con prevalenza tra i quadri e i dirigenti, con età media di 43 anni, in particolare nel settore
pubblico e in quello dei servizi.
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Occorre sottolineare l’enorme importanza che assumono le dinamiche relazionali nel
contesto lavorativo, tra chi eroga la prestazione e chi la gestisce, perché è soprattutto
dalla distorsione della relazione tra le figure coinvolte con ruoli diversi nei processi
lavorativi che possono scaturire situazioni di disagio psichico. Esse però, in un’ottica di
tutela della salute del lavoratore intesa come benessere e non come assenza di patologia,
assumono la dignità di veri e propri fattori di rischio.
Una ipotesi di Harald Ege, suggerita dall’esperienza di lavoro diretto sul campo,“induce a
ritenere … che le diverse forme di persecuzione sul posto di lavoro non siano solo
collegate e correlate tra loro, ma possano essere diversamente rappresentate lungo una
stessa scala , costituita da diversi gradi di intensità.”
Secondo tale ipotesi, l’intensità della persecuzione
- sarebbe maggiore nello Stalking, ed in particolare nello Stalking occupazionale, in
quanto coinvolge sia la vita lavorativa che la vita privata della vittima;
- scenderebbe leggermente nel caso del Mobbing, in cui il conflitto influenza la vita
privata del mobbizzatto soltanto a livello indiretto ( Doppio Mobbing );
- arriverebbe allo Straining, in cui l’assenza di attacchi continuativi mantiene
l’intensità del conflitto ad un livello relativamente basso;
- toccherebbe il punto di minor impatto nello Stress Occupazionale, in quanto
causato anche solo dalla natura particolarmente pesante del lavoro svolto.
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Fig.2 – Modello di escalation del conflitto lavorativo
Fonte: Ege H, Oltre il Mobbing. Straining, Stalking e altre forme di conflittualità sul posto di lavoro FrancoAngeli,
Milano, 2005
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2. I CONFLITTI OCCUPAZIONALI IN ITALIA
Nel nostro Paese la conflittualità sul posto di lavoro è generalmente accettata: ciò unito al
fatto che la conoscenza e gli studi sulle varie forme di conflittualità sul mondo del lavoro
(stress, straining, mobbing, stalking ) sono ancora allo stato embrionale e manca la
sensibilità diffusa da parte dei lavoratori verso queste forme di “psicoterrorismo”, fanno sì
che la vittima italiana tenda a non rendersi conto del mobbing in atto nei propri confronti
quando esso è ancora nella fase iniziale, quella conflittuale, ma solo più tardi, quando tale
fase è superata e si è già entrati in quella dei sintomi psicosomatici.
Sul nostro territorio vi sono poi dei limiti culturali rispetto ad altre nazioni dove la cultura
del lavoro è più sviluppata. In primo luogo esiste un problema all’interno
dell’ordinamento giudiziario: questo infatti procede attraverso l’analisi di casi
categorizzati, escludendo la discrezionalità del giudice. Di conseguenza, se un caso non è
incluso nei codici, questo non esiste fino a quando non vi sarà inserito. In secondo luogo
non si riesce a modificare la cultura del lavoro, passando dalla paura per la punizione alla
responsabilizzazione attiva. Da considerare anche che, in Italia, è ancora particolarmente
attiva la catena seriale di favoritismi personali e di patti taciti la cui contropartita consiste
nel silenzio sulle modalità di conduzione dell’organizzazione. Infine manca una cultura
della fine del rapporto di lavoro: le ristrettezze legislative impediscono che si possa
licenziare con facilità, ma ancor meno si concepisce di offrire al lavoratore un’opportunità
dopo l’uscita dal mondo del lavoro.
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Il termine mobbing, entrato in questi ultimi anni nel linguaggio comune, “è divenuto
oramai un buon concetto contenitore, idoneo a ricomprendere in sé riassuntivamente, ma
efficacemente, una serie di fenomeni studiati singolarmente come espressione di lesione
del lavoratore”.
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Ma il mobbing è solo una delle diverse forme che la persecuzione sul luogo di lavoro può
assumere a livello organizzativo. Harald Ege, insieme ai suoi collaboratori, ha costituito a
Bologna nel 1996 “PRIMA”, Associazione Italiana contro Mobbing e Stress Psicosociale.
Sottoponendo regolarmente a tutte le autodichiarate vittime di Mobbing che si rivolgevano
a PRIMA per assistenza e supporto una versione modificata del famoso questionario di
Mobbing LIPT ( Metodo Ege 2002 ) e provvedendo poi ad una successiva analisi del
campione raccolto (circa 3000 questionari) con il metodo dei sette parametri per
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l’accertamento del mobbing arrivarono a dei risultati, presentati nell’estate del 2005,
piuttosto sorprendenti.
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Solo il 20% di tutti i casi di presunto mobbing potevano oggettivamente dirsi tali secondo i
sette parametri di riconoscimento. Il 13% erano casi ascrivibili ad una qualche forma di
Stress Occupazionale, ossia a situazioni generalizzate di cattivo clima organizzativo, prive
di contenuti discriminatori. Un 6% dei soggetti avevano problemi personali di tipo
psichico, soprattutto paranoia e depressione organica, che emergevano chiaramente dalla
valutazione diretta e dalle diagnosi mediche presentate. Una piccola parte, 1% del totale,
corrispondeva a casi di conflittualità molto elevata, nata in ambito lavorativo e sconfinata
poi nella vita privata della vittima ( Stalking ).
Il dato più significativo è che nella stragrande maggioranza ( 60% ) si trattava di situazioni
lavorative senz’altro disagevoli, conflittuali e lesive della dignità e della salute del
lavoratore, ma tuttavia prive di quella sistematicità e regolarità di attacchi attivi propria del
mobbing. Questi tipo di situazioni è stata definita con il termine di “Straining” ed ha
evidenziato che ci sono conflitti e persecuzioni sul posto di lavoro che creano enormi danni
alle vittime e alle organizzazioni, ma non sono definibili mobbing.
Fig. 3 - La distribuzione dei conflitti occupazionali in Italia secondo i primi dati di PRIMA (2005).
Fonte: Ege H, Oltre il Mobbing. Straining, Stalking e altre forme di conflittualità sul posto di lavoro FrancoAngeli,
Milano, 2005
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3. STRESS OCCUPAZIONALE
Il concetto di stress fa parte della letteratura medica da poco più di cinquanta anni: il
termine inglese è mutuato dall’ingegneria industriale e indica lo sforzo a cui è sottoposto
un materiale.
Hans Seley, padre del termine stress, nel 1975 lo definì: “Sindrome generale di
adattamento ( SGA ), ovvero una risposta aspecifica a qualsiasi richiesta proveniente
dall’ambiente”. Negli organismi viventi rappresenta l’insieme delle reazioni adattative ad
eventi potenzialmente dannosi, a situazioni difficili o a compiti da portare a termine. È
ormai nozione comune che, in condizioni particolari, la reazione da stress si può
trasformare da risposta adattativa, in importante cofattore patogenetico in numerose
patologie, sia somatiche che psichiche.
Secondo una definizione fornita dal National Institute for Occupational Safety and Health
( NIOSH ) “lo stress dovuto al lavoro può essere definito come un insieme di reazioni
fisiche ed emotive dannose che si manifesta quando le richieste poste dal lavoro non sono
commisurate alle capacità , risorse o esigenze del lavoratore. Lo stress connesso al lavoro
può influire negativamente sulle condizioni di salute e provocare persino infortuni”
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Lo stress legato all'attività lavorativa, i fattori che lo determinano e le conseguenze che ne
derivano sono realtà alquanto diffuse in tutti gli Stati membri dell'Unione europea.
Dagli studi condotti dalla Commissione Europea nel 1999 risulta che oltre la metà dei 147
milioni di lavoratori europei riferisce di lavorare a ritmi molto serrati e di dover rispettare
scadenze pressanti. Più di un terzo di essi non è in grado di influire sulle mansioni
assegnate e più di un quarto non ha la possibilità di determinare il proprio ritmo di lavoro.
Il 45 per cento riferisce di svolgere lavori monotoni; il 44 per cento non può usufruire della
rotazione delle mansioni; il 50 per cento è addetto a compiti ripetitivi. È probabile che
questi “fattori di stress” contribuiscano a determinare l'attuale quadro di sintomi patologici
accusati dai lavoratori: il 13 per cento di essi riferisce di soffrire di cefalea, il 17 per cento
di dolori muscolari, il 20 per cento di affaticamento, il 28 per cento di “stress” e il 30
per cento di rachialgia; vengono accusate inoltre numerose altre patologie, alcune
delle quali hanno esiti potenzialmente fatali.
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Nell’ottobre 2004 le quattro maggiori organizzazioni europee rappresentative delle parti
sociali ( ETUC, UNICE, UEAPME e il CEEP ) hanno sottoscritto un accordo quadro (cfr.
All. 1 ) sul valore dello stress lavorativo e sulle politiche da adottare per prevenirlo.
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Nell’art. 3 hanno adottato questa definizione di stress: “Lo stress è una
condizione,accompagnata da sofferenze o disfunzioni fisiche, psichiche, psicologiche o
sociali, che scaturisce dalla sensazione individuale di non essere in grado di rispondere
alle richieste o di non essere all’altezza delle aspettative”.
L’individuo può ben adattarsi ad affrontare un’esposizione alla pressione a breve termine,
cosa che può anche essere considerata positiva, ma ha una maggiore difficoltà a
sostenere un’esposizione prolungata a una intensa pressione.
Secondo due ricercatori tedeschi Janke e Wolffgramm lo stress è “un evento psicosomatico
che si differenzia con la sua potenza e/o durata da una certa situazione normale
intraindividuale ( detta omeostasi o stato di equilibrio ) e viene scatenato da certe
sollecitazioni esterne ed interne (stressors)”.
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Semplificando si può dire che tutto parte da uno o più stimoli, interni o esterni, che vanno a
turbare il nostro equilibrio psicologico.
La nostra mente reagisce cercando di ripristinare l’equilibrio e in questo segue alcuni passi
successivi. Innanzitutto cerca di identificare quanto più correttamente e compiutamente lo
stimolo in un processo che viene detto “valutazione primaria”. Solo se al termine di questo
processo lo stimolo è percepito come una minaccia, una perdita o una sfida siamo di fronte
ad una situazione di stress.
A questo punto inizia il processo di “valutazione secondaria” in cui la nostra mente passa
in rassegna tutte le possibili soluzioni al problema e sceglie la strategia che reputa più
appropriata ed efficace. Questo processo viene detto “coping”. Il termine “coping” è nato
negli anni '40 negli Stati Uniti e si riferisce ai meccanismi e ai processi mentali messi in
atto dall'individuo come risposta adattativa per ridurre lo stress derivato da una situazione
minacciosa. (Lazarus e Opton, 1966). Non esiste un unico tipo di coping, ma ogni
persona adotta una sua tecnica per confrontarsi rispetto allo stress: le risposte sono
individuali e legate alla personalità ed all’esperienza complessiva del singolo soggetto.
Secondo Lazarus
esistono due tipi di strategie di coping:
- quelle legate all’emotività ( prendere le distanze dal problema, ignorarlo,
deviare l’attenzione su qualcos’altro, mentire, etc.)
- quelle invece più direttamente legate al problema, che mirano cioè al
cambiamento attivo della situazione.
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