INTRODUZIONE:
La complessa questione delle responsabilità
Premetto che affrontare in maniera distaccata e analitica un argomento del genere, la cui
letteratura in merito, perlomeno quella da me consultata, risulta piuttosto orientata su
una visione unilaterale dei fatti, si è rivelato un compito di non facile esecuzione. Posso
pertanto qui di seguito citare alcuni dei testi consultati, i quali mi hanno portato a
prendere coscienza sull’assenza di una multilateralità dei punti di vista, probabilmente
dovuta in gran parte alla difficoltà di pervenire alle fonti: Joze Pirjevec, Le guerre
jugoslave, Einaudi, Torino 2001; Stefano Bianchini, La questione jugoslava, Giunti,
Firenze 1999; Christopher Cviic, Rifare i Balcani, Il Mulino, 1993 Bologna; Stefano
Bianchini, L'enigma jugoslavo. Le ragioni della crisi, Franco Angeli, Milano 1989.
Detto ciò, il mio intento non è certo quello di avventurarmi in furiosi anatemi contro gli
oppressori, né, per converso, in apologie dei vani tentativi diplomatici di mezza Europa.
Niente di questo.
Gli eventi che hanno devastato la penisola balcanica non presentano un unico folle
ideatore: d'altronde, non sarebbe possibile. L'interconnessione moderna degli Stati di
tutto il mondo fa sì che ad ogni azione minimamente rilevante consegua una reazione
internazionale più o meno incisiva.
Questioni economiche, certo: la Comunità Europea desiderava finalmente dimostrare di
poter prescindere dall'ala protettiva degli Stati Uniti d'America; il libero scambio di
merci sul vecchio continente, inoltre, non poteva far altro che giovarsi dell'entrata in
gioco di nuovi soggetti statali indipendenti.
Gli Stati Uniti, invece, appena usciti dal conflitto in Kuwait, preferivano, almeno in un
primo momento, non mettere il naso negli affari balcanici, trattandosi questa di un'area
su cui l'eventuale controllo non avrebbe portato particolari benefici. Zdravko Tomac
affermò, facendo un paragone tra Kuwait e Bosnia-Erzegovina, che la tragedia di
quest'ultima "sta nel fatto che la Bosnia ha i musulmani, ma non il petrolio." Per di più,
serpeggiava tra i politici americani il malcelato timore che la Bosnia fosse una terra
ostica, inespugnabile, in cui un intervento militare sarebbe risultato disastroso, come in
Vietnam.
Gli interventi internazionali nella questione jugoslava degli anni '90, del resto, sono stati
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ampiamente criticati per la loro inefficienza: per quanto riguarda l'Europa, una buona
dose d'incapacità diplomatica, quanto una inusitata mancanza di tempismo, hanno
sicuramente contribuito al massacro di migliaia di civili. Degli Stati Uniti ha invece
colpito una sorta di inatteso immobilismo, sia coi fatti che a parole.
Se infatti può essere comprensibile l'attesa di una soluzione Onu per mandare
contingenti sul terreno di scontro, altrettanto non si può dire per il silenzio – che può
anche venire interpretato, però, come una mossa volta ad affermare la propria totale
astensione verso qualsiasi orientamento, pena il sicuro scontento di una delle parti in
questione – replicato alle grida d'aiuto della popolazione civile jugoslava.
Del resto, come quasi sempre accade, dietro all'esplosione di un conflitto si annida
qualche responsabilità delle superpotenze mondiali. Gioco forza, avendo basi
disseminate in ogni luogo del globo, esse sono a conoscenza delle più remote realtà,
gravide di cattivi presagi o meno che siano. D'altra parte, è innegabile il fatto che uno
Stato abbia in primo luogo da pensare agli affari interni, e che quindi non investa
uomini e risorse a migliaia di chilometri dalla sua capitale, quando i ministri di
quest'ultima assistono alle prime avvisaglie di una consistente perdita di consenso
elettorale.
Nel caso della Jugoslavia, però, i governi di Washington e Londra sovvenzionarono la
separazione tra Stalin e Tito in favore di quest'ultimo. Era il lontano 1948 quando
l'improvviso strappo tra i due leader crepò il monolito sovietico: Usa ed Europa
(soprattutto Francia e Regno Unito), acerrimi nemici dell'Urss, videro così "spostarsi"
più in là di 200 km la frontiera sovietica. Gli appoggi militari ed economici offerti
dall'Occidente a Tito, decine di anni dopo, si rivelarono preziosi per l'esercito federale
jugoslavo.
Secondo alcuni autorevoli punti di vista, come ad esempio quelli di Joze Pirjevec e
Stefano Bianchini, la Jugoslavia, sul finire degli anni '80, stava ormai unita soltanto per
miracolo, o per meglio dire grazie all'incisività e al peso dell'Esercito federale, uno dei
meglio strutturati d'Europa. Dall'altro lato c'era chi affermava - in primis la Francia -
che la Federazione jugoslava era da troppo tempo una realtà politica, il cui
dissolvimento improvviso non pareva affatto, specialmente per l'arretratezza economica
di alcune delle sue Repubbliche, essere la soluzione migliore.
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Forti erano già allora le spinte nazionaliste dei diversi popoli che abitavano la penisola:
serbi, croati, sloveni, macedoni, montenegrini e musulmani bosniaci erano sparsi qua e
là sullo scacchiere balcanico senza che al preciso senso di appartenenza corrispondesse
uno Stato sovrano. Ad un primo sguardo potevano effettivamente sembrare popoli senza
un paese, nazioni senza il loro proprio Stato; c'è però da chiedersi quale sia il confine
esatto fra un popolo ed un altro, poichè a semplicizzare la questione si finirebbe con
l'avallare per esempio la volontà separatista del popolo basco (nella Spagna orientale).
Prima o poi queste forze centrifughe, quindi, sostenute dall' ideologia dei loro capi
politici, avrebbero schiacciato quelle centripete delle ragioni economiche e dell'utilità
dello "Stato cuscinetto" tra Occidente e Urss. Era solo questione di tempo: la morte di
Tito, avvenuta nel 1980, costituì l'incipit di una crisi d'identità totale.
Comunità Europea e Stati Uniti responsabili, dunque? Certo, ma non esclusivamente.
Poiché, se è vero che sarebbero potuti intervenire tempestivamente, per mezzo di quel
grandioso organismo sovranazionale che risponde al nome di Onu
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, è vero anche che si
ritrovarono a dover fare i conti con più personalità difficilmente gestibili: mi riferisco in
particolar modo a Slobodan Milosevic e Franjo Tudjman, rispettivamente leader di
Serbia e Croazia, ovverosia le due repubbliche più grandi ed influenti della ex-
Jugoslavia. E' infatti ugualmente, se non in percentuale maggiore rispetto alle
superpotenze mondiali, imputabile ad essi la lunga serie di mattanze avvenute in
Krajina, a Vukovar, a Srebrenica - solo per citare alcuni tra i nomi divenuti più
tristemente celebri.
L'atteggiamento spesso passivo, ostinato e quasi rurale di questi due capi di Stato ha
complicato enormemente le cose: non si è trattato semplicemente di efferatezza, di
aggressività strategica; in realtà la diplomazia europea ha da subito instaurato una sorta
di dialogo per evitare il peggio, all'alba dell'emancipazione slovena. E Milosevic ha
quasi sempre risposto in maniera positiva, dicendosi pronto a ritirare le proprie truppe
dal territorio occupato, o perlomeno ad ordinare il cessate il fuoco: in tal modo,
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Organizzazione delle Nazioni Unite, nata il 25 aprile del 1945 per preservare la pace nel mondo,
conseguentemente agli orrori della seconda guerra mondiale. E' attualmente formata da 192 paesi, cui
scopo principale è quello di risolvere i principali problemi umanitari, economici e politici del pianeta. I
diversi organi che la compongono sono l'Assemblea generale, formata dai rappresentanti di tutti gli stati
aderenti; il Consiglio di Sicurezza, formato da dieci paesi membri a rotazione e cinque paesi membri
permanenti (Cina, Stati Uniti, Russia, Francia e Regno Unito) con potere di veto; il Segretario delle
Nazioni Unite; la Corte Internazionale di Giustizia, organo giuridico per quanto riguarda l'applicazione
del diritto internazionale.
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facendosi beffe dei negoziati stipulati, ha seguitato nell'affermare il diritto supremo del
popolo serbo a riunirsi sotto uno stesso tetto. Una serie di accordi poco rispettati - da
ambo le parti, per la verità - ha fatto così ben presto comprendere dove fossero
indirizzate le mire del leader serbo, che del resto non veniva pubblicamente biasimato
da soggetti influenti come la Francia ed il Regno Unito; molti provvedimenti presi dalla
Comunità Europea furono invece visti da più parti come un aiuto - involontario o no che
fosse - offerto all'Esercito federale, sempre di stampo jugoslavista, che pure non era la
sola forza militare a dominare l'area, essendo affiancata e, in alcuni casi fronteggiata,
dalla Difesa Territoriale di ciascuna Repubblica.
A tal proposito, fu il caso del divieto di importo di armi nelle Repubbliche balcaniche a
sollevare il dibattito: in tal modo, secondo la tesi di alcuni paesi come la Germania, si
favoriva l'esercito più forte, già ben fornito di un ampio armamentario. Tuttavia, si trattò
di una scelta precisa della Comunità Europea, che mirava in primo luogo a dare un
segnale forte alle Repubbliche jugoslave impegnate nel conflitto, ed in secondo luogo a
scongiurare nell'area balcanica la repentina degenerazione in carneficina umana.
Più sopra si è accennato a uomini ambigui: ebbene, il capo carismatico che dichiarava
"la Serbia è là dove c'è un serbo" era lo stesso che fece rientrare sette squadriglie aeree
pronte a bombardare Zagabria, onde evitare di far esplodere la reazione dell'Occidente.
Questo era Slobodan Milosevic, un uomo astuto, capace, perfettamente cosciente della
natura intrinseca della globalizzazione mondiale. Risulta quindi lampante quanto fosse
complesso per la comunità internazionale riuscire a trovare la via del dialogo.
Se possibile, ancor più equivoco fu l'atteggiamento generale di Tudjman. Passivo,
paranoico, spaurito: il comportamento del leader croato cangiava in continuazione.
Capace di coltivare il sospetto di un accordo segreto tra Milosevic e Kucan, preso per
far ripiegare le truppe dell'esercito federale verso la Repubblica croata, e stringere egli
stesso un patto di "spartizione" dell'intera Bosnia-Erzegovina con il leader serbo, a
distanza di non più di un anno. Il suo attendismo era sì volto a sperare nell'intervento
internazionale, ma anche viziato dalla pia illusione che il generale Kadijevic, capo
dell'Esercito federale, potesse del tutto disinteressarsi alle regioni croate. Il leader croato
ottenne in seguito, con la sua perseverante richiesta di aiuto, l'invio di forze
d'interposizione nelle frontiere jugoslave, da parte dell'Ueo - novità, questa, suggerita
dalla Francia per sottolineare l'indipendenza europea dalla Nato.
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Intelligentemente, durante gli scontri con l'esercito federale, Tudjman restò sempre
legato alla Comunità europea, non mancando di sottolineare come quella dell'Esercito
federale fosse un'aggressione in piena regola (in seguito, però, i governi occidentali si
scagliarono contro il suo metodo sanguinario); per converso, evitò di dichiarare
apertamente guerra all'aggressore, sapendo che, prima o poi, l'obiettivo del nemico
sarebbe coinciso con il proprio, ossia quella Bosnia-Erzegovina composta da serbi,
croati e bosgnacchi (chiamati anche "bosniaci musulmani", termine questo considerato
antiquato e parzialmente offensivo a causa delle sue implicazioni religiose e della lotta
dei “bosgnacchi” per essere riconosciuti come popolo).
Tudjman e Milosevic svilupparono i loro piani segreti anche grazie ad un documento
NATO, in possesso di quest'ultimo, "in cui si auspicava la cacciata dei musulmani
dall'Europa"
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L'Occidente pareva dunque poco propenso a frapporsi tra la popolazione bosniaca e gli
intenti bellicosi delle due sorelle maggiori.
La pagina più nera del tragico cinismo di Tudjman resta però la caduta di Vukovar,
avvenuta il 18 novembre 1991: secondo il parere di molti critici, tra cui Zvonimir Cicak,
Tudjman avrebbe abbandonato la città non perchè incapace di difenderla, ma "per
strappare il riconoscimento della Croazia. Esiste una dichiarazione registrata." Il leader
croato fece leva sulla tragedia di Vukovar per accattivarsi l'opinione pubblica
occidentale, sacrificando per la causa croata migliaia di cittadini croati.
Anche a causa di queste ambigue e sfuggenti personalità, oltre che dei propri
sempreverdi dissidi interni, la comunità internazionale compì nelle aree della ex-
Jugoslavia una serie di azioni quantomeno discutibili.
Le guerre jugoslave - svoltesi in un'area che, già a partire dal XIX secolo, "ha assunto
una caratteristica peculiare, in quanto profondamente condizionata dal conflitto
nazionalismo-federalismo, in un contesto di permanente arretratezza rispetto al resto del
Vecchio Continente"
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- hanno messo la comunità internazionale di fronte agli spettri che
già avevano, qualche decina di anni prima, minato le basi di una convivenza pacifica e
civile sul globo terracqueo.
Per l'Occidente, la "tragedia" stava nell'enorme difficoltà del dover decidere se fosse più
giusto - e dunque utile - riconoscere l'indipendenza proclamata dai diversi Stati, e quindi
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J.Pirjevec, Le guerre jugoslave, Einaudi, Torino 2001.
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S.Bianchini, La questione jugoslava, Giunti, Firenze 1999.
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schierarsi apertamente dalla loro parte, o se invece negarne momentaneamente lo status,
parteggiando per l'autorità federale, al fine di non aizzare sanguinose rivolte in zone già
irte di tensioni.
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