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Sovraesclusione dall' Ingroup come dipendente dal bisogno che ogni
individuo ha di proteggere il carattere positivo del proprio gruppo e
quindi la propria identità personale e sociale.
Nel presente lavoro approfondiremo le teorie sopracitate e
descriveremo alcuni studi che hanno consentito la rilevazione dell'
Effetto di Sovraesclusione dall' Ingroup.
Riporteremo inoltre la nostra ricerca che è stata svolta a Padova
nell' anno accademico 1995/1996 su un campione di studenti
universitari di Psicologia, tutti di origine settentrionale, metà maschi e
metà femmine.
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LE PREMESSE TEORICHE
- PARTE PRIMA -
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1 - STUDI CHE HANNO PORTATO
ALLA RILEVAZIONE DEL FENOMENO DELLA
SOVRAESCLUSIONE DALL' INGROUP
Dal secondo dopoguerra l' attenzione delle ricerche in
psicologia sociale si è focalizzata sulle problematiche del
riconoscimento dei volti ebrei. I ricercatori intendevano sapere, da una
parte, se ci sono delle caratteristiche particolari nel volto degli Ebrei
che li rendevano riconoscibili, e dall'altra parte, se certi tipi di giudici
sono migliori di altri nel realizzare questo compito. Nel paradigma
generale di questi studi i soggetti erano per metà antisemiti e per metà
senza pregiudizi. Si presentava loro una serie di foto di cui la metà era
costituita da volti ebrei e l'altra metà da volti non ebrei; per ogni foto,
i soggetti dovevano dire se la persona era ebrea o se non lo era.
Mentre in sette studi (Allport e Kramer, 1946; Dorfman, Keeve e
Saslow, 1971; Himmelfarb, 1966; Lindzey e Rogollsky, 1950; Pulos
e Spilka, 1961; Quanty, Keats e Harkins, 1975) gli autori trovarono
che i giudici antisemiti erano più abili nel riconoscere i volti ebrei di
quanto non lo fossero i giudici senza pregiudizio; in cinque studi
(Carter, 1948; Elliott e Wittemberg, 1955; Himmelfarb, 1966 Scodel e
Austrin, 1956; Secord e Saumer, 1960;) i precedenti risultati non
furono confermati.
Nel 1946 Allport e Kramer somministrarono ai loro soggetti un
questionario di pregiudizio; successivamente, ai soggetti erano
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proposte 20 diapositive che rappresentavano le foto di 20 studenti.
Dopo 15 secondidi esposizione i soggetti dovevano dire se le persone
delle fotografie erano ebree, se non lo erano, se erano incerti e non
sapevano rispondere. Le foto erano presentate in ordine casuale ed
erano state selezionate in modo da rispettare una ceta diversità di tratti
nei volti. Chi aveva ottenuto alti punteggi nel questionario del
pregiudizio inseriva più foto nella categoria degli ebrei e, allo stesso
tempo, identificava accuratamente i volti degli ebrei meglio di quanto
non facessero i soggetti senza pregiudizio.
Nel 1950 Lindzey e Rogolsky replicarono i risultati proposti da
Allport e Kramer e fornirono una spiegazione del fenomeno basata sui
lavori cognitivi di Brewer (1947) e Postman (1948). Questi autori
affermano che in certe condizioni l' organismo ha la tendenza a
rispondere a materiale minaccioso con una vigilanza maggiore, la
quale è proporzionale al grado di minaccia. Lindzey e Rogolsky
hanno quindi formulato l' Ipotesi della Vigilanza secondo la quale i
soggetti che hanno dei pregiudizi antisemiti, sentendosi minacciati
dagli Ebrei imparano ad essere più vigili e sensibili a quegli elementi
che li rendono capaci di distinguere gli Ebrei dai membri dell' ingroup.
Essi sembrano imparare ad osservare le caratteristiche facciali e le
espressioni comportamentali in modo tale da riconoscere rapidamente
un minaccioso esponente dell' outgroup. Nel loro esperimento, oltre a
confermare i risultati di Allport e Kramer, gli autori trovarono che i
soggetti antisemiti continuavano a categorizzare più volti come ebrei
anche quando li si metteva in una condizione in cui essi ricevevano
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una punizione nel caso di risposta errata. Essi invocavano la
motivazione che spingeva gli individui con pregiudizi a restare vigili
anche nelle situazioni che possono essere direttamente dannose per
loro. Queste argomentazioni evocano l'influenza di fattori
motivazionali nei fenomeni della percezione e per questo motivo si
inscrivono nella linea del New-Look.
Seguendo questa linea di studi Pulos e Spilka (1961)
condussero un esperimento per verificare la maggior accuratezza nel
giudizio da parte dei soggetti antisemiti. Gli autori ipotizzarono inoltre
che una volta che le persone avessero distinto fra membri dell' ingroup
ed Ebrei esse avrebbero ricordato in modo meno accurato i soggetti
ebrei di quelli non ebrei. Inizialmente la ricerca si svolse su un
campione di 220 studenti dell' università di Denver, tutti maschi, a cui
fu somministrata la Scala dell' Antisemitismo di Levinson e Sanford
(1944). In un secondo momento vennero scelti dal campione i 40
soggetti che avevano ottenuto il massimo punteggio nella scala del
pregiudizio e i 40 soggetti che avevano ottenuto il punteggio minimo.
Il materiale sperimentale era composto da 20 fotografie di ebrei e da
20 fotografie di non ebrei che venivano presentate in tre set ad ogni
soggetto. Il primo set era composto da 10 fotografie di ebrei e da 10
fotografie di non ebrei, il secondo set era composto da 10 nuovi volti
di ebrei e dai volti delle persone ebree impiegate nel primo set, e il
terzo set era composto da 10 nuove fotografie di soggetti non ebrei e
dai 10 volti dei soggetti non ebrei che comparivano nel primo set. L'
ordine di presentazione era per metà dei soggetti di ogni gruppo:
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primo set, secondo set e terzo set; per l' altra metà dei soggetti: primo
set, terzo set e secondo set. Ciascuna fotografia era proiettata per
cinque secondi e il soggetto doveva dire per ogni foto se il volto
raffigurato fosse ebreo o se non lo fosse. Successivamente i soggetti
avevano 4 minuti per dire se le fotografie del secondo e del terzo set
erano state precedentemente incluse nel primo set.
I risultati ottenuti furono i seguenti:
- I soggetti maggiormente antisemti erano più accurati nell'
identificare le fotografie degli Ebrei ( M= 6.1, P< .01) rispetto ai
soggetti con basso grado di pregiudizio ( M= 4.1, P< .019) ed
etichettavano un maggior numero di foto come ebree rispetto ai
soggetti con basso grado di pregiudizio.
- Per quanto riguarda l' accuratezza del ricordo i soggetti che avevano
ottenuto un alto punteggio nella scala del pregiudizio ottenevano una
media di 5.5 nel riconoscimento di fotografie ebree e una media di
4.30 nel riconoscimento di fotografie non ebree.
I soggetti che avevano ottenuto un basso punteggio nella scala
del pregiudizio ottenevano una media di 4.29 nel riconoscimento di
fotografie ebree e una media di 5.54 nel riconoscimento di fotografie
non ebree.
Gli autori si ritrovarono quindi di fronte a quest'ultimo dato
inaspettato: non tutti i soggetti ricordavano in modo migliore il volto
delle persone ebree, anzi, i soggetti con un basso livello di pregiudizio
ricordavano significativamente meglio e con maggior accuratezza le
fotografie dei soggetti non ebrei. Gli autori concludono il loro studio
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attribuendo questi risultati alla diversa sensibilità dei due gruppi (con
alto livello di pregiudizio e con basso livello di pregiudizio) alle
distinzioni ingroup / outgroup.
In contrasto con l' Ipotesi della Vigilanza, Elliot e Wittemberg
(1955) forniscono un'interpretazione alternativa: quella del Response
Bias. Secondo gli autori la maggior capacità dei soggetti antisemiti ad
identificare i volti ebrei è funzione della percentuale di fotografie di
volti ebrei nel materiale sperimentale. In questa ottica non si
tratterebbe dunque di una migliore capacità nel riconoscere a livello
percettivo il materiale sperimentale, ma semplicemente di una forte
tendenza da parte dei soggettti antisemiti a mettere la maggior parte
delle fotografie nella categoria ebrea. Per verificare l'Ipotesi del
Response Bias, Elliot e Wittemberg replicarono lo studio di Allport e
Kramer (1946), apportando alcune importanti modifiche. Il materiale
sperimentale era composto da tre gruppi di 20 fotografie ciascuno e
ogni gruppo conteneva una diversa proporzione di volti ebrei. I volti
di persone ebree erano: nel primo gruppo il 75%, nel secondo gruppo
il 25%, nel terzo gruppo il 50%. In questo modo qualsiasi response
bias si sarebbe rispecchiato in modo diverso nei punteggi di
accuratezza dell'identificazione dei soggetti ebrei nei tre diversi
gruppi.
Per il primo gruppo s' ipotizzava una relazione positiva dato che
i giudizi sugli Ebrei avevano maggiori probabilità di essere corretti.
Per il secondo gruppo era ipotizzata una relazione negativa e per il
terzo gruppo ci si aspettava una relazione vicina allo 0. Se, al
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contrario, si fosse verificata in tutti e tre i gruppi di fotografie una
relazione positiva della stessa misura, si sarebbe confermata la tesi di
Allport e Kramer. Dai risultati si ottenne: una correlazione positiva tra
punteggi antisemiti e accuratezza dell' identificazione nel primo
gruppo, una correlazione negativa nel secondo gruppo, e una
correlazione negativa nel terzo gruppo. Sulla base di questi risultati gli
autori concludono che non vi è nessuna evidenza di una relazione
diretta e positiva tra gli atteggiamenti antisemiti e l' abilità nell'
identificare fotografie di ebrei e di non ebrei.
A sostegno dell' Ipotesi del Response Bias vi sono anche i
risultati della ricerca condotta da Himmelfarb (1966). In un primo
esperimento controllava nuovamente se alti punteggi nel pregiudizio
antisemita correlassero positivamente con l' accuratezza del
riconoscimento dei volti ebrei, questa volta utilizzando anche
fotografie di soggetti femmine. In un secondo esperimento, chiese ai
soggetti di definire la razza di una serie di volti presentati in coppia.
Queste fotografie erano rispettivamente di una persona ebrea e di una
persona non ebrea. I risultati del primo esperimento sostennero l'
ipotesi di una correlazione positiva fra livello del pregiudizio e
accuratezza dell' identificazione. I risultati del secondo esperimento, in
cui si controllavano gli effetti del Response Bias, non rilevarono
alcuna relazione fra antisemitismo e precisione nell' identificazione.
I dati di questi ultimi esperimenti suggeriscono che la relazione
tra antisemitismo e accuratezza dell' identificazione è il risultato di
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una relazione fra atteggiamenti dei soggetti verso gli Ebrei e la loro
tendenza a classificare una fotografia come ebrea.
Il dibattito sulla questione venne abbandonato nella metà degli
anni settanta per essere poi ripreso da Yzerbyt e Leyens nel (1992) in
un contesto teorico diverso, lontano dalle preoccupazioni
antisemitiche.
Yzerbyt e Leyens, partendo dai risultati ottenuti nelle
sopracitate ricerche, integrano l'Ipotesi della Vigilanza con l' Ipotesi
del Response Bias gettando un ponte fra il versante cognitivo e quello
socio - emozionale nelle relazioni intergruppo.
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2 - L' EFFETTO DELLA SOVRAESCLUSIONE DALL'
INGROUP
Per comprendere come le recenti ricerche di Yzerbyt e Leyens
siano arrivate alla formulazione teorica del fenomeno della
Sovraesclusione dall' Ingroup, in un primo tempo farò riferimento ai
processi di inferenza sociale che permisero agli autori di scoprire l'
effetto.
I sostenitori dell' approccio teorico della "Giudicabilità sociale"
evidenziano che sono molte le dimensioni situazionali che influenzano
il giudizio di un individuo, ma la più rilevante è l' informazione di cui
egli dispone per giudicare il bersaglio. Come sappiamo, di fronte alle
innumerevoli informazioni fornite dal mondo circostante, gli individui
non si limitano a utilizzare strategie di organizzazione mnestica
normative e imparziali; ma usano anche euristiche intuitive e
ragionevoli inferenze, che spesso producono sistematici errori di
giudizio (Nisbett e Ross, 1980).
Yzerbyt e Leyens hanno quindi considerato gli studi di diversi
autori sulla formazione delle impressioni, focalizzandosi su due
caratteristiche dell'informazione: la valenza e lo status confermativo.
Esamineremo infine la letteratura che fa riferimento all'
interpretazione motivazionale del fenomeno: la "Teoria dell' Identità
Sociale" di Tajfel.
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2.1 - LA VALENZA DELL' INFORMAZIONE
La Valenza dell' informazione consiste nel valore positivo o
negativo che i soggetti attribuiscono all' informazione stessa. Le
informazioni positive e quelle negative non hanno lo stesso impatto
quando vengono utilizzate per dare giudizi su persone - stimolo.
Sperimentalmente è stato confermato che l' individuo dà uno status del
tutto particolare all' informazione che presenta una valenza negativa,
attribuendole un peso maggiore. A questo effetto della valenza
negativa delle informazioni, Kanause e Hanson (1971), diedero il
nome di "Effetto di Negatività". Esso può essere definito come il
maggior impatto che gli stimoli valutati negativamente hanno rispetto
agli stimoli valutati positivamente di uguale intensità.
Molte spiegazioni cognitive sono state proposte per spiegare l'
impatto differenziale delle informazioni a seconda della valenza che
rivestono: la più antica è quella dell' Inferenza Corrispondente di
Jones e Davis (1965). Secondo questi autori, nel processo di
attribuzione, l' individuo arguisce che il comportamento di una
persona è causato sia da caratteristiche tipiche della situazione, sia da
caratteristiche intrinseche alla persona stessa. Queste inferenze sono
corrispondenti perchè possono condurre alla conclusione che il
comportamento e l' intenzione ad esso soggiacente, corrispondano a
una qualità stabile del soggetto: una disposizione. Quindi, se l'
individuo sfida gli standard accettabili, agisce secondo una
disposizione personale.
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Un' altra spiegazione è quella fornita da Fiske (1980) chiamata
Teoria della Novità. Essa si basa sulle ricerche di Kanouse e Hanson
(1972) che rendono conto dell' effetto di Negatività evocando un
fenomeno di contrasto percettivo figura - sfondo. In questo senso, l'
argomentazione di Fiske è che l' informazione negativa, assimilabile a
quella rara o nuova, è oggetto di una attenzione particolare e di un
miglior trattamento cognitivo nel processo di formazione delle
impressioni.
La terza spiegazione dell' Effetto di Negatività è basata sul
concetto di schema ed è proposta da Reeder et al. (1977, 1979). Essi
affermano che l' individuo procede nelle attribuzioni causali usando
degli schemi che sono costituiti da regole inferite da comportamenti
passati e da disposizioni individuali. Ciò significa che le informazioni
negative hanno un maggior peso informazionale perchè sono più
diagnostiche.
Secondo l' approccio di Peeters (1992) l' Effetto di Negatività
non è una anomalia isolata psicologicamente, ma fa parte dell'
Asimmetria Positivo - Negativo che include anche il Bias di Positività
e ha una importante funzione comportamentale - adattativa. Il Bias di
Positività riflette la tendenza ad accordarsi col mondo procedendo
attraverso ipotesi a priori generate da risultati positivi. Il meccanismo
compensatorio di evitamento di fronte a risultati ritenuti nocivi e
irreversibili è coinvolto invece nell' Effetto di Negatività. Le
valutazioni positive sono soggettivamente ancorate e il fenomeno
relativo del Bias di positività riflette l' ottimismo del soggetto.