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INTRODUZIONE
I brand sono ormai parte integrante della nostra vita, e senza dubbio ho
avuto modo di osservare questo fenomeno da vicino, durante questi anni
e grazie ai corsi di laurea che ho frequentato.
In parte questo lavoro nasce da questa riflessione, che mi ha sempre
affascinato. Mi incuriosiva il fatto che un fenomeno così recente sia
riuscito in un periodo relativamente breve a cambiare radicalmente le
percezioni di consumo dell’intera società moderna, così tanto da renderci
una scelta di acquisto quasi impossibile ed immaginabile, senza
coinvolgere il mondo dei marchi.
Poi è arrivata la mia prima esperienza lavorativa: uno stage in un’azienda
multinazionale che deteneva, tra marchi di proprietà e contratti di licenza
per marchi dell’alta moda, la leadership mondiale per quanto riguarda
l’abbigliamento per bambini. Senza dubbio un’esperienza interessante,
formativa, ed attraverso la quale ho potuto almeno parzialmente
osservare un riscontro della riflessione sull’universo dei brand.
Anche nelle abitudini di consumo dei bambini c’è il marchio. Ed è molto
presente, non ha niente da invidiare al posizionamento dei brand nei
confronti degli adulti. Esistono i marchi di fascia media, esiste l’alto di
gamma, esiste il lusso (che fa parte di una branca del settore in forte
crescita, tra l’altro).
Ho subito pensato che i risvolti potessero essere estremamente
interessanti, e in qualche modo ho provato ad immaginare le dinamiche
che regolano il consumo (e soprattutto il consumo di prodotti “branded”)
da parte dei bambini - “Chissà quanto possono essere paragonabili a
quelle che regolano il consumo degli adulti?”.
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Al giorno d’oggi le marche si sono insinuate nelle nostre azioni quotidiane,
tutto quello che facciamo (o quasi) è accompagnato dal consumo e dalla
fruizione di prodotti o servizi, e la loro funzione non è più ridotta al
classico “uso” ma sempre più gli oggetti di consumo sono diventati
un’estensione della nostra personalità. Creando un senso di appartenenza,
un’aura piena di significati che ci circonda, la marca possiede noi almeno
tanto quanto noi possediamo lei.
Questo fenomeno che è l’acquisto finalizzato alla creazione di uno status
sociale si verifica sempre più spesso quando parliamo dei cosiddetti beni
ad alto contenuto simbolico, ovvero quei beni in cui la loro funzione
primaria passa in secondo piano; gli oggetti di design, gli abiti di alta
moda e le automobili di lusso non sono solo oggetti, abiti ed automobili: in
realtà il consumatore li acquista per raccontare qualcosa di sé stesso, per
sentirsi parte di una comunità o addirittura per diventare un altro “sé
stesso”, che in realtà non è.
Il punto cruciale sta nel rapportare tutto questo al settore infantile. Può
sembrare un accostamento strano, ma in realtà ho trovato un mondo
affascinante a riguardo: questo genere di dinamiche effettivamente esiste,
ma viene declinato in maniera diversa, ed adattato ad un mercato
controverso e pieno di difficoltà (tecniche e gestionali) come può essere
quello dei bambini: i marchi comunicano in maniera diversa, attraverso
canali talvolta diversi e spesso usando strumenti diversi da quelli che
conosciamo, per trasmettere qualcosa ad un consumatore per l’appunto
diverso.
La scelta di questo argomento per il mio lavoro mira ad effettuare un
analisi su un settore che si sviluppa attraverso varie sfaccettature,
accostandolo al mondo della comunicazione di marca “tradizionale”, quella
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dedicata all’adulto, per poter avere un confronto su più livelli tra i due
mondi.
La prima parte ripercorre per prima cosa la storia dei prodotti ad alto
valore simbolico, uno sguardo generale sul mondo delle marche e dei beni
di lusso, per avere una corretta visione d’insieme su un argomento che
verrà riproposto per tutta la stesura del lavoro. Mi sembrava opportuno
introdurre un argomento specifico come quello che ho scelto con delle
premesse di carattere generale, per non perdere di vista quali sono gli
elementi chiave attraverso i quali si svilupperà l’analisi, quindi, dopo
qualche esempio caratteristico di marche che hanno puntato sulla loro
immagine per raggiungere il successo commerciale, ho cercato di
delineare un profilo che rappresentasse il tipico consumatore dei beni di
lusso.
Per la stesura di questa parte ho utilizzato alcuni dei testi che ho avuto
modo di studiare durante il mio percorso di studi; si sono rivelati
estremamente utili in questo contesto, e grazie ad essi ed alla
consultazione di riviste e siti specializzati ho potuto sviluppare una prima
analisi sui comportamenti dei consumatori adulti riguardo ai prodotti di
lusso ed alla loro comunicazione.
Successivamente entra in gioco il protagonista di questo lavoro, il
consumatore bambino, che si può ironicamente vedere come un
consumatore in miniatura bersagliato dalla comunicazione pubblicitaria già
in tenera età. Dopo alcune letture di testi scritti da specialisti della
comunicazione pubblicitaria rivolta ai bambini quali Simona Ironico, Martin
Lindstrom e Susan Linn, sono riuscito a raccogliere una serie di utilissime
informazioni sull’argomento, che mi hanno aiutato a descrivere le
dinamiche di un consumatore dal profilo così differente da quello adulto.
Ho potuto infatti osservare quale sia l’approccio dei marchi verso questo
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tipo di consumatore e viceversa, in particolare in che modo il brand
comunica con lui, come il bambino lo percepisce ed in che modo le scelte
e i desideri di consumo di un bambino si trasformino in un acquisto vero e
proprio (spesso per mano dei genitori).
La seconda parte del mio lavoro si occupa principalmente del settore
dell’alta moda infantile, ed approfondisce quanto detto in precedenza. Il
primo capitolo introduce il mondo dell’abbigliamento di marca junior ed il
suo contesto, analizzando dati tratti da indagini del 2011 per presentare
un quadro attuale dell’argomento trattato.
Successivamente il focus si sposta sul Kids ed il Baby Marketing e sul
modo in cui comunicano l’universo che appartiene al lusso, alla moda
pret-a-porter, ad una platea di bambini. Purtroppo ho constatato che non
esiste una base di ricerca solida sull’argomento, che nemmeno nei testi
più recenti è uno dei temi più considerati, ma posso dire che già nella
stesura di questa parte mi è stato incredibilmente utile l’aver lavorato per
un periodo all’interno del settore, per poter rendere quanto più possibile
accurati i contenuti di questi capitoli. In questa parte è stato inserito il
commento ad una interessante ricerca di Simona Ironico che affrontava
un’indagine sugli spazi della moda infantile a Milano, analizzando il tipo di
comunicazione usato all’interno dei punti vendita dei più importanti marchi
di moda per bambini.
Ho deciso di inserire a questo punto del lavoro una testimonianza
proveniente dal gruppo in cui ho lavorato, anche se non è stato ancora
analizzato il caso aziendale: ho avuto infatti la possibilità di incontrare la
persona che si occupa all’interno dell’azienda di tutte le relazioni con i
grandi magazzini più importanti a livello internazionale. Il risultato è stato
un intervento soddisfacente e pertinente riguardo a tutto il settore della
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moda infantile, che ho deciso quindi di escludere dal capitolo del caso
aziendale, quello successivo.
Ho quindi affidato il capitolo conclusivo della tesi alla mia esperienza
personale, che consiste in sei mesi di lavoro all’interno di una
multinazionale che negli anni si è guadagnata la leadership del settore
dell’abbigliamento infantile. Ritengo sia stato decisivo l’inserimento di un
capitolo così strutturato, perché dopo una serie di premesse e
considerazioni proposte nelle parti precedenti l’idea era quella di cercare
conferme nelle esperienze lavorative in questo specifico ambito. La
collaborazione offertami nell’ambiente di lavoro mi è stata molto utile per
capire meglio le dinamiche del mercato della moda infantile, e mi ha dato
la possibilità di poterne dare una descrizione dall’interno.
Per poter raccontare questo mondo da un punto di vista valido e senza
dubbio prezioso, ho infatti utilizzato materiale che proveniva direttamente
dal gruppo, come indagini di mercato, testimonianze sulla comunicazione
aziendale ed ho avuto infine la possibilità di concludere questo lavoro con
un’intervista al direttore generale della filiale italiana.
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Parte I
BENI DI LUSSO E RELATIVI CONSUMATORI
1. Beni di lusso
Dal punto di vista etimologico ci sono due possibili radici che danno origine
alla parola “lusso”, e queste sollevano già da sole spunti di discussione
interessanti grazie alle accezioni discordanti che danno alla parola in
questione. Il lusso infatti potrebbe infatti derivare dalla parola latina “lux”,
luce (ma indica anche onore, lustro, segno di raggiungimento di una
elevazione sociale), portando con sé un’accezione estremamente positiva
che porterebbe a pensare al lusso non tanto come ad un’ostentazione
gratuita di ricchezza, quanto ad un glorioso obiettivo di elevazione di
status che una persona si propone di raggiungere. Allo stesso tempo
osserviamo come l’altra parola latina che darebbe origine al concetto di
lusso ci mostri il rovescio della medaglia: “luxus” significa infatti
“eccesso”, in questo caso lo sfoggio delle proprie possibilità in
contrapposizione alle altre persone che non possono permettersele.
Come si può facilmente intuire le sole origini della parola portano con sé
una diatriba interna, che consente di valutare il concetto attraverso due
punti di vista opposti: a tal proposito è utile l’analisi del questionario
realizzato nel 2004 a Milano, Firenze e Roma che ci dà un’idea di quale sia
l’immagine del lusso ai giorni nostri.
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Intervistando un campione di 292 soggetti equamente distribuiti tra
uomini e donne di età compresa tra i 30 ed i 50 anni, di classe economica
medio-alta emerge infatti come il 35,1% del campione ha identificato la
parola lusso con “oggetti preziosi, status symbol, denaro e potere”. Per il
44% degli intervistati, la ricerca del lusso è ancora sinonimo di “vanità,
insoddisfazione, edonismo”, mentre per il 37,4% del campione è sinonimo
di “affermazione personale, cose di qualità, esclusive e rare”. Quando si
richiede invece una valutazione del lusso, prevalgono le accezioni negative
del termine. Il lusso, infatti, non è un valore (78,3%) né un obiettivo a cui
tendere (58,7%) e risulta un “eccesso” per il 39,1% degli intervistati.
Allo stesso modo possiamo citare un altro studio, effettuato a Milano nello
stesso anno, che trova ulteriori conferme sulla doppia immagine che il
termine "lusso" evoca: intervistando 98 studenti internazionali di età
compresa tra i 22 ed i 40 anni e chiedendo loro di descrivere il concetto di
lusso utilizzando solo tre vocaboli, risulta che più del 35% del campione
associa il lusso ad un prodotto estremamente costoso, il 15% ad un
oggetto o servizio di alta qualità e meno del 10% a prodotti definiti "non
necessari"
1
.
Nonostante la duplice e misteriosa natura di questo concetto, è comunque
innegabile la sua longevità. Si può dire infatti che gli albori del lusso
risalgano addirittura al XII secolo, dove durante il regno del re Luigi XIV
(poi detto Re Sole), osserviamo nascere la creazione di oggetti esclusivi e
molto costosi e, soprattutto, i primi avvenimenti che possiamo ricondurre
ad un fenomeno oggi noto come "moda". In quegli anni la Francia divenne
un esempio per tutta Europa negli ambiti della moda e più in generale
nella produzione di oggetti di pregio come profumi ed abiti dai tagli
innovativi (in parte grazie al suo Re, che fu in prima persona protagonista
1
L.
Carcano,
A.
Catalani
–
Il
lusso
alla
ricerca
di
un’identità:
le
implicazioni
manageriali
13
ed a volte pioniere di queste nuove tendenze); la società francese di quel
periodo fu allo stesso tempo molto astuta nel gestire il commercio di tali
beni, infatti decise di incentivare artigiani, sarti e profumieri di altri paesi a
trasferirsi in Francia per lavorare alla corte di Luigi XIV. Il solo modo in cui
venne gestito l'allora primordiale mercato del lusso diede infatti a questi
oggetti un valore aggiunto, portando il resto dell'Europa ad adeguarsi alle
nuove abitudini adottate dalla Francia, come il celebre habit à la française
o la cravatta, nata proprio in quel periodo.
1Modello
di
abito
settecentesco
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Il lusso, il prestigio che gli si crea attorno e tutta una serie di oggetti di
valore iniziano a crescere di popolarità, e la cultura del benessere (del
volerlo mostrare agli altri, più che altro) prende piede, ovunque nel modo.
Ecco altri due esempi di epoche diverse che vanno citati nella storia di
questo fenomeno:
ci troviamo a metà dell'800, periodo in cui per la prima volta possiamo
parlare di vera e propria affermazione del lusso mondiale. Nel giro di pochi
anni si affacciano sulla scena i due principali contendenti del mercato del
lusso, ai quali sul podio del settore si è aggiunta successivamente Bulgari,
il primo in America ed il secondo in Francia, che arrivò non molto tempo
dopo, alla fine dello stesso XIX secolo. È nel 1837, precisamente il 18
settembre, che Charles Lewis Tiffany ed il suo socio John B. Young
aprirono un piccolo emporio di cartoleria di lusso e primi soprammobili
d'argento nella parte bassa di Manhattan, al numero 259 di Broadway. I
giornali dell'epoca si accorsero dell'apertura per un singolare motivo: per
la prima volta veniva allegato ad ogni articolo un cartelli con il prezzo e la
dicitura "non negotiable" (che stava a significare "prezzo fisso", una cosa
non così comune a quell'epoca). Le vendite del primo giorno ammontarono
alla considerevole cifra di 4,98 dollari. Gli articoli erano impacchettati in
una caratteristica scatola blu, con il nastrino azzurro chiaro, che è rimasta
identica a quelle con cui vengono incartati tutt'ora gli articoli venduti.
Tiffany oggi ha 154 negozi in tutto il mondo, il principale, sulla Fifth
Avenue angolo 57th, è stato inaugurato nel 1940. Il gruppo è quotato in
borsa a New York dal 1987, ed è citato nel celeberrimo romanzo di
Truman Capote "Breakfast at Tiffany" del 1950 da cui è stato poi tratto il
film con Audrey Hepburn del 1961. L'icona che rappresenta al giorno
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d'oggi il marchio Tiffany nasce dunque da una strategia mirata al creare
una sensazione di esclusività , esattamente ciò che i beni di lusso devono
trasmettere al consumatore che desidera distinguersi.
Nel 1847 Louis Francois Cartier rilevò il laboratorio orafo del suo maestro
Adolphe Picard al 29 di rue Montorgueil a Parigi. Cominciò a fornire negozi
e produttori finché nel 1853 raggiunse dimensioni tali da poter aprire al
pubblico, e nel 1859 aprì un vero e proprio, grandioso per l’epoca, negozio
al 9 di Boulevard des Italiens. Nel corso degli anni, dopo alterne vicende, il
gruppo è passato dalla famiglia alla conglomerata Richemont (secondo
gruppo al mondo nel settore lusso dopo LVMH), costituita a sua volta nel