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inondando in parte i paesi di Erto e Casso ed alcune loro frazioni, mentre
un’altra metà scavalca la diga e si abbatte sulla valle del Piave distruggendo
completamente i paesi di Longarone, Castellavazzo, Pirago, Rivalta, Villanova e
Faè. Il numero di morti è drammatico, circa 2.000, la cifra esatta non sarà mai
accertata con precisione. La storia della diga, iniziata sette anni prima, si
conclude con quattro brevi minuti di apocalisse.
Nel 1998 di Vajont sapevo ben poco. Ricordavo solamente che circa un anno
prima, su RAI 2 in prima serata, fu trasmesso uno splendido monologo teatrale,
scritto ed interpretato dall’attore Marco Paolini. In quella occasione l’opinione
pubblica fu sollecitata a pensare, a riflettere, a riscoprire, a non dimenticare, a
confrontarsi con una tragedia del nostro paese troppo presto rimossa e trascurata,
quasi per vergogna.
Come si presenta la valle del Vajont ancora oggi, a distanza di quasi 40 anni, è
impressionante ed incredibile. Come, del resto, è totalmente irreale l’aspetto
della valle del Piave all’altezza di Longarone, il paese che più fu colpito dalla
tragedia.
Quando ho visitato Longarone ho avvertito subito un’atmosfera strana. Sarà
stato che era di domenica mattina, molto presto, ma quella città, quella porzione
di valle del Piave, è diversa dalle zone adiacenti.
Le case sono molto differenti rispetto ai caratteristici villini di montagna
presenti negli altri centri della zona, le strade sono larghe, geometricamente
allineate, troppo ordinate, non naturali. La disposizione degli edifici è
schematica, asettica, predefinita, non è deliziosamente caotica e spontanea come
un paese di montagna dovrebbe avere. La valle, che in quel punto si allarga e
diventa meno inclinata, è stranamente piatta e livellata, come se qualcosa di
grandioso l’avesse forgiata tempo prima.
Per arrivare alla diga si prende una strada che, attraversato il fiume, comincia a
salire sui fianchi del monte, in sponda sinistra. Dopo alcuni tornanti ed
innumerevoli segnali di pericolo per dissesto idrogeologico (frana, caduta massi,
strada dissestata), si entra in territorio friulano. La strada penetra in alcune
gallerie scavate nella roccia, estremamente buie e tortuose, e continua interna al
monte lungo tutta la forra del Vajont, un vertiginoso precipizio tanto bello
quanto angusto. Ancora alcuni metri e ci si trova di fronte alla diga. Lo
spettacolo è, in effetti, veramente eccezionale, da brividi. Una vela bianca,
immensa, leggermente annerita in alcuni punti dall’umidità, ma splendidamente
maestosa, austera e solida. Un monumento alla capacità umana nella costruzione
di opere ardite e nella sfida alle più comuni leggi della fisica.
Appena superato lo sbarramento artificiale si entra nella valle del Vajont e ci si
trova di fronte ad una collina, alta circa 200 metri e lunga un paio di chilometri,
esattamente al centro della vallata, dove era situato il lago artificiale. Questa
collina è la frana del monte Toc, monte che si staglia subito dietro, appena
nascosto, con l’immensa cicatrice sul fianco ancora presente, per niente
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intaccata dal tempo e dagli agenti atmosferici, a perenne testimonianza della
tragedia.
Continuando avanti, per altri 2 chilometri circa, si arriva al lago, o almeno ciò
che rimane del lago, che ora si presenta poco esteso, limaccioso e leggermente
sinuoso nel fondovalle. Sopra, sul versante destro, i due paesi di Erto e Casso.
Ciò che lascia senza parole è che tutto è rimasto immutato o quasi. La frana, il
monte, la diga, nulla è cambiato, i protagonisti principali sono ancora lì. Nella
gola del Vajont si può vedere benissimo, ancora, il segno evidente del passaggio
dell’acqua sulla roccia, le strutture superiori della diga sono come limate e
smussate, segno evidente della potenza e della furia delle acque nel loro
passaggio sul coronamento.
Ora è stata ricostruita una passerella in metallo che permette di visitare
l’impianto, con delle visite guidate in tutti i periodi dell’anno. L’osservatore
cerca di immaginare cosa possa essere successo, come possa essere stata la
dinamica del fenomeno, dell’onda, del vento compresso nella stretta gola fino a
liberarsi di fronte a Longarone, ma tutto ciò rimane difficile.
E’ un evento troppo grande, troppo drammatico per poter essere capito o
semplicemente immaginato. Solo chi lo ha vissuto in prima persona può capire
cosa sia stato realmente il disastro del Vajont.
Dopo quella visita ho cercato di documentarmi e leggendo alcuni dei tanti libri
scritti sull’argomento ho conosciuto anche la vera storia del Vajont.
La frana non cadde da sola, fu provocata, e gli uomini che l’hanno provocata
hanno sempre sostenuto la loro innocenza. Uno di loro si è suicidato alla vigilia
del processo. Gli altri hanno lottato, convinti di non aver fatto altro che il loro
dovere e di essere incappati in un evento imprevedibile. Che imprevedibile non
era. Quella frana è, tuttora, la seconda più grande che sia mai caduta al mondo
da quando è apparso l’uomo. La prima è caduta in India, nel Pamir, la seconda
nel cuore dell’Europa, in Italia, nel Veneto.
Il disastro del Vajont è l’argomento principale intorno al quale ruota tutta la
Tesi, in quanto in esso vi sono gli esempi tangibili per capire cosa significa
“sfruttamento idroelettrico di un fiume” e, soprattutto, per capirne le
conseguenze.
In effetti, la distruzione e la conseguente ricostruzione di Longarone e dei due
centri di Erto e Casso, sono, probabilmente, un caso di studio unico al mondo,
che permette di constatare, sia a livello socio-economico che a livello geo-
economico, come possa rinascere dalle macerie una comunità operosa e,
indubbiamente, ricca come quella attuale.
Nel primo capitolo si trovano analizzati sinteticamente gli aspetti geografici
principali del fiume Piave e del suo bacino, con le sue origini, il suo aspetto
morfologico e la sua influenza su una particolare formazione montuosa nella
zona delle Prealpi Venete, il Montello.
Si affronta poi, in maniera schematica, il discorso sulle modalità di sfruttamento
del fiume, essenzialmente per scopi idroelettrici ed irrigui, con le dirette
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conseguenze ed i principali progetti di salvaguardia ambientale attualmente in
atto.
Dopo una piccola introduzione al “carbone bianco”, con alcuni aspetti storici di
indubbia importanza, si entra nel vivo del discorso introducendo la SADE, la
Società Adriatica di Elettricità, che ha praticamente “colonizzato” per scopi
idroelettrici tutto il bacino del Piave per tutta la prima metà del secolo scorso.
Se ne percorre la storia con una dettagliata analisi di tutti i principali impianti
della zona, costruiti ed attivati fino al 1963, analizzati sia dal punto di vista
economico che strutturale.
Gli impianti in questione sono:
ξ Impianto Piave-Ansiei;
ξ Impianto Piave-Boite-Maè-Vajont;
ξ Impianto Piave-S.Croce;
ξ Impianto Castelletto-Nervesa;
ξ Impianto Cordevole-Medio Piave;
ξ Impianto Brentella-Basso Piave.
Si approfondisce poi il discorso sul Grande Vajont. Questo impianto avrebbe
avuto una capacità totale di 150 milioni di m³ di acqua, da solo tutta la capacità
utile messa insieme di tutti gli impianti costruiti e funzionanti fino a quel
momento nel bacino del Piave. Un’opera faraonica, dai risvolti economici
grandiosi, vanto dell’ingegneria italiana dell’epoca, che poteva così presentare al
mondo intero la diga ad arco a doppia volta più alta del pianeta, 261,60 metri, un
record.
Purtroppo nella costruzione della diga e dell’invaso non si considerò
adeguatamente il contesto idrogeologico della valle, nella quale era presente una
immensa frana di origini preistoriche sulla sponda sinistra del lago, che
aspettava solamente una sollecitazione dal basso per venire giù. Questa
sollecitazione la diede il lago stesso, con i continui invasi e svasi, con le
continue opere di consolidamento sulla diga e sulle sponde, che non hanno mai
portato a risultati soddisfacenti per evitare il movimento franoso, anzi lo hanno
accelerato in modo inizialmente impercettibile e poi sempre più evidente.
A questo punto iniziano le responsabilità palesi dei progettisti della diga e dei
dirigenti della SADE, che per non rinunciare ad un cospicuo profitto, reso
sempre più urgente dalla nazionalizzazione del settore energetico italiano con la
imminente nascita dell’ENEL, non hanno esitato a rischiare la vita di 2.000
persone per consegnare collaudato un impianto che non doveva assolutamente
essere costruito.
Si riporta quindi una dettagliata e fedele cronaca dei fatti, dal 1956 al 1963, con
una serie di testimonianze dei superstiti al disastro ed una elencazione dei
precedenti storici relativi a frane e smottamenti riguardanti la zona in oggetto.
Il capitolo si chiude con alcuni riferimenti all’attuale situazione del bacino del
Piave e con un accenno agli aspetti comunque positivi dello sviluppo energetico
nel Cadore, causa di un notevole progresso economico, che ha reso la zona un
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distretto industriale tra i più importanti d’Italia, soprattutto nei settori
dell’occhialeria e della lavorazione del legname.
Nel secondo capitolo, forse il più interessante, si è ritenuto fondamentale fare
un’analisi di tipo geo-economico e demografico sulla ricostruzione dei due
centri più colpiti dal disastro, Longarone, nella valle del Piave, ed Erto-Casso,
nella valle del Vajont, sottolineando anche le notevoli differenze territoriali fra
le due valli prima e dopo il 1963.
Si identifica innanzitutto la zona di Longarone come una sub-regione, non
appartenente al Cadore ed indipendente dal contesto in cui si sviluppa.
Fatta una breve analisi della vecchia Longarone, ormai scomparsa, si affronta il
discorso della ricostruzione, soprattutto nel primo decennio 1963-1973, il più
importante in assoluto, con risvolti economici ma soprattutto demografici
veramente interessanti.
Di questo decennio si ripercorrono la ricostruzione economica, la ricostruzione
edilizia, l’afflusso di denaro, spesso superiore alle reali esigenze, proveniente a
Longarone da tutto il mondo, il processo del Vajont, con i suoi risvolti in parte
beffardi, alcuni aspetti di vita sociale importanti quali l’amministrazione
comunale, la parrocchia, i partiti politici e l’associazione “Pro Loco”.
Gli aspetti urbanistici della nuova Longarone sono affrontati puntando l’indice
essenzialmente sulle differenziazioni funzionali tra vecchia e nuova città, con
una analisi dettagliata degli innumerevoli Piani Regolatori presentati in quegli
anni, una quantità veramente esagerata, che esemplifica più di ogni altra cosa le
difficoltà gestionali che si sono avute nella ricostruzione del paese, cosa peraltro
ampiamente giustificabile data la portata dell’evento.
E’ stato interessante approfondire, negli aspetti economici della ricostruzione, il
discorso sulla “Mostra Internazionale del Gelato”, evento simbolo della vecchia
Longarone ma soprattutto della rinascita di questa comunità, così duramente
colpita.
Degli aspetti demografici si sono analizzate la struttura, la dinamica e la
tendenza della popolazione, dimostrando che in poco più di un decennio il
valore numerico della stessa è tornato ai livelli precedenti ma ne è cambiata
radicalmente la composizione interna, con un abbassamento medio dell’età
molto alto, fenomeno del resto simile a tutte le comunità colpite da gravi
sciagure o guerre.
Non meno importanti sono gli aspetti sociali della ricostruzione, visti soprattutto
sotto l’ottica dei rapporti tra vecchi e nuovi longaronesi, del conflitto di interessi
particolari tra le due componenti, delle difficoltà quotidiane affrontate dalla
popolazione superstite nel ricrearsi una vita e nel superare lo shock iniziale della
perdita di identità culturale subita dalla comunità tutta.
In chiusura di capitolo si affronta il problema di Erto e Casso, i due paesi situati
sulle sponde del lago, e quindi direttamente interessati dalla costruzione del
bacino. Si analizza soprattutto il problema della diaspora di questa comunità,
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anch’essa sconvolta, costretta ad abbandonare nella maggior parte dei casi la
vallata in cui era nata e cresciuta.
La ricostruzione del Comune di Vajont nella piana di Maniago ed i risarcimenti
avuti dopo il processo non hanno mai rimarginato lo strappo subito da questa
popolazione, sradicata dalle proprie origini e mai sufficientemente aiutata nella
ricostruzione, sia morale che materiale.
Con il terzo, quarto e quinto capitolo si abbandona il discorso specifico sul
Vajont per analizzare gli aspetti economici ed ambientali della zona del Piave e
del Cadore in particolare.
Nel terzo capitolo si tratta in maniera approfondita del Centro Cadore, con
approfondimenti specifici su due tra i Comuni più importanti della zona,
Auronzo di Cadore e Pieve di Cadore.
Questi due paesi nascono entrambi sulle rive di un lago artificiale, creato da
sbarramenti a scopo idroelettrico, e rappresentano l’esempio dell’operatività e
ricchezza imprenditoriale della zona, soprattutto nel settore della produzione di
occhiali, che consente al Cadore di piazzarsi ai primi posti d’Italia in quanto a
fatturato e PIL.
In particolare il lago di Pieve di Cadore è tra i più grandi dell’intero sistema
Piave-Boite-Maè-Vajont ed ha caratterizzato sicuramente lo sviluppo economico
di questa comunità, in questo caso aiutando la popolazione e non
distruggendola, come nella vicenda del Vajont. Sono le due facce di una stessa
medaglia che vanno sempre tenute presenti quando si vogliono dare dei giudizi
sull’opportunità dello sfruttamento idroelettrico di un fiume, quale esso sia.
Nel trattare gli aspetti economici contingenti si è dato risalto al ruolo energetico
nel livello di integrazione tra attività economiche in aree montane e, soprattutto,
rispetto all’industria degli occhiali, vero motore trainante dell’economia di tutta
la zona.
Si è ritenuto opportuno poi approfondire alcuni aspetti demografici fino al 1960,
individuando in essi le ragioni della depressione iniziale di questa zona, terra di
emigranti e contadini, fino al completo sviluppo industriale degli ultimi decenni,
che ha proiettato il Cadore nell’élite dell’economia imprenditoriale italiana.
Nel quarto capitolo si affronta il problema del futuro del fiume Piave, di come
questo fiume saprà reggere al peso di uno sfruttamento delle sue acque sempre
più pressante, di come esso reagirà alle continue derivazioni per scopo
idroelettrico ed irriguo, di come si porrà la popolazione locale di fronte alla
continua carenza di acqua, soprattutto in pianura, e, quindi, alle conseguenti
contrapposizioni di interessi tra chi vede il fiume come una fonte energetica e
chi lo vede invece come una fonte di acqua per le colture di pianura ed il
rifornimento delle falde acquifere a valle. Si elencano quindi, brevemente, gli
impianti per lo sfruttamento attuale a scopo idroelettrico, i nuovi progetti
dell’ENEL, tra i quali emerge quello delle “Centraline”, l’interessante
esperienza di rilascio sperimentale sul Cordevole ed i suoi effetti, alcuni criteri
proposti per la determinazione del deflusso a valle delle opere di presa, le
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condizioni naturali del fiume Piave, il problema delle derivazioni a rischio nel
suo bacino.
Il capitolo si chiude con due interessanti approfondimenti sullo sfruttamento
idroelettrico in altre zone. Prima un confronto con una Regione vicina, il
Trentino, e poi il problema della costruzione delle grandi dighe nei paesi del
Terzo Mondo, in particolare nella Cina, con la costruzione della ciclopica diga
delle “Tre Gole”, con tutte le conseguenze che da essa derivano o possono
derivare.
Nell’ultimo capitolo, il quinto, si riporta per esteso il progetto per la sicurezza
idraulica del Medio e Basso Piave, il cosiddetto “Piano Stralcio”, che dovrebbe
dare un assetto definitivo al fiume con opere di contenimento delle piene molto
importanti.
Questo progetto è del 2001 e si può notare con piacere come, fatto tesoro delle
esperienze precedenti, prima fra tutte quella del Vajont, si tenda ora ad
analizzare tantissimi aspetti prima di procedere alla costruzione di invasi
artificiali, come quello di Falzè, alla costruzione di casse d’espansione per la
laminazione delle piene, come quelle sulle Grave di Papadopoli o di Ciano, o ad
una semplice sistemazione del basso corso del fiume con opere che, in confronto
a quelle affrontate fino al 1963 sul fiume stesso, risultano ora di minima portata.
Pur tuttavia esistono ancora elementi di critica molto mirati, che vengono
essenzialmente dal Comitato Intercomunale per la difesa del Piave, del quale si
riportano fedelmente le osservazioni alla relazione.
Forse un passo in avanti nella valutazione d’impatto ambientale sul fiume Piave
è stato fatto, e questo ci convince sempre di più che i fatti drammatici del Vajont
hanno insegnato qualcosa e non sono rimasti totalmente ignorati.
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PRIMO CAPITOLO
LO SFRUTTAMENTO IDROELETTRICO DEL FIUME PIAVE
ED IL DISASTRO DEL VAJONT
1.1. Geografia del fiume Piave
1.1.1. Origini del fiume Piave
Il Piave nasce tra il 300.000 e il 20.000 a.C. dalle glaciazioni del Pissiano
e del Wurmiano. L'attuale alto bacino del fiume era costituito dal ghiacciaio
Lapisino che sfociava in due lingue, una presso il lago di Santa Croce e l'altra
presso Cornuda. Dopo il ritiro del ghiacciaio, l'alveo del Piave si è
profondamente trasformato dando luogo a cambiamenti morfologici dovuti
all'azione corrosiva delle acque. Si formarono bacini carbonatici, selcerei,
arenatici, quarzosi portati a valle dal fiume stesso. Diverse sono le tracce del
fiume al termine della glaciazione del Wurmiano che coincide con una discreta
presenza dell'uomo di Neanderthal nella fascia collinare dell'alta pianura
trevigiana. Tra il 15.000 e il 12.000 a.C., le acque meno abbondanti portarono
depositi di ghiaccio in quest'area. Le abbondanti alluvioni del varco Biadene-
Caerano unite ad un innalzamento tettonico del mantello, indirizzarono il Piave
lungo il corso attuale. In questo periodo si hanno le tracce più rilevanti della
presenza dell'uomo. Gli interventi principali di quest'ultimo, per evitare
l'interramento della laguna, sono evidenti presso Venezia. Il Paleo-Piave è stato
il fondamentale collegamento tra le Dolomiti e la laguna veneta. Esso
rappresentava l'unica arteria naturale in grado di collegare mare e monti
rappresentando anche una fonte inesauribile di cibo, acqua e inerti. Nei suoi 200
km il Piave presenta una vasta diversità climatica ed ambientale. Lungo il suo
bacino sono stati rinvenuti numerosi manufatti preistorici; gli insediamenti più
antichi risalgono al Medio Paleolitico e si trovano a diverse quote tra la fascia
prealpina e la bassa montagna, essi appartengono all’uomo di Neanderthal.
Sono stati rinvenuti resti inumati di uomini cacciatori-raccoglitori vicino a Feltre
e Cortina d'Ampezzo. Il Piave costituiva, infatti, un punto strategico per questi
uomini data la presenza di punti di passaggio obbligatori per gli ungulati alla
ricerca di nuovi pascoli. Nel Diryas antico e medio l'ambiente era
prevalentemente stepposo: il lavoro principale di cui si occupavano era quindi la
caccia di stambecchi, uri e bisonti.
All'inizio della fase climatica Atlantica in pianura prese piede la foresta di
latifoglie mentre alle alte quote persistevano le praterie aperte. Questo notevole
cambiamento climatico apportò variazioni nel sistema di vita e di caccia
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dell'uomo cacciatore-raccoglitore qui stabilitosi. Questo periodo favorì inoltre lo
sviluppo delle colture e introdusse gli elementi necessari per lo sviluppo
dell'agricoltura. Famosi sono anche gli insediamenti sulle colline per una
migliore difesa. L'età del Bronzo si sviluppa tra il 1200 e il 900 a.C. circa e
segna un progressivo e vasto popolamento della regione percorsa dal Piave, con
ampie testimonianze di insediamenti e rinvenimenti occasionali. Per la fase
antica e media dell'età del Bronzo è difficile determinare quali furono i centri di
irradiazione, non solo per l'età plavense, ma per il Veneto in generale. Per
quest'età abbiamo nel Bellunese e nel Cadore rinvenimenti rari e casuali. Si può
affermare che anche l'alto bacino plavense fosse frequentato dall'uomo pure
nelle vallate e negli affluenti, anche se non possediamo tracce sicure di
insediamenti. Le segnalazioni a quote alte e talora presso passi, sembrano
indicarci una presenza legata ai traffici ed anche alla caccia estiva, unita forse
alla ricerca dei metalli. Simile la situazione del Bronzo antico per la conca
Bellunese: si notano discrete testimonianze nei dintorni di Feltre, Belluno e
Ponte delle Alpi, ove si può presumere una presenza continua, date le migrazioni
tali da permettere una discreta attività agricola e di allevamento. Con il periodo
del Bronzo medio e recente aumenta il numero degli insediamenti, pur sempre
tenendo conto della situazione dei ritrovamenti: reperti di bronzo tra i quali asce,
pugnali, spade, cuspidi di lancia e i meno raccolti strumenti di ceramica ed ossa.
Tutto il bacino del Piave nel bellunese e nell'alta Pianura trevigiana presenta una
situazione di grande vitalità e ricchezza. In seguito al cambiamento climatico c'è
stata un'intensificazione dell'attività insediativa lungo tutta la valle del fiume.
Le popolazioni dell'età del Bronzo introducono una nuova logica insediativa, più
stabile e integrata da interventi di modificazione territoriale. Testimonianze di
questa nuova fase insediativa sono materiali fittili e littici attribuiti all'età del
Bronzo che si trovano distribuiti sulle dorsali collinari dove sono stati rinvenuti
resti di villaggi proprio di questa età. La sopravvivenza di questi schemi
territoriali è dovuta al buon funzionamento delle strutture stesse, anche la
situazione ecologica ha avuto un ruolo fondamentale. In quest'epoca in Europa si
andava delineando un nuovo cambiamento climatico e si avviò un'opera di
trasformazione dei terreni pesanti, solitamente ricoperti da foreste. Il clima sub-
boreale secco, stava cedendo il posto a quello sub-atlantico molto piovoso. Per
le popolazioni dell'età del Bronzo le colline e le aree in prossimità dei corsi
d'acqua, hanno giocato un ruolo fondamentale nella scelta degli spazi da abitare.
Nel quartiere del Piave sono stati ritrovati alcuni oggetti di ceramica attribuiti
all'età del Bronzo, sono essi elementi indicativi dell'antropizzazione del
paesaggio circostante il Piave. Il fiume era in questo periodo battuto da traffici e
da scambi commerciali, soprattutto di metalli, barattati con prodotti agricoli e
derivati dall'allevamento. Sono inoltre stati rinvenute armi di bronzo come
spade, lavorate con notevolissima perizia e gusto. Questi rinvenimenti di bronzo
fanno pensare che attraverso l'area Bellunese avvenissero scambi commerciali
con l'Austria, ricca di rame. Se veniva importato bronzo, era sicuramente
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esportato sale dalla laguna veneziana, di cui le zone alpine erano prive. Nella
parte finale dell'età del Bronzo appaiono sulla scena i popoli inceneritori di
campi d'urne dell'Europa centro-orientale seguiti da gruppi dell'età del Ferro,
provenienti dall'area Moravia-Polonia. Oltre i varchi orientali anche le vallate
alpine e in particolare quelle del Piave furono interessate da queste
immigrazioni.
Verso l'inizio dell'età del Ferro scompaiono molti insediamenti, si possono
notare concentrazioni in zone più difendibili. Per quanto riguarda il corso del
Piave nell'età paleo-veneta, si ripropone il quesito del suo grande popolamento
rispetto alle aree di pianura ben più favorite climaticamente. Una delle
spiegazioni più attendibili è riconducibile alle ricchezze minerarie del bacino
Plavense. La Romanizzazione dell'età Plavense deve essere stata graduale come
per il resto dei territori veneti. Nel 148 a.C. il console Postumio Albino collega
Genova ad Aquileia con una strada consolare, la Postumia. Attraverso questa
strada si espande l'influenza romana. Nel 49 a.C. con Augusto si ha la totale
Romanizzazione del Veneto che diviene la decima regione italiana. Augusto
consolida inoltre il confine delle Alpi con una penetrazione militare e civile
nella valle del Piave, dove trova una situazione privilegiata. Il bacino del Piave
viene diviso in vari municipi, tra i quali, in riva destra, si sviluppò quello di
Treviso. Nel 1534 fu decretato il grande argine di San Marco che spostò il corso
inferiore verso Jesolo. Ma nel 1664 visti i danni delle sabbie, che spinte dalla
corrente minacciavano di chiudere il porto del Lido, fu condotto a termine il
Gran Taglio di Piave, che da Intestadura condusse le acque molto più a oriente,
fin quasi a Caorle. Tuttavia nel 1683 una rotta straordinaria (detta di Landrona)
ruppe il cordone litoraneo e fece dirigere il Piave verso Cortellazzo, dove tuttora
ha la foce. Molto importante è il fiume anche durante la Prima Guerra Mondiale.
Il Piave era stato considerato come un'eventuale linea di arresto dell'esercito in
caso di forzato ripiegamento dall'Isonzo fino al tempo dell'offensiva austriaca
nel Trentino (primavera del 1916). Così fu, dopo che gli Austro-Germanici
forzarono il passaggio del Tagliamento ed il generale Cadorna ordinò la ritirata.
Varie truppe austriache tentarono l'attraversamento ma l'esercito italiano
ostacolò i loro piani. Per alcuni mesi le armi sostarono sul Piave. Solo tra il 15 e
il 23 giugno la vittoria italiana fu confermata dall'azione condotta
simultaneamente da due divisioni del XXIII Corpo d'Armata. La linea del nuovo
Piave fu portata ad 8 km così che la regina dell'Adriatico (Venezia) fu posta
sempre più al sicuro da un'eventuale minaccia nemica. Come disse Gabriele
d'Annunzio il Piave era più che mai “la via maestra della nostra vita”.
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1.1.2. Aspetto morfologico del bacino del Piave
Il Piave è un fiume del Veneto, quinto in ordine di grandezza tra i fiumi
italiani, che nasce nelle Alpi Orientali e sbocca nell'adriatico, 35 km a nord-est
di Venezia, al limite orientale della laguna Veneta. Il suo bacino misura 4.100
km², il suo corso è lungo 220 km. Gli affluenti più importanti, tutti nel corso
superiore e medio, sono quelli di destra, che gli portano alimento dalle Alpi
Dolomitiche: Ansiei, Boite, Maè, Cordevole. Il ramo dove sorge il fiume si trova
alle falde meridionali del Monte Peralba (2.683 m.s.m.), al confine tra il Cadore
e la Carnia. La parte superiore del bacino è relativamente stretta, dato il percorso
trasversale del fiume rispetto all'andamento delle pieghe; si allarga poi
notevolmente nell’attraversare la Val Belluna; si restringe di nuovo alla stretta di
Quero (dove durante l’invasione glaciale il ghiacciaio del Piave ha costruito un
piccolo anfiteatro morenico), lambisce il Montello (grandioso cono di deiezione,
costituito da depositi alluvionali, formatosi nel periodo Plicenico) e con un corso
dapprima larghissimo, nell’alta pianura veneta poi con un alveo ristretto e le
acque raccolte in un solo canale, raggiunge l'Adriatico al porto di Cortellazzo. A
Pederobba è largo 1,5 km, a Falzè, presso l’angolo nord-est del Montello, misura
appena 250 m., poi uscito dalla chiusa di Nervesa ne misura da 600 a 800 e
addirittura 4 km presso Cimadolmo dove si divide in un gran numero di rami,
che costituiscono le cosiddette grave (greti ghiaiosi, con materiali grossolani
assai bibuli e isolotti coperti da arbusti). La foce, che si trova sul medesimo
meridiano della sorgente, presenta un esile pennello sabbioso, dovuto
all’accumulo prodotto dal moto ondoso alla bocca del fiume. Poiché scarsa è
l’azione regolatrice del mantello forestale e i pochi laghi e i pochi ghiacciai del
corso superiore servono poco per moderare le portate, queste vanno soggette a
rapide oscillazioni che sono repentine e di breve durata a causa delle notevoli
pendenze dei corsi superiori. Si hanno così portate di piena veramente
imponenti, quasi cento volte superiori alle portate di magra, e un enorme
estensione di greti, dove le acque di piena formano rapide fiumane di più
centinaia di metri di larghezza che sconvolgono i materiali del fondo. Le
precipitazioni nel bacino sono in media di 1.250 mm annui, ma la loro
distribuzione stagionale ha scarsi rapporti con il regime del fiume sia perché nel
corso superiore esse cadono per molti mesi sotto forma di neve, sia perché a
seconda delle stagioni varia molto il coefficiente di deflusso. Il regime non si
scosta quindi sensibilmente da quello degli altri fiumi alpini; si hanno infatti
magre invernali seguite da piene primaverili-estive (maggio-giugno), che si
esauriscono in agosto-settembre, quindi il corso d'acqua risente delle
precipitazioni che cadono in ottobre-novembre ed ha allora inizio il periodo
delle piene autunnali, assai regolari. La portata minima si aggira a Belluno sui
40 m³ al secondo, la portata massima sui 300 m³ (con un massimo assoluto di
2.500 durante la storica piena del settembre-ottobre 1882), il modulo (portata
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media annua) sui 120-130 m³. Queste cifre sono tuttavia diminuite dopo che,
allo scopo di formare un serbatoio d'acqua con il lago di Santa Croce, venne
effettuata presso Soverzene una deviazione del Piave (in media 40 m³ al
secondo). In seguito ai lavori effettuati, il fiume Rai, emissario artificiale del
lago di Santa Croce che portava le acque nel Piave, è stato chiuso. Le irrigazioni
con acque del Piave vengono sviluppate su una superficie complessiva di 100
mila ettari, dai consorzi Brentella e Canale della Vittoria, che derivano le acque
a Pederobba e Nervesa. Da Zenson alla foce il fiume è navigabile per 34 km; nel
corso superiore è invece praticata la fluitazione, che si arresta a Perarolo. Nella
zona di Montebelluna si origina un conoide dove il Piave anticamente sboccava
in pianura. Attualmente le acque del Piave che scorrono nella stretta valle di
Nervesa, alimentano l'acquifero sotterraneo che viene alla luce nella zona della
fascia delle risorgive. Il Sile e molti altri fiumi di risorgiva traggono la loro
alimentazione anche da tali acque di infiltrazione. A Nord del Montello ed a
ovest ci sono i terrazzi fluvioglaciali delle glaciazioni Riss, Wurm e Mindel (più
antica).
CARTINA 1.1. IL FIUME PIAVE NEL CONTESTO DELL’ITALIA
NORD-ORIENTALE.
Fonte: sito web www.itisconegliano.it.
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1.1.3. Influenza del Piave sulla formazione del Montello
Varie sono le teorie sulla formazione geologica del Montello. Secondo il
Saccardo la vasta area del Montello era un unico cono di deiezione del bacino
del Piave a cui potevano unirsi anche il fiume Brenta e il Soligo. Questo conoide
fu probabilmente sommerso dalle acque del mare che giungevano, in quel
periodo, a toccare le Alpi. L’azione del acqua ricca di sali e di anidride
carbonica provocò lo scioglimento dei detriti e il loro consolidamento in
conglomerato.
Successivamente si ebbe il sollevamento della terra. L’abbondante presenza di
rocce calcaree ha favorito il formarsi di fessure in cui è iniziata l’opera di
erosione delle acque unita a quella di scioglimento. A nord, però, la corrente del
Piave ha favorito, ancora prima delle glaciazioni, un inizio del carsismo. Infatti
su questo versante i valloni sono molto limitati e corti, indice che l’acqua si
insinua subito nel sottosuolo per la presenza del terreno di tipo carsico. A sud,
invece, l’acqua ha scavato fortemente il terreno e solo dopo è riuscita a penetrare
nel sottosuolo.
1.1.4. Caratterizzazione degli usi delle acque prodotte dal bacino
In relazione alle modalità di utilizzazione della risorsa idrica, sono
individuabili nel bacino del Piave le seguenti tipologie:
1) usi civili (idropotabili);
2) usi industriali;
3) usi irrigui;
4) usi idroelettrici.
Le utilizzazioni attualmente in atto possono distinguersi in due grandi gruppi in
relazione alle quantità d'acqua derivate:
a) il primo gruppo di utilizzazioni (con portate complessive dell'ordine di
grandezza di qualche m³ al secondo) risulta essere quello degli acquedotti ad
uso civile, indicando con questo sia gli usi idropotabili propriamente detti sia
gli usi industriali;
b) il secondo gruppo di utilizzazioni (con portate complessive dell'ordine di
grandezza di diverse decine di m³ al secondo) si identifica con gli usi irrigui e
idroelettrici.
Ecco un prospetto riassuntivo delle competenze totali assentite nel bacino del
Piave distinte per uso:
ξ POTABILE: le portate sono restituite al bacino per la maggior parte tramite
i sistemi fognari (80 %) nello stesso ambito territoriale a meno delle
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derivazioni caratterizzate da trasferimenti d'acqua da monte verso valle
(portata max 5,6 m³/s).
ξ INDUSTRIALE: le portate, in molti casi, non vengono consumate
(piscicolture o derivazioni per raffreddamento) e vengono restituite al bacino
subito a valle della captazione; si può considerare che tra l’80 % e l’85 %
delle utilizzazioni a scopo produttivo venga restituito (portata max 22,4
m³/s).
ξ IRRIGUO: le portate sono restituite al bacino solo in parte attraverso le
interazioni con la falda sotterranea, che va ad alimentare il contiguo bacino
del fiume Sile mentre per una percentuale approssimata del 50 % viene
consumata dai processi evapotraspirativi (portata max 97,8 m³/s).
ξ IDROELETTRICO: trattandosi di sistemi di utilizzo e restituzione, non è
corretto parlare di consumo effettivo in quanto le portate sono sempre
restituite all'alveo ovvero a sottobacini limitrofi. Il dato rappresenta infatti la
somma delle concessioni assentite (portata max 544,7 m³/s).
I dati relativi ai prelievi idrici ad uso idropotabile, industriale, irriguo ed
idroelettrico, raccolti presso gli Enti e le Amministrazioni competenti, sono
sintetizzati nei seguenti paragrafi. Le utilizzazioni idropotabili delle portate
derivate dal bacino del Piave ad uso idropotabile ammontano complessivamente
a 5,6 m³/s circa. Queste portate sono derivate dal reticolo idrografico e restituite
al bacino per la maggior parte tramite i sistemi fognari nello stesso ambito
territoriale tranne quelle derivazioni caratterizzate da trasferimenti d'acqua da
monte verso valle. Nel caso del bacino del Piave questo si verifica per il solo
acquedotto dello Schievenin, che trasferisce acque captate nell'ultima parte di
bacino montano ai territori della pianura trevigiana, e che in termini percentuali
sul totale risulta trascurabile; in definitiva si può stimare che solamente 1 m³/s
circa delle acque destinate all'uso idropotabile venga sottratto ai deflussi
superficiali del Piave alla sezione di Nervesa.
1.1.5. Lo sfruttamento attuale del bacino del Piave
A) Sfruttamento idroelettrico
Il sistema idroelettrico del Piave utilizza le acque di questo fiume dalle
sorgenti, sulle falde meridionali del Peralba (a Sappada) fino a Nervesa, dove il
Piave sbocca nella pianura veneta. Il relativo bacino imbrifero (bacino che
raccoglie le acque piovane) che comprende numerosi importanti affluenti, ha
una superficie di 3.899 km².
Gli impianti dell’ENEL relativi a questo sistema attualmente in servizio hanno
una potenza efficiente di complessivi 639 MW ed una producibilità media annua
di 2.259 GWh.
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Nel complesso sono in esercizio 24 impianti, di cui due di riserva a quelli
principali. Dal lago di Santa Croce (serbatoio stagionale con 86 milioni di m³ di
capacità utile), le acque del Piave, fatte defluire su un percorso molto più breve
di quello naturale, azionano 7 centrali (con 338 MW di potenza). A valle di
questi impianti una parte delle acque viene restituita al suo corso originario
attraverso il canale Castelletto-Nervesa, mentre la restante viene immessa nel
fiume Livenza che rappresenta l'ideale confine storico fra il Veneto ed il Friuli.
B) Sfruttamento per ragioni irrigue
Attualmente i consorzi “Brentella”, “Sinistra Piave”, “Destra Piave”, “Basso
Piave” prelevano l'acqua del Piave per ragioni irrigue, distribuendola nelle
campagne grazie ad una rete capillare di canali (sfruttati anche a fini
idroelettrici). I principali canali sono tre e da questi si diramano altre opere
minori che approvvigionano capillarmente la pianura distribuendo le acque del
Piave inizialmente con l'omonimo canale Brentella e poi con i canali Vittoria e
Piavesella, con quest'ultimo che confluisce nel Sile.
C) Le conseguenze dello sfruttamento
Lo sfruttamento delle acque del Piave ha avuto e ha conseguenze sia positive
che negative:
1) Le utilizzazioni idroelettriche ed irrigue attuate in tutto il ‘900 hanno
progressivamente modificato il regime delle acque del fiume e
frequentemente si osservano tratti di alveo, anche molto estesi,
completamente asciutti e privi di qualsiasi flusso superficiale, con grande
compromissione della vita animale e vegetale e anche delle falde di pianura,
che sono sostenute dalle dispersioni nel sottosuolo delle acque superficiali
che scorrono nel fiume.
2) Il prelievo idrico per fini idroelettrici o per scopi irrigui rappresenta un
esempio di stravolgimento ambientale attraverso la costruzione di dighe,
bacini artificiali, centrali di produzione e distribuzione, gallerie, piloni,
opere di regimazione, ponti su strette gole con pareti a picco.
3) L’irrigazione delle aride campagne della pianura per gli agricoltori
rappresenta una risorsa fondamentale per la loro sussistenza..
4) Il progressivo allargamento delle zone servite dai canali non è coinciso con
un ammodernamento delle modalità d'irrigazione (da impianti a scorrimento
a impianti a pioggia).
5) Lo sfruttamento praticamente illimitato delle acque del fiume ha creato
tensioni e conflitti tra i diversi interventi che orbitano sul fiume: tra chi ha
beneficiato fino ad ora di questa situazione e tra chi sostiene le nuove
politiche ambientali adottate non solo a livello nazionale ma anche europeo.