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Introduzione
Antigone doveva essere per la mia tesi una
sorta di chiave d’accesso per entrare nel
complesso e misterioso rapporto tra fratello
e sorella nella visione psicoanalitica. Ma
tutto, o quasi, è andato diversamente perché
lei, pur in punta di piedi, com’è nella
delicatezza del suo stile, è riuscita ad
occupare la scena in modo dirompente,
tanto che ho dovuto decidere di smettere di
leggere e cercare ed entrare nelle fitte trame
di studi, riflessioni, nuove storie,
rappresentazioni teatrali, e anche opere
liriche che grandi compositori come Karl Orff hanno scritto per lei.
Antigone ha avuto nella storia la forza generatrice della “grande madre”.
L’ho incontrata dapprima nella tragedia di Sofocle, eroina fiera e coraggiosa, e l’ho
ammirata per la coerenza con i principi profondi che la animavano rendendola ancora
così viva dopo duemilacinquecento anni. La immagino dritta, testa alta di fronte a
Creonte, non sprezzante ma determinata, energia femminile che si confronta e tiene
testa ad energia maschile dove non è così immediatamente evidente chi avrà la
meglio. Creonte vuole sopraffarla ed apparentemente ci riesce usando il potere della
Legge degli uomini. Ma a ben guardare è Antigone a vincere: lei non si piega alla
Legge degli uomini perché in lei c’è forte il senso del divino, e forse il senso di una
Legge che trascende il divino stesso.
Ho sentito il bisogno di rileggere la sua storia dall’inizio, un inizio in cui Antigone
nemmeno compare, ma c’è già, c’è la sua presenza assente, c’è la sua essenza di
figlia, di eroina, di santa, di sorella, una storia riassunta nelle sue parti essenziali
all’inizio di questo lavoro.
L’«Edipo Re» l’avevo letto per conoscere l’origine di quella che Fausta Ferraro,
ripetendo le parole di Freud, più volte aveva definito a lezione “la scoperta
antropologica fondamentale” dopo la teoria copernicana che toglie all’uomo il posto
Antigone (Frederic Leighton, 1830-1896)
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al centro dell’universo e l’evoluzione della specie di Darwin secondo cui l’uomo
deriva dalla scimmia: il Complesso di Edipo. La lettura dell’«Antigone» di Sofocle
mi ha fatto guardare l’«Edipo Re» con occhi diversi, anche il cuore ha cercato
emozioni nascoste, sfumature che in una prima lettura non aveva colto.
Antigone nasce con Edipo, la sua storia è già inscritta nella storia e nel destino del
padre. È figlia e sorella di suo padre, due dimensioni che si intrecciano in una. Ma è
prima figlia, bastone del pellegrinaggio del padre, occhi di quel padre ormai cieco,
sostegno di un uomo distrutto dalle sue stesse azioni.
L’anima sororale di Antigone si svela nell’epilogo dell’epopea.
Antigone figlia, Antigone sorella.
Il mio lavoro comincia con le riflessioni di Hegel che forse prima di altri hanno così
approfondito i significati profondi che si intrecciano nell’«Antigone» di Sofocle.
Sembra che Antigone riesca a racchiudere in sé molti degli elementi fondamentali
del pensiero hegeliano: il conflitto tra autocoscienze e l’importanza della dialettica
servo-padrone emergono sin dalle prime pagine della tragedia sofoclea; il confronto
tra leggi umane e leggi divine apre uno spazio di riflessione sul dilemma che l’uomo
si trova a vivere in particolari circostanze, quando la vita sembra mettere alla prova
la fiducia nei valori in cui ha creduto fino a quel momento. E, ancora, il dibattito tra
moralità ed etica, questo separare il comportamento soggettivo intenzionale
dell’individuo dai valori universali che nel comportamento devono trovare
espressione. Infine la relazione tra fratello e sorella, una relazione analizzata forse in
maniera eccessivamente idealizzata: per Hegel la relazione adelfica è assolutamente
pura, ed Antigone gli offre la più alta espressione di amore sororale così estremo da
condurla alla morte.
Le riflessioni psicoanalitiche che a questo pensiero così sublime di amore sororale ho
fatto seguire le ho sentite necessarie, mi sembrava di chiudere gli occhi su una realtà
troppo viva e presente dentro me da poterla trascurare. Sono una sorella e so bene
che l’amore tra una sorella e un fratello non è solo sublime: c’è l’umanità dell’amore
terreno, la violenza delle pulsioni libidiche, la forza dell’appartenenza ad un sistema
familiare che per quanto sereno, può avere trame complicate. Non è un caso che
Antigone sia capitata nella mia vita e nella mia tesi: Antigone spezza la catena del
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destino di tutta la sua famiglia, ristabilisce un ordine, rimette ognuno al proprio
posto, e lei stessa trova realizzazione nello scopo per cui «sa» di essere nata.
Volendo continuare nella rilettura di questo mito così coinvolgente, ho lavorato sulle
riflessioni di un altro importante filosofo: Søren Kierkegaard. Kierkegaard scrive le
sue opere firmandole con degli pseudonimi, quasi un’espressione delle tanti parti del
suo Sé, ma con Antigone va oltre, reinventa la storia, si identifica con lei per dar
voce ai propri vissuti più intimi che coinvolgono il segreto, la rinuncia all’amore
erotico, la fedeltà ad un padre dai comportamenti discutibili, ma pur sempre suo
padre. La scelta di un mito femminile ha per lui un senso profondo, perché solo una
donna può custodire un segreto con così tanta sacralità. Non ci sono dialoghi
nell’Antigone di Kierkegaard, c’è un racconto, una conferenza presentata davanti a
dei morti viventi, a degli uomini che vedono la morte come la meta più alta da
raggiungere. Antigone è una morente tra dei vivi morenti, e ogni cosa nello scritto di
Kierkegaard parla di morte.
E così ho sentito forte il bisogno di riportarla in vita con lo splendido scritto di
Maria Zambrano: “La tumba de Antigona”. È un’appendice all’ “Antigone” di
Sofocle, una sorta di purgatorio che Maria Zambrano concede ad Antigone. Antigone
non muore ancora nella sua tomba per vivi, e in questo tempo supplementare la
filosofa spagnola le dà finalmente voce, una voce che troppo spesso Antigone ha
dovuto reprimere dentro di sé.
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La storia
Laio, figlio di Labdaco, sposò Giocasta e
governò sulla città su Tebe. Per molti anni
l’unione non generò figli. Laio preoccupato
consultò segretamente l'oracolo di Delfi, che
gli rivelò come quella apparente sfortuna
fosse in realtà una grazia degli dei: suo figlio
avrebbe ucciso il padre e sposato la propria
madre. Laio spaventato ed inorridito ripudiò
Giocasta, ma non le disse il motivo e la regina
risentita lo ubriacò e lo attirò fra le sue
braccia al calar della notte. Dopo nove mesi,
Giocasta diede alla luce un figlio, ma Laio lo
sottrasse alla nutrice, gli bucò i piedi con un
chiodo legandoli assieme (da cui il nome
Edipo: oidipous: uomo dai piedi gonfi) e lo affidò ad un pastore perché lo uccidesse.
Ma l’uomo non ebbe cuore di farlo e lo affidò ad un pastore corinzio sul Monte
Citerone. Il bambino fu chiamato Edipo e portato da Polibo re di Corinto che, non
potendo avere figli, accolse insieme a sua moglie Peribea, molto volentieri il piccolo
sconosciuto. Secondo un'altra versione Laio rinchiuse Edipo in una cassa e la gettò in
mare. La cassa continuò a galleggiare nel mare fino a toccare la riva della città di
Sicione. La moglie di Polibo, Peribea, era sulla spiaggia con le lavandaie della reggia
e trovando Edipo ebbe l’idea di fingersi in preda alle doglie del parto. Si nascose in
un boschetto e fece credere alle lavandaie di aver partorito il bambino ritrovato. Ma a
Polibo raccontò la verità sapendo che il re sarebbe stato lieto di quell’imprevisto
evento. Edipo crebbe convinto di essere il figlio del re di Corinto, finché una sera,
durante una cena, un commensale ubriaco lo chiamò “bastardo”. Quella parola
risuonò sinistra nel cuore di Edipo che in segreto si recò dall’oracolo di Delfi. La
Pizia lo mandò via con disgusto dal santuario perché gli profetizzò che avrebbe
ucciso suo padre e sposato sua madre. Edipo inorridito all’idea di un futuro così
Emil Teschemndorff (1823-?)
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nefasto, decise di lasciare Corinto. Nello stretto valico tra Delfi e Daulide incontrò
Laio che con modi bruschi gli ordinò di lasciare il passo a dei suoi superiori. Laio era
su un cocchio ed Edipo a piedi. Edipo, superbo, gli rispose che suoi superiori erano
solo gli dei e i suoi genitori. I cavalli continuarono ad avanzare e una delle ruote
schiacciò il piede di Edipo che in un accesso d’ira, uccise Polifonte, il cocchiere, con
la sua lancia. Laio rimase impigliato nelle redini perché Edipo l'aveva scagliato a
terra e continuando a frustare i cavalli lo trascinò nella polvere fino alla morte. Laio
viaggiava verso Delfi per chiedere all'oracolo come liberare Tebe dalla Sfinge. La
mostruosa creatura, era figlia di Tifone e di Echidna, volata a Tebe dalle più remote
parti dell'Etiopia; aveva testa di donna, corpo di leone, coda di serpente e ali di
aquila. Era stata mandata da Era irata contro Laio perché aveva rapito il fanciullo
Crisippo di Pisa. La Sfinge era accovacciata sul monte di Ficio e sottoponeva allo
stesso indovinello ogni viaggiatore tebano:
”Che cos’è: al mattino va su quattro gambe, a mezzogiorno su due e la sera su tre?”
e chi non riusciva a risolvere l'indovinello veniva strangolato e divorato sul posto.
Edipo indovinò la risposta: "l'uomo", perché da bambino va carponi, in gioventù
cammina sulle due gambe e si appoggia ad un bastone in vecchiaia. La Sfinge
mortificata si uccise buttandosi dal monte nella vallata sottostante. I Tebani,
finalmente liberati, acclamarono Edipo re di Tebe. Egli sposò Giocasta, ignaro che
fosse la sua vera madre e con lei generò quattro figli: Polinice, Eteocle, Antigone ed
Ismene. Dopo molti anni, una terribile pestilenza si abbatté su Tebe. Edipo mandò a
chiamare l’indovino Tiresia per capire come liberare Tebe da quell’orribile
maledizione. Il responso fu chiaro: bisognava rendere giustizia a Laio e trovare e
punire il suo assassino. Edipo, completamente inconsapevole di essere proprio lui
l’uomo da condannare, decretò l’esilio per l’assassino di Laio. Ben presto Tiresia
chiese di nuovo udienza ad Edipo e a Giocasta che Edipo era figlio di Laio morto
per sua stessa mano proprio come l’oracolo gli aveva predetto. Il grande veggente
non fu creduto da nessuno ma la sua profezia si avverò ben presto. Re Polibo morì
improvvisamente e la regina Peribea scelse di rivelare in quali circostanze aveva
adottato Edipo. Giocasta lacerata dalla vergogna, si impiccò mentre Edipo si dilaniò
gli occhi con un spillo tolto dalle vesti della regina. Creonte, fratello di Giocasta,