi cinti da poderose
mura internamente ripartite e dove le aree abitate sono
organizzate intorno a vere e proprie strade) che, se non
possono dirsi urbane tout court, appaiono distanti anni luce
dai villaggi di capanne ancora così diffusi appena un secolo
prima
46
. A partire dalla seconda metà del V sec. proseguendo
poi per tutto il IV e III sec. a.C., pur continuando ad
essere presenti alcune significative specificità, iniziano a
comparire nell’area salentina alcuni elementi (ravvisabili
nella totalità della composizione della cultura materiale o,
ad esempio, nelle soluzioni tecniche che caratterizzano le
cinte difensive di cui numerosi abitati in questo momento si
muniscono) che sembrano riavvicinare la “messapia” al quadro
documentativo fornito da altri contesti ellenistici
dell’Italia meridionale
47
. Cogliere i modi e i tempi in cui
questa dinamica sia o meno testimoniata da necropoli e
sepolture è uno degli scopi principali di questa indagine.
43
Cfr. D’ANDRIA 1983 a,1985,1990,1994; D’ANDRIA &WHITEHOUSE1992
44
Cfr. D’ANDRIA 1987
45
Sono però del tutto assenti (almeno fino all’inizio del VI sec a.c.)
le sepolture e questo elemento ha portato gli studiosi a varie ipotesi
interpretative, ma di questo si parlerà ampiamente in sede di conclusioni
(cfr. nota 39, D’ANDRIA 1991; D’ANDRIA &WHITEHOUSE 1992, LOMBARDO 1994).
46
Sulle dinamiche di sviluppo degli insediamenti indigeni si veda
D’ANDRIA 1991, 1996; sui modelli insediativi e sulle forme di occupazione
del territorio si veda D’ANDRIA &SEMERARO 2003.
47
Abbiamo degli elementi che ci lasciano intravedere un periodo di
profondi sconvolgimenti nella società indigena salentina già intorno alla
metà del V sec con la cessazione improvvisa, di alcuni siti che in età
arcaica avevano rivestito un ruolo di eccezionale importanza come ad
esempio Cavallino Cfr. CAVALLINO I; D’ANDRIA 1991 ; D’ANDRIA 2005.