Introduzione
Un vero viaggio di scoperta
non è cercare nuove terre ma
avere nuovi occhi.
M. Proust
Il presente lavoro di ricerca si propone di affrontare una tematica
notevolmente complessa quale è la relazione sanitaria in pediatria, con una
particolare attenzione posta sul processo della decisionalità.
In ogni relazione medica è necessario prendere delle decisioni sia dal punto
di vista diagnostico sia dal punto di vista terapeutico. Ci siamo dunque interrogati
sul modo in cui tali scelte siano effettuate, su quanto esse possano considerarsi più o
meno condivise dai membri coinvolti, sui numerosi significati che le attraversano.
È fondamentale partire dal presupposto secondo il quale una relazione
pediatrica non può essere totalmente equiparata ad un qualunque rapporto medico-
paziente. Essa vede interessate in maniera diretta, infatti, ben tre persone ossia il
pediatra, il bambino e il suo accompagnatore (il quale si rivela essere, nella
stragrande maggioranza dei casi, la madre o chiunque possa farne le veci). Attratti
dalla laboriosità, dal fascino e soprattutto dall’attualità di tale argomento abbiamo
intrapreso il seguente lavoro riflettendo anche sulla triangolazione di tale legame,
desiderosi di esplorarne il senso ed i significati veicolati.
In un’epoca nel corso della quale l’attenzione alla qualità dei servizi sanitari
offerti sta andando incontro ad un forte incremento, ci siamo posti una serie di
questioni da voler chiarire, narrare, raccontare e sulle quali poter riflettere
proseguendo sulla scia dei numerosi studi che si stanno svolgendo rispetto a tali
argomentazioni.
Prima di addentrarci nel vivo del nostro discorso è sembrato opportuno
soffermarci, nello specifico, sul processo della decisionalità. Che cosa significa
decidere? Quali sono le molteplici sfaccettature che compongono tale fenomeno?
Quali sono le potenziali modalità di cui l’individuo si serve per effettuare una
scelta?
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Il desiderio ed il bisogno di pensare le questioni appena espresse ci hanno
condotti inevitabilmente all’interno della prospettiva cognitivista, uno dei più
importanti filoni della psicologia contemporanea che, di fatto, si è enormemente
occupato di decisionalità. Al riguardo, siamo dunque partiti dal ripercorrere i
preziosi contributi di Tversky & Kahneman (1981), Rumiati (2000), Thunholm
(2008) concernenti gli aspetti strategici, le euristiche e gli stili che l’individuo
utilizza nel tentativo di fronteggiare un processo decisionale. Abbiamo poi
proseguito con il prendere in considerazione lo studio delle più salienti teorie che
sono state sviluppate sull’argomento rifacendoci alle ricerche di V on Neumann &
Morgenstern sulla teoria dell’utilità attesa (1947), a Simon e al suo modello della
bounded rationality (1982), alle analisi di Ajzen & Fishbein sulla teoria dell’azione
ragionata (1980), alla teoria dell’azione situata (Suchman, 1987).
Si tratta di una serie di approcci maturati nell’ambito della psicologia
cognitivista i quali sostengono che, affinché l’essere umano arrivi ad una scelta e
prenda una decisione, sia auspicabile l’assunzione di una linea di comportamento
rigorosamente logica e razionale. Ogni singolo aspetto, quindi, dovrebbe essere
pianificato ed organizzato nei minimi particolari ed ogni possibilità valutata
dettagliatamente in previsione dell’obiettivo che si intende raggiungere.
Alla luce di tali considerazioni, ci siamo dunque domandati quale possa
essere il ruolo occupato dall’aspetto emozionale ed inconscio all’interno di un
processo di decision-making.
All’interno di un paradigma socio costruttivista e a partire da una prospettiva
semiotica e processuale della mente che facciamo nostra, abbiamo provato a
riflettere su un nuovo punto di vista che è stato sviluppato rispetto alla concezione
di inconscio da autori e studiosi della psicoanalisi come Fornari (1975, 1976), Matte
Blanco (1975), Freda (2008), Carli (2007), Salvatore (2007) e Carli & Paniccia
(2002, 2003, 2005). Esso supera la tradizionale idea di inconscio da considerarsi
prettamente in quanto puro contenitore di processi psichici rimossi, abbracciandone
piuttosto una concezione strutturale che lo vede come una specifica modalità di
categorizzazione della realtà, funzionante secondo una logica differente rispetto a
quella ordinaria ed asimmetrica del pensiero scientifico (basata sui principi
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aristotelici). È una logica simmetrica che presiede anche al pensiero emozionale,
fondata sui principi di generalizzazione, sull’assenza di regole spaziali e temporali e
che si ricollega ad una concezione bi-modale del funzionamento della mente.
Con Freda (2008) abbiamo ipotizzato che dall’intersecarsi di questi due
differenti ma compresenti livelli di costruzione della realtà emerga una terza area
della semiosi che “si pone in uno spazio intermedio tra la continuità pretesa del
modo di funzionamento inconscio della mente, per il quale il tempo non esiste e ieri
è identico ad oggi, e la discontinuità richiesta dal rapporto con la realtà
continuamente variabile e scandito da rapporti temporali di tipo cronologico”
(Freda, 2008, pp. 81-82).
Ipotizzando che qualunque manifestazione psichica e simbolica della nostra
esistenza sia espressione di tale tridimensionalità, abbiamo provato a declinare in
chiave semiotica il processo di decision-making come scaturente dall’intreccio tra:
modi di funzionamento operativi della mente che presiedono al rigoroso calcolo di
ogni aspetto delle decisioni umane, che ne consentono un’analisi razionale, logica e
il più possibile obiettiva; modi di funzionamento emozionali che presiedono alla sua
simbolizzazione affettiva ed inconscia e modi di funzionamento analogici i quali
rimandano ad impliciti processi semiotici che definiscono la cornice di senso in cui
si sostanzia l’intero processo decisionale.
Nella seconda parte di tale lavoro, incentrata sul processo della decisionalità
all’interno della relazione medico-paziente, il nostro percorso teorico è proseguito
con l’esplorazione dei modelli etici susseguitisi nel corso del tempo e che hanno
presieduto alla storia del rapporto sanitario.
Il modello paternalistico ha dominato il contesto medico a partire dal
giuramento di Ippocrate nel IV secolo a.C. circa. Esso prevede che sia solo ed
esclusivamente il professionista della salute a prendere decisioni, ad effettuare
scelte e ad esercitare un pieno controllo sulla health care del proprio assistito.
Quest’ultimo, totalmente in balia del potere medico, è relegato ad una posizione di
completa passività che non lo vuole soggetto della cura bensì oggetto della stessa.
Con i contributi di Furnari (2005) e Macchiarelli et al. (2002) siamo poi
passati all’analisi del modello etico contrattuale, o modello informato, che ha preso
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il posto di quello paternalistico quando le concezioni teoriche su cui quest’ultimo si
basa, a partire dagli anni ’70 del 1900, si sono rivelate artificiose data la crescente
rivendicazione del diritto all’autonomia decisionale da parte dei pazienti. Il modello
informato stabilisce che il malato debba necessariamente firmare un documento, il
cosiddetto consenso informato, prima che qualunque trattamento terapeutico possa
avere inizio.
Prima di allora nessuno poteva interferire con le decisioni del medico
riguardanti le condizioni di salute dell’assistito. Con l’avvento del modello
contrattualistico si è stabilito che il paziente deve essere informato delle scelte
sanitarie effettuate, delle strategie terapeutiche intraprese dato il loro riverbero sulla
sua stessa vita (Carli & Paniccia, 2002). Il ruolo del medico, in questo caso, consiste
principalmente nel fornire al paziente le indicazioni tecnico-scientifiche utili per
informarlo, appunto, di tutte le opzioni di cura esistenti ma lasciandolo
fondamentalmente solo nel compiere le proprie scelte.
Rifacendoci ad un orientamento medico centrato sul paziente (Moja &
Vegni, 2000), vale a dire ad un modello che recupera la soggettività del malato in
quanto persona, i suoi vissuti, la sua complessità ed interezza, non focalizzandosi
solo ed esclusivamente sull’organo leso, ci siamo interrogati sulla possibilità
secondo la quale l’approccio patient centered possa essere ancor più sorretto e
rafforzato dall’adozione di uno Shared Decision Making Model. Stiamo parlando di
un modello della decisionalità condivisa che è fondato sulla collaborazione,
condivisione e sulla creazione di alleanze di lavoro, il quale non si ancora ad una
decisionalità individuale ma piuttosto presuppone la costruzione di una relazione tra
i membri coinvolti.
Trasferendo tali contributi teorici all’interno della relazione sanitaria in
pediatria ci siamo trovati dinanzi ad una serie di questioni e di discorsi ancor più
ampi e compositi. Come ben sappiamo parlare di un rapporto pediatrico ci conduce
ad una triangolazione che vede coinvolti pediatra, madre (o chi per lei) e bambino.
Ciascuno è portatore di una propria storia, di proprie conoscenze e di preziosi
contributi che possono essere forniti alla relazione. Inevitabilmente il contesto
decisionale si complessifica ulteriormente e sono emersi una serie di dubbi, di
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interrogativi rispetto a quali fossero i ruoli e le funzioni di ogni membro ma
soprattutto fino a che punto fosse possibile coinvolgere un bambino nelle decisioni
da prendere all’interno della propria visita medica.
Il percorso teorico intrapreso ci ha permesso di formulare alcune
considerazioni per ciò che concerne i benefici pratici e concreti che possono essere
tratti dall’applicazione di un modello della decisionalità condivisa. Abbiamo dunque
riflettuto su potenziali implicazioni psicologiche e sanitarie che possano derivare da
tale approccio e abbiamo colto una serie di indizi che ci hanno consentito di
ipotizzare un miglioramento della qualità della cura a seguito della realizzazione di
una relazione cooperativa e partecipata entro il contesto pediatrico.
Esso si compone, infatti, della presenza di tre diversi interlocutori, ognuno a
proprio modo indispensabile e depositario di un bagaglio di esperienze, di
narrazioni, di saperi.
La nostra attenzione si è soffermata, in un primo momento, sulla figura del
Pediatra di Famiglia, professionista sanitario il cui compito non è solo quello di
occuparsi della crescita del bambino, ma anche quello di sostenerlo da un punto di
vista psicologico, sociale, culturale rassicurandolo, ascoltandolo e consultandolo
nelle sue opinioni ed idee. Crediamo si tratti di una figura la cui rilevanza è
fondamentale nella vita del bambino e in quella dei suoi stessi genitori: madre e
bambino viaggiano insieme, l’uno rappresenta un riferimento essenziale per l’altro e
viceversa ed è per tale motivo che, occupandosi del piccolo, il Pediatra di Base non
può assolutamente trascurare di curarsi anche dell’altro. L’apporto conoscitivo e, se
vogliamo, decisionale che il medico può offrire alla relazione non ha dunque solo a
che fare con la mole di competenze scientifiche riguardanti la malattia e le vie di
guarigione che possono essere intraprese, ma ha a che fare anche con atteggiamenti
di comprensione, accoglienza e contenimento del paziente.
Con Galdo et al. (1977), infatti, abbiamo constatato l’intensità delle
preoccupazioni, delle ansie che un bambino e, in particolar modo, una madre recano
con sé nella stanza del dottore sollecitando spesso nel medico comportamenti
difensivi basati sulla fretta, sulla ripetitività e sull’insofferenza. Il vissuto di
impotenza e il profondo bisogno materno di individuare il responsabile, il colpevole
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della malattia del bambino ci hanno fatto riflettere, inoltre, sulla rilevante funzione
rassicuratoria esercitata dalla Pediatria di Base. Tale servizio consente al paziente di
rimanere nell’ambito della medicina generale, all’interno di dinamiche familistiche
che fanno capo a problematiche di salute perlopiù comuni, diffuse e quindi
facilmente risolvibili come febbre, tosse, influenza, mal di stomaco e che si
differenziano da ciò che appare non noto, più raro, incomprensibile nella sua
eziologia e pertanto temuto, rappresentato da tutte quelle patologie che travalicano i
confini della Pediatria di Base, mettendone in scacco il contesto.
Abbiamo poi riflettuto sui contributi che possono essere forniti dal genitore,
in quanto esperto della relazione con il bambino, all’interno del processo
decisionale e che hanno a che fare con tutto quanto possa riguardare il piccolo
paziente ma che questi non è in grado di comunicare personalmente data la sua
giovane età ed inesperienza: l’anamnesi, informazioni cliniche concernenti la
patologia, medicinali già eventualmente somministrati nel tentativo di sopperire la
malattia nel suo nascere.
Le nostre riflessioni sono poi avanzate ponendo una particolare attenzione
alla posizione occupata dal bambino all’interno di tale configurazione triangolare
gettando un peculiare sguardo all’aspetto della decisionalità. Più volte, quasi
scetticamente in un momento iniziale, ci siamo posti una serie di domande: fino a
che punto e in che misura il bambino può partecipare attivamente alla visita
pediatrica? Qual è il grado in cui egli può essere coinvolto all’interno del processo
di decision-making in riferimento, nello specifico, alla scelta del trattamento
terapeutico da seguire? E quali contributi egli può offrire alla relazione?
Alla luce del percorso affrontato nelle precedenti pagine e rifacendoci ad un
modello di medicina patient centered, in che modo può essere costruito un rapporto
pediatra-madre-bambino basato sulla decisionalità condivisa?
Nel tentativo di rispondere a tali interrogativi e di chiarire i dubbi sorti
abbiamo analizzato ed esplorato i molteplici e complessi significati emersi dal
materiale di ricerca a nostra disposizione; abbiamo inoltre pensato alle numerose
opportunità a cui può andare incontro il piccolo paziente per quanto concerne
l’autonomizzazione e la maturazione di responsabilità rispetto al proprio benessere
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psicofisico e a quanto tali obiettivi possano essere perseguiti attraverso un
coinvolgimento sempre più massiccio del bambino nelle decisioni da prendere e
nelle scelte da effettuare rispetto al proprio stato di salute. Abbiamo tentato, inoltre,
di chiarire le questioni relative a come si possa attuare concretamente uno Shared
Decision Making Model rifacendoci ai criteri proposti al riguardo da Elwyn et al.
(2003, 2005), Fontanesi, Goss & Rimondini (2007) e confluiti all’interno
dell’innovativo strumento Observing Patient Involvement (OPTION) (Elwyn et al.,
2005) da essi ideato e poi rivisitato in lingua italiana.
Entro la concezione semiotica e socio-costruttivista della mente che stiamo
sostenendo, abbiamo provato a fornire una nuova chiave di lettura della relazione
pediatrica attraverso uno specifico riferimento alla teoria della tecnica che sta alla
base dell’analisi della domanda e al modello di collusione di Renzo Carli (2002,
2003, 2005, 2007), termine con cui intendiamo un processo di socializzazione delle
emozioni che deriva da una comune condivisione emozionale di situazioni
contestuali. Si tratta di un veicolo emozionale che organizza la costruzione dei
rapporti sociali e chi collude condivide dal punto di vista emozionale le medesime
simbolizzazioni affettive all’interno di un contesto comunemente partecipato (Carli
& Paniccia, 2003).
A partire da tali prospettive epistemologiche abbiamo pensato al rapporto
medico-paziente come attraversato da quattro diverse dimensioni semiotiche le
quali rimandano ad un’importante riflessione rispetto agli obiettivi che i membri
della relazione intendono raggiungere. È apparso evidente che, al fine di
promuovere una visita pediatrica centrata sul paziente e fondata su legami di
collaborazione partecipata e condivisa, è necessario istituire un rapporto di scambio
e di comunicazione, piuttosto che di controllo, il quale consenta di giungere alla
reciproca conoscenza, partendo dal presupposto che ogni paziente è da considerarsi
unico e distinto dall’altro.
La terza fase del nostro lavoro è incentrata su un’esperienza di ricerca che è
stata svolta presso due ambulatori di Pediatria di Base e che ha coinvolto sei
Pediatri di Famiglia e 40 coppie genitore-bambino. Un aspetto rivelatosi
enormemente prezioso per la nostra indagine esplorativa ha avuto a che fare con il
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connubio realizzato tra metodologia quantitativa e metodologia qualitativa. Un
movimento dialogico tra differenti saperi e diversi dispositivi rivelatosi essenziale
per la comprensione e l’esplorazione dei processi notevolmente complessi che
sostanziano la relazione sanitaria in pediatria.
Il nostro principale obiettivo è stato quello di esplorare l’humus della
relazione pediatra-madre-bambino dal punto di vista della decisionalità e tentare di
comprendere i significati connessi ad un’interazione clinica basata su processi di
condivisione, riferiti ad una medicina centrata sul paziente e improntata su un
modello Shared Decision Making.
A partire dal modello socio-costruttivista che si rifà ad una concezione
categoriale e semiotica della mente in quanto processo di organizzazione e
costruzione di senso e significato, abbiamo inoltre provato ad esplorare il processo
della decisionalità entro la relazione pediatrica come attraversato da tre differenti
tipi di livelli semiotici compresenti, operativo-culturale-affettivo, principi fondanti
dell’esperienza individuale in grado di indirizzare il soggetto nel raggiungimento
dei suoi scopi (Freda, 2008).
A tal fine abbiamo adoperato lo strumento Observing Patient Involvement
(OPTION) (Elwyn et al., 2005) che ha reso possibile analizzare la dimensione
operativa del processo decisionale all’interno dell’interazione pediatrica, i
significati coscienti, logici e razionali veicolati dalle verbalizzazioni, dai linguaggi e
dalle parole dei membri coinvolti indirizzate, nel particolare, alla scelta del
trattamento terapeutico da portare avanti; attraverso l’osservazione di stampo
psicoanalitico (Nunziante Cesàro, 2003) abbiamo provato a cogliere la dinamica
emozionale sottostante e che organizza il contesto decisionale in cui si delinea il
rapporto sanitario in atto, mentre con il resoconto (Carli, 2007) abbiamo perseguito
un’elaborazione categoriale delle emozioni vissute entro tale relazione.
Per chi scrive è stato un lavoro di tesi affascinante, estremamente
coinvolgente e, in alcuni suoi aspetti, anche piuttosto insidioso data la complessità
delle argomentazioni trattate e delle questioni emerse che proveremo a narrare e a
raccontare.
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