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CAPITOLO I
LA CONTESTAZIONE STUDENTESCA
1. Un fenomeno globale
Gli uomini sono in catene. Vi è la schiavitø della povertà e della fame; la schiavitø della
sete di potere, della spinta al prestigio sociale, al possesso. Oggi un regno di terrore viene
perpetrato e perpetuato su larga scala. Nelle società opulente esso è mascherato; i giovani
sono ridotti a poco piø che punti ipotetici di un sistema la cui disumanizzazione è totalmente
coordinata. Le proprietà del sistema mondiale globale ci forzano a sottometterci, come a
fatalità, al Vietnam, alla fame nel Terzo mondo, e così sia. In un contesto globale la cultura
è contro di noi, l’educazione ci rende schiavi, la tecnologia ci uccide. ¨ nostro dovere
contrapporci a tutto ciò
7
.
Così si legge nel messaggio di convocazione al convegno londinese su
“integrazione e società opulenta”, a cui partecipano nel 1967 militanti della sinistra
radicale, moltissimi studenti e una nutrita schiera di hippies. Un anno dopo, la
contestazione sarebbe esplosa con una rapidità imprevista ed imprevedibile, travolgendo
confini allora considerati costitutivi dell’ordine del pianeta
8
. Una rivoluzione di portata
internazionale che vede protagonisti i giovani nati nel secondo dopoguerra, cresciuti
all’ombra della bomba atomica. Come ha scritto Hannah Arendt, «ci troviamo di fronte
a una generazione che non è affatto sicura di avere un futuro» poichØ il futuro è «come
una bomba ad orologeria sepolta, ma che fa sentire il suo ticchettio nel presente»
9
.
Sebbene, da una parte, si possa ritenere che il 1968 sia stato l’anno in cui esplose
la rivolta dei figli contro i padri, della rivoluzione sessuale e dell’impegno per i diritti
civili; dall’altra, fu solo un punto di arrivo a cui si approdò dopo innumerevoli e audaci
esperimenti di controcultura.
Primo fra tutti, il “Manifesto di Port Huron” (1962), uno scritto ideologico,
redatto da Tom Hayden, storico attivista americano, in cui si rivendica il diritto dei
giovani di combattere, attraverso un’azione diretta, l’ineguaglianza sociale e politica
esistente negli Usa.
7 G. Jervis, Prefazione, in Atti del Convegno Dialettica della liberazione. Integrazione e rifiuto nella
società opulenta, a cura di D. Cooper, Torino, 1969, pp. 8-9.
8 P. Ortoleva, Saggio sui movimenti del 1968 in Europa e in America, Editori Riuniti, Roma, 1985, p. 25.
9 H. Arendt, Sulla violenza, Guanda, Parma, 1996.
8
A guidare il nostro lavoro – scrive Hayden – sta la percezione che la nostra potrebbe
essere l’ultima generazione a fare esperimenti con la vita. Siamo però una minoranza. La
stragrande maggioranza guarda agli equilibri temporanei della società e del mondo come un
motore funzionante in eterno. In questo forse risiede il paradosso evidente; mentre da una
parte noi siamo come imbevuti da un senso di urgenza, il messaggio proveniente dalla
società è che non esiste alcuna valida alternativa al presente
10
.
¨ da questa constatazione che nasce il famoso (o famigerato, dipende dai punti di
vista) Sessantotto. Lo si è definito in molti modi: l’anno mirabilis, la stagione dei
capelloni, «l’ultima giornata rivoluzionaria dell’Ottocento»
11
, ma sembra sempre
sfuggire alle etichette e alle semplificazioni. Di sicuro, rappresenta il punto di sbocco di
importanti processi – come l’imporsi della questione giovanile, della liberazione
sessuale e la lotta contro ogni forma di autoritarismo – che investono realtà nazionali
diverse, cambiando il volto del mondo contemporaneo.
In effetti, il ‛68 è passato alla storia come un fenomeno “globale” per la
simultaneità delle agitazioni – dai campus americani ai disordini nel Quartiere latino di
Parigi, dalla “primavera di Praga” alle prime facoltà italiane occupate – e per il fatto che
i loro protagonisti appartengono ovunque alla stessa generazione e hanno lo stesso
status sociale.
Oggi in Europa, in America, in Asia, nel primo mondo e nel terzo, chi protesta sono gli
studenti. Hanno fondato una “Internazionale” di uomini di 20 anni che proclama gli stessi
principi, adora gli stessi maestri, si muove dietro gli stessi slogans, nei campus della
California o per le strade di Shangai, sulle rampe di Valle Giulia o nei viali dei Colleges
inglesi
12
.
Si assiste, quindi, ad un ridimensionamento dello stato-nazione: ad unire i giovani
contestatori e i militanti della nuova sinistra non sono i vincoli della terra e della
tradizione, ma il mondo nella sua interezza.
Secondo Ortoleva, la dinamica del ‛68 internazionale «non pare autorizzare una
distinzione rigorosa fra un centro e una periferia»
13
: non è possibile, infatti, individuare
un centro propulsore unitario, ma piuttosto dei nuclei distinti animati da idee e obiettivi
10 Il “Manifesto di Port Huron” si trova in Ortoleva, Saggio sui movimenti del 1968 in Europa e in
America, cit., p. 233.
11 L’espressione è del sociologo francese Alain Touraine ed è riportata in N. Balestrini, P. Moroni, L’orda
d’oro. 1968-1977. La grande ondata rivoluzionaria e creativa, politica ed esistenziale, Milano, Sugarco,
1988.
12 Studenti di tutto il mondo, in “L’Espresso Colore”, 24 marzo 1968.
13 Ortoleva, Saggio sui movimenti del 1968 in Europa e in America, cit., p. 28.
9
comuni
14
. Lo si potrebbe inquadrare come un movimento policentrico capace di farsi
«rivelatore di contraddizioni e di nuovi conflitti che stanno nel cuore di questa
società»
15
.
La dimensione planetaria della contestazione non sfugge agli organi di
informazione che, in tutto il mondo, seguono con un po’ di apprensione tutte le tappe di
formazione del movimento. In Italia, il “Corriere della Sera” – quotidiano che, come
vedremo, non risparmierà dure critiche agli studenti – parla di «giovani irrequieti per
natura», universitari e studenti delle superiori, «alunni delle elementari e delle medie»
che dall’Italia alla Svezia, dagli Stati Uniti alla Francia, protestano, scioperano e «fanno
chiasso per ragioni diverse»
16
.
Il contesto mondiale in cui esplode la protesta è segnato dalla violenza – dalla
guerra nel Vietnam alla morte di “Che” Guevara, dall’assassinio di Martin Luther King
alla strage di Piazza delle Tre Culture
17
- ovunque si spara e si muore.
Il perchØ della morte degli studenti messicani uccisi – si legge in un volantino del
Movimento studentesco – è il perchØ dei 400.000 vietnamiti sterminati dal napalm. ¨ il
perchØ della morte di Che Guevara, […] è il perchØ dei milioni di morti per fame, malattie,
miseria ed indigenza in Asia, Africa e Medio Oriente. ¨ la logica dell’imperialismo, dello
sfruttamento, del capitalismo. In quanto sfruttati, violentati nelle coscienze, castrati nelle
facoltà creative e impossibilitati nell’esercizio della libertà […] per tutto questo noi diciamo
che il massacro degli studenti messicani, dei vietnamiti, dei guerriglieri e delle popolazioni
asiatiche e latino-americane è un massacro che coinvolge tutti noi
18
.
Un tema particolarmente caro al movimento è proprio il dibattito sul Vietnam,
teatro di un conflitto che oppone la piø grande potenza mondiale, gli Stati Uniti, a uno
dei Paesi piø poveri del mondo, guidato da quello che, presto, sarebbe diventato uno
degli “eroi” degli studenti, Ho Chi Min. Stare dalla parte dei vietnamiti significa
sostenere un principio: la ribellione dei popoli contro l’imperialismo.
14 Cfr. Ortoleva, La sfinge ‛68, in L. Bobbio, F. Ciafaloni, P. Ortoleva, R. Rossanda, R. Solmi, Cinque
lezioni sul ‛68, Dossier di “Rossoscuola”, n. 1, 1982, pp. 37-49.
15 A. Touraine, Le mouvement de mai ou le communisme utopique, Seuil, Paris, 1968.
16 A. Sensini, Nella scuola italiana poche aule e vita difficile, in “Corriere della Sera”, 20 novembre 1967,
p.11.
17 Il 2 ottobre 1968, oltre 10 mila studenti accorsero in Piazza delle Tre Culture (Città del Messico) per
partecipare ad una manifestazione antigovernativa: l’intervento della polizia e dell’esercito, per ordine del
presidente Gustavo Diaz Ordaz, provocò 300 vittime.
18 G. C. Marino, Biografia del Sessantotto. Utopie, conquiste, sbandamenti, Bompiani, Milano, 2004, p.
255.
10
«Su questa base – spiega Ortoleva – è possibile trasferire un paese asiatico in tutti
gli angoli del mondo»
19
. “Creare due, tre, mille Vietnam” diviene presto lo slogan della
contestazione: bisogna creare un Vietnam nelle scuole, nelle fabbriche, nei ghetti delle
grandi metropoli industriali, cercare cioè di manomettere quel meccanismo diabolico
che opprime le classi piø deboli. Il regista francese Jean Luc Godard, presentando un
suo film nel 1967, suggerisce addirittura di portare il Vietnam «dentro di sØ»
20
,
caldeggiando così un processo di identificazione totale con i compagni vietnamiti,
capace di superare sia le distanze geografiche che quelle culturali.
Contemporaneamente, l’esperienza della Rivoluzione culturale cinese nel 1966-67
viene interpretata come «un movimento di massa spontaneo e antiautoritario»
21
, nato
per diffondere un’idea di socialismo nuova, in antitesi col modello gerarchico e
centralistico del socialismo sovietico.
Come dirà nel 1969 il filosofo tedesco, Hans Jurgen Krahl, «Che Guevara, Fidel
Castro, Ho Chi Min e Mao Tse-Tung sono rivoluzionari che ci hanno comunicato una
morale politica che rifiuta il compromesso […] ben diversa dalla “Realpolitik” borghese,
fatua e senza principi»
22
.
Le lotte dei popoli del Terzo Mondo e il conflitto vietnamita sono il collante di
una generazione, in grado di unire giovani lontani tra loro migliaia di chilometri.
Scrive il sociologo americano Anthony Oberschall:
La condizione minima per una protesta collettiva è l’esistenza di un bersaglio comune ,
che sia oggetto di ostilità perchØ ritenuto responsabile dei mali, delle privazioni e delle
sofferenze di coloro che protestano, alla quale si aggiunge in alcuni casi un sentimento
profondamente radicato di essere sottoposti ad una oppressione collettiva, di avere interessi
comuni ed un comune destino
23
.
Il bersaglio comune è dunque la guerra del Vietnam e, piø in generale, lo
sfruttamento del Terzo Mondo, di cui sono direttamente responsabili le due
superpotenze che, in piena “guerra fredda”, si contendono il sistema-mondo: Stati Uniti
e Unione Sovietica. Tuttavia, queste simpatie terzomondiste tradiscono un’evidente
19 Ortoleva, Saggio sui movimenti del 1968 in Europa e in America, cit., p. 36.
20 L’intervento di Jean Luc Godard per il film Lontano nel Vietnam, 1967, è riportato in Ortoleva, Saggio
sui movimenti del 1968 in Europa e in America, cit., p. 36.
21 P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, Einaudi, Torino, 1989, p. 409.
22 H. J. Krahl, Dati personali, in Ortoleva, Saggio sui movimenti del 1968 in Europa e in America, cit., p.
240.
23 A. Oberschall, Una teoria sociologica della mobilitazione, in Movimenti di rivolta. Teorie e forme
dell’azione collettiva, a cura di A. Mellucci, Etas Libri, Milano, 1976, p. 175.
11
contraddizione in seno al movimento: se da una parte, infatti, esso condanna ogni forma
di oppressione politica, dall’altra perdona a molti Paesi del Terzo Mondo forme di
autoritarismo estremo e il culto della personalità.
Due diversi punti di vista che, a detta dei contestatori, sarebbero «legittimati con
la radicale diversità di condizione, di collocazione nella lotta mondiale contro
l’imperialismo, di cultura»
24
.
2. La cultura underground e la beat generation
Non è un’epoca di sobria riflessione, ma un’epoca di evocazioni […] la letteratura che
lascia il segno oggi è la underground literature, sono i discorsi di Malcom X, gli scritti di
Fanon, le canzoni dei Rolling Stones e di Aretha Franklin. Tutto il resto ha il suono di un
saggio del Time, che spiega tutto, non capisce niente e non cambia nessuno
25
.
Come emerge dalle parole di Rudi Dutschke, storico leader del Movimento
studentesco tedesco, la cultura underground si pone come un’urgenza per l’inquieta
generazione di giovani cresciuti nelle società del benessere del secondo dopoguerra.
Si avverte il bisogno di costruire discorsi, visioni, immaginari, canali di
espressione totalmente “altri” rispetto all’ordinario. Si sente un «diffuso bisogno di
grandi ideali che giustifichino il senso dell’esistenza, unito al rifiuto di tutti i modelli di
vita che vengono proposti»
26
.
¨ con questo spirito che si affaccia sul panorama internazionale il movimento beat,
la cui data di nascita si può far risalire al 1959, anno di pubblicazione del romanzo che è
subito diventato il suo manifesto: “Sulla strada”, di Jack Kerouac.
La beat generation nasce dal rifiuto del sistema, del mondo degli adulti, della
morale borghese, ai quali si cerca di reagire auspicando la creazione di quella che il
sociologo tedesco Hollstein chiama la «contro-società dell’underground»
27
.
[…] Il Movimento beat – spiega Michele Rallo – si classifica fin dalle origini come un
Movimento antiamericano, un Movimento che prende radicalmente posizione contro
l’ideale di vita americano, l’ideale borghese, gastronomico, panciafichista […] una vera
24 Ortoleva, Saggio sui movimenti del 1968 in Europa e in America, cit., p. 38.
25 R. Dutschke, Le contraddizioni del tardo capitalismo, gli studenti antiautoritari e il loro rapporto col
terzo mondo in La ribellione degli studenti, Feltrinelli, Milano, 1968, pp. 132-133.
26 Balestrini, Moroni, L’orda d’oro. 1968-1977. La grande ondata rivoluzionaria e creativa, politica ed
esistenziale, cit., p. 32.
27 W. Hollstein, Underground, Sansoni, Firenze, 1971, p. 94.
12
protesta sta alla base della beat generation, una protesta contro il mondo attuale che Kerouac
ci indica come destinato a trovare uno sbocco in un altro mondo spiritualista, eroico […]
28
¨ un movimento che ha nel proprio dna due elementi irrinunciabili: pacifismo e
libertà, senza tuttavia trascurare altri importanti capisaldi della controcultura
internazionale quali la demonizzazione del dio denaro, il protofemminismo, l’obiezione
di coscienza e il disprezzo per la partitocrazia. Di qui il sostanziale disimpegno politico
che, nel panorama controculturale, ritroviamo anche nel movimento hippy, che nasce
negli Usa intorno alla metà degli anni sessanta.
Di diverso avviso, invece, sono gruppi come i Provos di Amsterdam, gli EnragØs
di Nanterre e gli Uccelli di Roma, che all’auto marginalizzazione dei beat rispondono
sporcandosi le mani sul terreno della contesa politica
29
.
Basti pensare ai cosiddetti “Piani bianchi”, promossi dai Provos olandesi, svedesi
e norvegesi, che nel tentativo di rendere le città piø vivibili auspicano la distribuzione
gratuita delle biciclette, il disarmo della polizia, il restauro dei centri storici, il blocco
dei fitti e l’apertura di sportelli di informazione e consulenza sessuale.
Ciascuno di questi movimenti ha avuto una parte importante nell’esplosione della
contestazione studentesca: in effetti, come scrive Peppino Ortoleva, il ‛68 «è la
continuazione con altri mezzi e il culmine di una fase ascendente, aggressivamente
universalista e totalizzante della cultura giovanile»
30
. ¨ nella dichiarata volontà di
rompere ogni legame con il passato, a partire da quello con la «bastarda generazione
precedente»
31
, quella dei genitori, che si manifesta l’eredità delle diverse anime della
cultura underground. Una critica all’istituzione fondante di ogni società, la famiglia, che
nel giro di poco tempo si estende anche alla scuola e al mondo del lavoro.
Posizioni radicali, decisamente controcorrente, veicolate attraverso gli scritti di
autori come Ginsberg, Kerouac, Miller, Ferlinghetti che, dagli Stati Uniti, giungono nel
nostro Paese a metà degli anni sessanta, inaugurando la stagione della controcultura in
Italia.
28 M. Rallo, Lettera aperta a Mondo Beat, in “Mondo Beat”, n. 4, 31 maggio 1967.
29 Cfr. P. Echaurren, C. Salaris, Controcultura in Italia 1966-1977. Viaggio nell’underground, Bollati
Boringhieri, Torino, 1999.
30 Ortoleva, Saggio sui movimenti del 1968 in Europa e in America, cit., p. 59.
31 Hollstein, Underground, cit., p. 82.
13
Il fenomeno beat fa la sua prima apparizione a Milano nel 1965, dove un gruppo
di “capelloni” prende in affitto un negozio di viale Montenero, trasformandolo nella
redazione del primo giornale underground italiano, “Mondo Beat”.
Si tratta di una rivista che, come altre dello stesso filone (si pensi ad esempio ad
“S” e a “Pianeta Fresco”), rappresenta una «singolare fusione tra istanze anarchiche,
filosofie orientali, rivolte esistenziali e battaglie contro il razzismo»
32
.
L’idea è quella di un sovvertimento globale che investa ogni settore della società
al grido di slogan che, in breve tempo, avrebbero conosciuto un’incredibile diffusione:
“Dateci i sacchi a pelo e tenetevi le bandiere”; “L’amore everte, l’astinenza perverte”;
“La scuola fucina di cervelli, preservativo di idee”, ed altri ancora, sempre polemici e
irriverenti. Agli appelli dei giornali underground, la stampa borghese, e il “Corriere
della Sera” in particolare, rispondono con sdegnosa ironia.
Il quotidiano di via Solferino commenta così la notizia dell’apertura di un asilo
beat a Roma:
Personalmente non vediamo di malocchio questo nuovo tipo di asilo infantile. E
spieghiamo perchØ [,,,] tutti i sociologi e gli psicologi sono d’accordo abbastanza nel
ritenere che la moda “beat” nasce da un desiderio di ribellione ai gusti degli adulti e dalla
necessità dei giovani di manifestare esteriormente, proprio con l’abbigliamento,
un’autonomia di cui, interiormente, sono poco convinti. Se questo è vero, i bambini allevati
negli “asili beat” non desidereranno altro […] che di reagire alla moda imposta dai loro
genitori […] Accadrà, così, che i loro genitori, ormai anziani e pieni di acciacchi, che
avranno continuato a seguire la moda dei capelloni, si sentiranno esclusi e sorpassati da una
generazione ribelle, che danzerà il tango […] e diserterà i locali dei “matusa”, dove si
ripeteranno, stancamente, i ritmi shake
33
.
Previsioni, quelle del “Corriere”, che si riveleranno del tutto errate, come
dimostrano i fatti successivi: la cultura beat, infatti, ha contribuito in modo
determinante alla nascita del movimento sessantottino, dal quale si poi è separata,
proseguendo come corrente parallela nel corso del 1968, dopo la «politicizzazione
ideologica»
34
di quest’ultimo.
32 Balestrini, Moroni, L’orda d’oro. 1968-1977. La grande ondata rivoluzionaria e creativa, politica ed
esistenziale, cit., p. 46.
33 L’asilo «beat», in “Corriere della Sera”, 10 febbraio 1967, p. 2.
34 Balestrini, Moroni, L’orda d’oro. 1968-1977. La grande ondata rivoluzionaria e creativa, politica ed
esistenziale, cit., p. 60.
14
3. I ribelli di Berkeley
L’impulso rivoluzionario che innesca, su scala mondiale, l’ondata contestativa
arriva da Berkeley, cittadina della California, sede di un importantissimo polo
universitario.
¨ il 1964: il Movimento studentesco americano è ormai attivo da quattro anni.
Nato nel 1960, prende ufficialmente avvio nella Carolina del Nord, con l’iniziativa di
alcuni studenti neri che organizzano un sit-in di protesta contro la segregazione
razziale
35
.
Nelle università, come in ogni settore della società americana dell’epoca, sono
profonde le disparità sociali tra i figli della borghesia bianca, che hanno i mezzi
economici per accedere all’istruzione secondaria, e il proletariato nero.
Parallelamente allo sviluppo del movimento per i diritti civili, che rappresenta a
tutti gli effetti la scintilla che infiamma i campus universitari negli anni sessanta, nasce
l’associazione Student for a Democratic Society (SDS), la piø grande organizzazione
studentesca creata negli Usa.
Ispirata ai principi del Manifesto di Port Huron, dopo un’iniziale collaborazione
con il movimento per i diritti civili negli Stati del Sud, la SDS si configura come un
laboratorio di riflessione, di produzione teorica e di sintesi dei diversi temi della
contestazione, senza disdegnare l’azione pratica. Il bersaglio principale diventano le
università, bollate come classiste e negatrici del diritto a una libera educazione.
Ed è qui che gli studenti iniziano quell’attività di smantellamento delle tradizioni
che il sociologo Daniel Bell ha definito «la rivoluzione del sapere»
36
.
Con questo spirito nasce il movimento per la libertà di parola, il Free Speech
Movement, che coinvolge migliaia di studenti che si mobilitano per rivendicare il
“potere studentesco”. ¨ un movimento antigerarchico e non violento, che incarna
politicamente «qualcosa di analogo a una terza via fra la sinistra tradizionale […] e una
improbabile rivoluzione»
37
. Diritti civili, libertà di parola, liberalizzazione sessuale e la
guerra nel Vietnam sono i temi che piø ricorrono nelle rivendicazioni degli studenti che,
35 Si veda in proposito M. C. Lavabre, H. Rey, Il ‛68. Una generazione in rivolta, Giunti gruppo editoriale,
Firenze, 1998.
36 Cfr. D. Bell, La fine dell'ideologia. Il declino delle idee politiche dagli anni Cinquanta a oggi, SugarCo,
Milano, 1991.
37 Lavabre, Rey, Il ‛68. Una generazione in rivolta, cit., p. 11.
15
al primo posto tra le istanze di lotta, pongono sempre la critica, feroce e costante, al
vecchio e inadeguato sistema universitario americano.
La situazione precipita nel 1964, quando all’università di Berkeley si verificano i
primi scontri tra il Movimento studentesco e le forze dell’ordine. Ad accendere gli
animi è la decisione del rettore, Clark Kerr, di proibire la distribuzione di materiale
politico al di fuori dei cancelli della struttura universitaria. Gli studenti decidono, allora,
di occupare il campus, che viene però sgomberato dalla polizia poco dopo.
¨ il primo episodio di “repressione” nei confronti del Movimento studentesco, che
avrà un’eco in tutto il mondo, in Francia e in Italia in particolare, dove di lì a poco
sarebbe esplosa una contestazione radicale.
Curiosamente, proprio il 1968 è l’anno della decadenza della SDS che finirà
suddivisa in piccoli corpuscoli radicali, alcuni dei quali aderiranno addirittura alla lotta
armata.
L’ultima azione firmata dalla SDS è l’occupazione della Columbia University di
New York, nell’aprile del ‛68. Già dal 1966 si era opposta alla presenza nel campus dei
reclutatori dell’esercito e della CIA, richiesti dal rettore, Grayson Kirk, da sempre ostile
a qualunque forma di rivendicazione provenisse dagli studenti. Sono due i motivi
scatenanti la protesta: la requisizione “per utilità pubblica” di un parco giochi per
bambini in un’area abitata quasi esclusivamente da afroamericani e il “caso” di Mark
Rudd, uno studente filo-cubano, che dichiara guerra alla torbida amministrazione della
Columbia con una lettera aperta indirizzata all’odiato Grayson Kirk:
Io vi vedo un autentico conflitto fra coloro che dirigono le cose oggi – lei, Grayson
Kirk – e coloro che si sentono oppressi e disgustati dalla società da voi diretta, noi giovani
[…] Possiamo indicare, in breve, nei nostri studi insensati, nelle nostre crisi d’identità, nella
nostra ripugnanza a fare da rotelle della vostra macchina aziendale il frutto di una società
fondamentalmente malata e la reazione a essa [… ] Prenderemo il controllo del vostro
mondo, delle vostre aziende, della vostra università, e cercheremo di plasmare un mondo in
cui noi e gli altri possiamo vivere come esseri umani […] Resta solo una cosa da dire. Può
sembrarle nichilistico, perchØ è lo sparo che dà inizio a una guerra di liberazione. Userò le
parole di LeRoi Jones che, sono sicuro, non le piace granchØ: Contro il muro, figlio di
puttana, questa è una rapina
38
.
Tra il 29 e il 30 aprile la polizia sgombera con la forza i locali dell’università,
traendo in arresto 720 giovani. La direzione della Columbia sospende Rudd e altri
38 M. Kurlansky, ‛68. L’anno che ha fatto saltare il mondo, Mondadori, Milano, 2004, pp. 216-217.