Comunicazione e prodotti editoriali nel mondo del calcio: i casi di Milan e Inter Simone Cometti 150540
conosciamo oggi, alla nascita delle prime federazioni ufficiali e all’inizio
del calcio moderno.
Una storia che corre parallela a quella nazionale ed internazionale e che si
intreccia e si amalgama con la vita sociale ed economica dei diversi paesi.
Il pallone ha percorso una parte importante della storia italiana ed europea,
arrivando a modificare le abitudini degli appassionati, maturando e
crescendo fino al punto di diventare la loro prima passione.
Insieme a ciò però il calcio ha iniziato un proprio processo di
“enfatizzazione” che lo ha portato a raggiungere dimensioni non supportate
da salde fondamenta: come altre “bolle” già osservate nella storia
economica recente (basti pensare solo allo sviluppo esponenziale della net-
economy sul finire degli anni ’90 e alla sua successiva contrazione) anche il
calcio ha presto evidenziato i limiti strutturali di una crescita eccessiva,
rischiando infine il vero e proprio tracollo. Nel momento in cui sarebbe
stato possibile puntare alla consacrazione dello sport professionistico come
attività di primo piano, la stessa crescita del fenomeno economico divenne
non più controllabile e di ardua gestione..
Proprio il SECONDO CAPITOLO tratta il tema sempre d’attualità della
nascita del calcio business.
I calciatori col passare del tempo iniziarono ad avere sempre più potere
contrattuale e a pretendere remunerazioni sempre più cospicue, diventando
così “professionisti”. Naturalmente questo comportò una crescita
esponenziale dei costi per le società di calcio che dovettero iniziare a
“vendere” lo spettacolo calcistico ed a trovare diverse e sempre nuove fonti
i guadagno per le loro casse, dando così vita alla fase definibile del
“neocalcio”, dove tutto fu trasformato in spettacolo.
L’evento catalizzatore di questa trasformazione, che dette la spinta decisiva
al calcio nella direzione del business a tutti i costi, fu la sentenza Bosman,
che tra i diversi cambiamenti apportati ai regolamenti giuridici sportivi e
nazionali, rese soprattutto i club calcistici delle società a fini di lucro a tutti
gli effetti.
Da ciò nasce in questo capitolo la necessità di esaminare tutte le
conseguenze della sentenza Bosman e di tracciare un’attenta analisi
economica della Serie A e dei principali club calcistici europei.
Il TERZO CAPITOLO inizia a trattare nello specifico il tema della
comunicazione nel mondo del calcio e più precisamente del rapporto tra
quest’ultimo ed i media.
Il capitolo è dedicato al fenomeno della stampa sportiva in Italia, a quello
della tv e delle nuove tecnologie.
Innanzitutto ho compiuto una breve analisi, anche storica, dell’evoluzione
della stampa sportiva in Italia, che ha portato il nostro paese ad avere ben
tre diversi quotidiani sportivi.
Ho dato poi grande risalto alla questione dello sport in tv, argomento legato
al fenomeno delle pay-tv e soprattutto a quello scottante dei diritti televisivi
criptati ed in chiaro, cercando di tracciare un breve cronistoria degli
avvenimenti che hanno portato il nostro campionato di calcio di Serie A ad
avere il più alto valore di diritti tv di tutta l’Europa.
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Infine uno sguardo all’importante fenomeno del calcio su Internet e ai
principali portali informativi sportivi italiani. Ma anche un’analisi di quello
che potrebbe essere il mercato del futuro per la trasmissione (e vendita) di
servizi e contenuti di carattere calcistico: il Wireless e l’UMTS.
Nel QUARTO CAPITOLO ho analizzato invece nello specifico la
tendenza, soprattutto delle grandi squadre del nostro massimo campionato
calcistico, di trasformarsi in vere e proprie media company, sfruttando le
potenzialità del loro marchio per produrre pubblicazioni “ufficiali” ed
iniziative editoriali multimediali.
Ho compiuto un’analisi “per mezzo” (carta stampata, tv, internet, ecc.) sui
prodotti editoriali delle squadre di Juventus, Inter, Milan e Roma, cercando
di capire come e perchè esse producano questi servizi editoriali ed
informativi tra cui le riviste ufficiali, i canali satellitari tematici ufficiali, i
siti internet ufficiali ed anche il merchandising ufficiale.
Questo capitolo concettualmente introduce poi la SECONDA PARTE della
tesi, dedicata esclusivamente all’analisi dettagliata dei casi specifici di Inter
e Milan.
Ho scelto in particolare queste due società calcistiche perchè era possibile
fare tra loro un confronto ed una comparazione interessante, tra gli altri,
soprattutto grazie a questi particolari motivi:
sono situate nello stesso background socio-economico (Milano).
sono, dopo la Juventus, le squadre con il più grande bacino d’utenza e
seguito di tifosi d’Italia.
sono, insieme all’A.S. Roma, le uniche tre società che producono anche
un canale satellitare tematico ufficiale a loro interamente dedicato.
L’analisi, compiuta per squadra, descrive nel dettaglio tutti i diversi aspetti
economici-organizzativi e la produzione e distribuzione dei contenuti dei
prodotti editoriali dei due club calcistici come la rivista ufficiale, la cartella
stampa, il canale satellitare tematico ufficiale, i siti internet della società ed
il merchandising ufficiale.
Ho cercato quindi di capire cosa e come questi club producono attraverso
queste diverse attività editoriali multimediali, e quale sia il loro scopo e
valore comunicativo oltre che quello economico di vendita, diffusione e
ricavi pubblicitari.
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Comunicazione e prodotti editoriali nel mondo del calcio: i casi di Milan e Inter Simone Cometti 150540
PARTE PRIMA:
DA SPORT NAZIONALE A BUSINESS GLOBALE
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1. Il calcio in Italia
1.1. LE ORIGINI STORICHE DEL GIOCO
Giochi con la palla furono praticati sotto tutte le latitudini e in tutti i tempi.
Platone pensava che gli esercizi ginnici avessero avuto un’origine naturale,
come risposta ad un istinto innato dell’uomo, e in effetti nel gesto di
lanciare o calciare una palla, nella stessa forma sferica dell’oggetto, c’è
qualcosa di elementare e istintivo.
3
Come anche Antonio Ghirelli ricorda, l’antichità ci ha lasciato una enorme
documentazione sui giochi di palla che si praticavano, più o meno simili al
nostro calcio o al nostro rugby.
I giapponesi del 1004 a.C. tramandano il ricordo di un gioco che si
disputava su un terreno quadrato di circa due metri, demarcato ai quattro
punti cardinali da altrettanti alberi.
In Cina si giocava con un pallone di cuoio riempito, secondo i leggiadri
costumi del Celeste Impero, di capelli femminili.
Sia l’Iliade che l’Odissea conservano accenni alle “sferomachie”,
competizioni sportive coltivate dalle genti greche. Nel canto VI
dell’Odissea è contenuta la prima cronaca sportiva di cui si abbia memoria,
descrivendo Nausicaa impegnata a sbagliare una specie di goal a porta
vuota, mancando il passaggio all’ancella e mandando la palla a rotolare in
un profondo vortice.
Dalla Grecia all’antica Roma il passo è breve. Marziale, Virgilio e Orazia ci
hanno lasciato descrizioni non episodiche dell’arpasto, un gioco violento
che – derivando dal verbo greco “arpazo”, sottrarre – consisteva appunto
nello strapparsi la palla attraverso una folla di contendenti; ma anche quello
della “pila paganica” (un pallone di cuoio ripieno di piume), quello della
“pila trigonalis” (che si giocava in triangolo, preferibilmente nudi, nel
tepidario delle terme), e quello del follis , una palla di cuoio gonfia d’aria.
Giungendo poi direttamente sino al 1200, si ritrova in Inghilterra l’enorme e
popolare diffusione di un gioco consistente nel far superare alla palla una
linea che veniva difesa accanitamente. Forza bruta nei contatti e potenza di
calcio erano gli unici requisiti richiesti ai protagonisti di queste furibonde
battaglie che solitamente si svolgevano il martedì grasso o a Natale, oppure
in concomitanze con sagre e fiere paesane. Interessante notare come
l’obiettivo di questo passatempo britannico fosse di due ordini, come
duplice era il modo di giocare: “hurling at goal” (consistente nel gettare la
palla in porta allorchè la partita aveva luogo fra squadre numerose – da 30 a
50 giocatori – ma in campo limitato) e “hurling over country” (consistente
nel lanciare la palla attraverso la campagna, allorchè la gara coinvolgeva
intere parrocchie o paesi).
Denunciato come forma di “pericoloso teppismo”, l’hurling venne messo
fuori legge in entrambe le sue forme da re Edoardo II, nel 1314.
3
Ghirelli A., Storia del calcio in Italia, Einaudi, 1972.
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1.2. IL CALCIO VERSO L’ERA MODERNA
E’ notorio come si faccia abitualmente risalire al Rinascimento fiorentino
l’origine più “strutturata” del moderno gioco del calcio, anche se alcuni
autori sottolineano come “la parentela tra l’esercizio fiorentino e il nostro
attuale svago domenicale sia assai vaga, mentre il football come oggi è
praticato deriva inequivocabilmente, nello spirito e nella lettera del suo
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regolamento, dalla pratica inglese del secolo XIX”.
Ad ogni modo, è a Firenze, sotto la dinastia dei Medici che il gioco della
palla raggiunge il suo massimo splendore. Tanto che più tardi il vocabolario
della Crusca, stampato nel Seicento a Venezia, riporterà la celebre
definizione: “E’ calcio anche nome di gioco, proprio e antico della Città di
Firenze, a guisa di battaglia ordinata con una palla a vento, somigliante
alla sferomachia, passata dai Greci ai Latini e dai Latini a noi”. Le partite
si disputavano soprattutto in occasione di matrimoni principeschi e visite
illustri, in spiazzi di cento metri per cinquanta. Due squadre di 27 giocatori
ciascuna si contendevano col pugno o col, piede un pallone gonfio di aria,
in una caccia violentissima e senza regole che richiama alla memoria
inevitabilmente il britannico “hurling at goal”.
Ma è indubbiamente all’Inghilterra che dobbiamo volgere lo sguardo per
osservare la sempre più complessa strutturazione del gioco del calcio e il
suo dotarsi di regole e norme che lo avvicinano progressivamente al calcio
moderno. Sospinto dall’ attività sportiva dei college il gioco del calcio si
diffonde in Inghilterra, conquistando un numero crescente di seguaci e
appassionati e verso il 1850 era già configurato in maniera non dissimile da
quella dei giorni nostri: le partite duravano sessanta minuti, l’altezza tra i
pali sotto cui doveva passare la palla era stabilita in due metri, gli arbitri
venivano designati a vigilare sull’osservanza delle regole concordate di
volta in volta, ed era in vigore sinanche la norma del fuorigioco: il divieto
per l’attaccante di giocare la palla se tra lui e la porta non si frapponevano
avversari.
Nel 1855 nasce la prima società calcistica del mondo, lo Sheffield Club. Il
26 ottobre del 1863, data storica per il gioco del calcio, tredici delegati in
rappresentanza di undici società inglesi si riunirono a Londra, nella Taverna
dei Frammassoni, per procedere ad un accordo univoco sulle regole da
osservare nel gioco. I delegati si divisero in due tronconi: una fazione che
voleva conservare l’uso indiscriminato delle mani e dei piedi nel
trattamento della palla ed il tono violento delle competizioni medievali
fondarono la Rugby Union; l’altra fazione, al contrario, che voleva
escludere sia l’uso delle mani che la violenza nel contatto fisico fondò
invece la Football Association.
Era il memorabile battesimo del calcio moderno. Tre anni dopo la Football
Association faceva disputare la prima partita ufficiale; nove anni dopo, il
Kennington Oval di Londra era teatro del primo incontro internazionale
della storia, quello tra Inghilterra e Scozia (spettatori 2.934, incasso 106
sterline e 1 scellino).
4
Ibidem.
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In Italia invece è la Federazione Ginnastica ad organizzare per prima delle
gare di football. Il gioco cominciò a diffondersi in centri come Udine,
Ferrara, Alessandria, Livorno, Spezia, Cuneo, Savona.
Il 15 marzo del 1898 viene costituita a Torino la federazione Italiana del
Football: vi aderiscono inizialmente il Genoa, il F.C. Torinese,
l’Internazionale e la Società Ginnastica Torinese. Nel 1905 la Federazione
si affilia alla Fifa, l’ente mondiale del calcio varato l’anno prima, e
annuncia per il campionato successivo l’adozione di una nuova formula
rispetto a quella – ristretta e abbastanza pionieristica – adottata sino a quel
momento: eliminatorie locali seguite da un girone finale con partite di
andata e di ritorno.
Risale ai primi decenni del 1900 la nascita e il consolidamento di alcune fra
le principali società calcistiche in tutt’Italia, chiamate a contrastare il
predominio delle formazioni di Milano, Torino e Genova: a Palermo, a
Firenze, a Lucca e Pisa, a Roma, a Bologna (nel 1909), a Modena e Monza
(nel 1912), a Padova (1913), a Verona. A Milano nel 1908 un gruppo di
soci dissidente del Milan forma l’Internazionale, a Torino nasce l’omonima
formazione (1906), sin dall’inizio con l’obiettivo dichiarato di competere
con lo strapotere della Juventus. Nel 1908 viene fondata la Pro Vercelli,
formazione che impresse al gioco del calcio una fortissima spinta
propulsiva sul piano dell’organizzazione e del metodo in campo, tanto
addirittura da esercitare un suo incontrastato predominio con la vittoria di
tutti i campionati disputati dal 1908 al 1913, con la sola eccezione del 1910.
Nel 1913 la Federazione cominciò a sperimentare la formula del
campionato a girone nazionale, avviando quel processo di “unificazione
geografica” che progressivamente avrebbe attutito le distanze organizzative
ed agonistiche fra i più forti club del Nord e quelli – più giovani e, spesso,
meno ricchi – del Mezzogiorno.
«Da quel lontano campionato del 1913 – osserva Antonio Ghirelli (op. cit.)
– la formula del girone nazionale si è andata gradualmente evolvendo e ha
assicurato al gioco del calcio una benemerenza che non si può esagerare ma
neppure ignorare. In un paese come il nostro, la cui unità è avversata da
circostanze di ogni genere, il campionato di calcio ha contribuito
beneficamente ad avvicinare gli italiani delle più lontane regioni, a farli
viaggiare, a far conoscere loro la bellezza e i peccati della nostra terra. Gli
eccessi di campanilismo, che hanno causato perfino episodi di criminalità,
sono da considerarsi conseguenza sia pure deplorevole, di antichi
5
pregiudizi».
Il processo di unificazione, lento e difficile, visse momenti di alterna
fortuna, frenato in parte dagli eventi bellici della prima guerra mondiale, per
poi riprendere vigore nel dopoguerra e giungere al suo logico epilogo al
termine della stagione calcistica 1928-1929. Negli ultimi due anni la
formazione dei gironi, superata la ripartizione geografica delle squadre fra
Nord e Sud, era stata fatta in base alla classifica della stagione precedente.
Nell’estate del ’29 la Federazione eliminò le prime otto squadre di ciascun
5
Ibidem.
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girone unendole in un unico gruppo, unificando a parte le seconde otto
classificate. Ai due girono venne dato il nome di Serie A e Serie B.
Il primo campionato a girone unico nella storia del calcio italiano, quello
del 1929-1930, fu disputato fra 18 squadre: Ambrosiana-Inter, Genoa,
Juventus, Torino, Napoli, Roma, Bologna, Alessandria, Pro Vercelli,
Brescia, Milan, Modena, Pro Patria di Busto Arsizio, Livorno, Triestina,
Padova, Cremonese e Lazio.
1.3. IL SECONDO DOPOGUERRA E LA VISIONE
COMMERCIALE
E’ il secondo dopoguerra a segnare l’avvio del vero e proprio boom del
calcio, sancendo in maniera irrevocabile il tramonto di un’èra forse più
disorganizzata e frammentata ma certamente più genuina e più ispirata ai
veri valori della competizione sportiva, per cedere il passo ad una visione
sempre più spiccatamente mercantilistica e “commerciale” del fenomeno.
Sociologicamente interessante sarebbe, ad esempio, l’approfondimento del
fenomeno-Totocalcio, al quale in questa sede si può accennare solo per
rapidissimi cenni. Sarà forse sufficiente ricordare che le prime “giocate” –
con la costituzione della società Sisal ad opera del giornalista Massimo
Della Pergola – risalgono agli anni a cavallo fra il ’42 e il ’47, mentre la
legge che regolamenta la materia è la n.469 del 14 aprile 1948: in essa si
affida al Coni l’esercizio della gestione del Totocalcio, ripartendo le quote
introitate settimanalmente in parti proporzionali fra il montepremi, lo Stato,
le ricevitorie e il Coni stesso. Il solo montepremi – pari al 48 per cento degli
introiti globali – superò nella stagione 1948-1949 la somma di 5 miliardi di
lire, per poi arrivare a toccare vette astronomiche sino agli anni Novanta,
quando un nuovo e più potente fenomeno di “illusione collettiva” – il
Superenalotto – ne avvierà una lenta ma inesorabile erosione fra i favori del
pubblico.
L’importante evento storico che il 4 maggio del 1949 vede l’aereo che
riportava a casa la fortissima formazione del Torino – reduce da un incontro
amichevole organizzato in Portogallo con il Benfica – schiantarsi sulla
collina di Superga, causando la morte di 18 giocatori, due tecnici, due
dirigenti, un massaggiatore, tre giornalisti e i cinque membri
dell’equipaggio, segnò l’inizio di un profondo cambiamento.
La fortissima spinta di “ricostruzione” della società piemontese, avviata
subito dopo, sembrò infatti dare il via ad un’opera sempre più forsennata di
radicamento in tutti i più forti sodalizi calcistici di quello spirito
commerciale e imprenditoriale che, nel bene e nel male, avrebbe
caratterizzato lo sviluppo ulteriore del fenomeno-calcio sino ai tempi nostri.
Nell’estate che seguì il dramma di Superga, entrarono in vigore le nuove
norme federali, che consentirono in serie A il tesseramento di tre giocatori
stranieri. Come osserva Ghirelli, nel decennio a cavallo fra il ’50 e il ’60
l’ambiente calcistico si macchiò degli stessi errori della classe dirigente
italiana rispetto al boom economico che il Paese visse: «anche nel football
incassi, guadagni e partecipazione popolare crescono a dismisura,
alimentando una sfrenata euforia, e nessuno dei responsabili si preoccupa di
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programmare un qualsiasi piano per gli anni difficili, e tantomeno di
consolidare le strutture portanti del calcio italiano. Il potere è utilizzato
piuttosto per attuare una frettolosa e confusa politica di sopraffazione
settoriale: della Lega rispetto alla Federazione, delle Società rispetto alla
Lega o ancora, e forse soprattutto, di alcune Società rispetto ad altre».
Facendo un passo a ritroso, va ricordato a questo punto che all’immediato
dopoguerra si deve far risalire anche la nascita della Lega Nazionale, voluta
dalle società professionistiche aderenti alla Federcalcio. La Lega viene
fondata fra il 14 e il 16 maggio del 1946 a Rapallo, e come sede viene
indicata la città di Milano. Il suo primo presidente è l’ing. Piero Pedroni,
che guiderà l’istituzione milanese per quattro anni, sino al ’50, passando
attraverso il più lungo campionato della storia, quello del ’47-’48 a ventuno
squadre. E’ la Lega, rafforzandosi sempre di più negli anni successivi anche
grazie all’ingresso nel suo direttivo dei nomi più potenti del calcio italiano
(i Rizzoli, gli Agnelli, i Moratti), a mettere in campo costantemente
un’azione di autonomia delle società professionistiche nei confronti della
Federcalcio. E’ la Lega a trattare con il Coni l’aumento dei contributi
concessi, ritenendo agli inizi degli anni ’70 i 500-600milioni di lire ben
misera cosa rispetto ad un meccanismo di giocate settimanali che aveva
raggiunto utili-record prossimi ai 33 miliardi. Le società cominciarono ad
avvertire sempre più pesantemente gli effetti deleteri di una politica
economica condotta dissennatamente e senza alcun freno. Nel ’77 venti
società su 36 sottoscrissero un documento con la richiesta di un
commissariamento della Lega per far fronte ad un deficit del settore salito a
50 miliardi complessivi. Il commissario nominato, Franco Carraro, si
dimise l’anno successivo quando il centravanti del Vicenza, Paolo Rossi, in
comproprietà con la Juventus, venne valutato dal presidente vicentino
Farina 5 miliardi e 224 milioni di lire.
1.4. LA MUTAZIONE GENETICA
Seguire per grandi linee la storia della Lega Calcio equivale a ripercorrere
le tappe di avvicinamento delle società calcistiche – e del fenomeno-calcio
nella sua visione complessiva di vero e proprio fenomeno di costume – ad
una dimensione sempre più “aziendale”, laddove l’aspetto economico-
finanziario finisce quasi col sopraffare l’aspetto meramente ludico o
spettacolare, pur intrecciandosi strettamente ad esso.
Nel 1981 l’assemblea dei presidenti di serie A e B decide la liberalizzazione
6
delle sponsorizzazioni. Come scrive Fabio Monti nel suo saggio sulla
nascita della Lega Calcio, la Lega nella primavera del 1981 «si trova di
fronte alla prima occasione per alzare il prezzo della cessione dei diritti tv.
La Fininvest annuncia pubblicamente di essere disposta a offrire molto di
più della Rai, ma i tempi non sono ancora maturi per cedere i diritti a un’
emittente che non ha la diretta e di cui ancora non tutti si fidano, nonostante
l’ultimo test del Mundialito. Così, per tre anni la Rai si tiene il calcio, ma
deve versare 5 miliardi, 816 milioni e 147 mila lire».
6
Monti F., I Quaderni del Calcio, Lega Calcio, n.x, 1998
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Prima della discesa in campo delle televisioni e degli sponsor, e del loro
irrefrenabile predominio economico, per le squadre di calcio le uniche fonti
di ricavo erano gli incassi al botteghino, per la singola partita o per gli
abbonamenti di inizio stagione. In questa ottica, il numero dei tifosi che si
recava allo stadio per seguire l’evento-partita rappresentava il “bacino
d’utenza” in senso stretto. E i tifosi erano i soli “clienti” della società di
calcio: in cambio del pagamento di un biglietto o di un abbonamento
ricevevano la contropartita di un servizio, la visione della partita.
Evidentemente anche in questa fase la forza economica dei singoli
presidenti di club e la disponibilità dei rispettivi “portafogli” rappresentava
una discriminante decisiva nel valutare il valore di ogni formazione
calcistica e la rispettiva “forza” nel campionato e nei fatturati, ma il divario
tra “grandi” e “piccoli” non era tanto accentuato come oggi. E’ evidente
che, ampliandosi la torta dei ricavi con l’entrata in campo delle telvisioni
private, fette sempre maggiori sono andate alle società più ricche.
Se esaminiamo, come esempio, la prima annata in cui il pagamento dei
diritti televisivi cominciò ad impennarsi, vale a dire quella successiva ai
mondiali italiani dell’estate 1990, troviamo che il divario fra il fatturato
complessivo della squadra più ricca (il Milan) e quello della più povera (il
Cesena) era di quasi 5 volte. Nella stagione 1990-1991 i rossoneri
incassarono 66,3 miliardi di lire contro i 13,8 dei romagnoli.
In poco più di un decennio questa “forbice” si è più che raddoppiata,
raggiungendo un valore pari a 11,2: nell’esercizio 2002-2003 la società più
ricca (la Juventus) ha fatturato 218,32 milioni di euro, la più povera
(l’Empoli) appena 19,5.
Ma la vera “mutazione genetica” resta quella dei fruitori dell’evento-calcio.
Gli spettatori da stadio sono stati declassati, per i bilanci delle squadre, al
ruolo di “clienti secondari”, sostituti nel ruolo di “clienti primari” da
sponsor e televisioni.
«Sta in questi dati la mutazione genetica: la perdita di importanza dei tifosi
da stadio è stata controbilanciata dall’ascesa alla ribalta di quelli da salotto,
che costituiscono il cosiddetto “bacino d’utenza allargato”. Ma questi ultimi
non sono più “clienti” della società di calcio, bensì della televisione criptata
a cui pagano l’abbonamento per il campionato. E, addirittura, i tifosi da
salotto del calcio in chiaro, quello gratuito, non sono mai stati clienti: senza
saperlo, sono proprio loro il prodotto venduto, visto che la Tv commerciale
gratuita ottiene i propri ricavi dagli inserzionisti pubblicitari, che sono
dunque i suoi veri clienti. E qual è il prodotto venduto? Sono i telespettatori
che assistono alla partita, ai quali gli inserzionisti pubblicitari possono
7
propinare i loro “consigli per gli acquisti”».
1.4.1. Lievitano i fatturati, esplodono gli indebitamenti: le plusvalenze e
il decreto spalmadebiti
La concezione del calcio come business porta a snaturare del tutto la
filosofia di gestione aziendale “sana” che aveva caratterizzato la storia dei
club – in linea di massima – sino a tutti gli anni Ottanta. La regola di una
7
Napolitano, Liguori, Il pallone nel burrone, Editori Riuniti, 2004.
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certa proporzione fra introiti e uscite salta del tutto. Il vero circolo vizioso si
instaura con l’incremento continuo dei fatturati e l’aumento esponenziale
del “costo del lavoro”, ovvero gli stipendi pagati ai giocatori più famosi,
l’acquisto del loro cartellino, le percentuali versate ai loro procuratori.
Significativi esempi di gestione dissennata possono essere l’Inter e la Lazio,
società per le quali, nella stagione 2001-2002, le entrate complessive non
riuscirono nemmeno a coprire gli stipendi dei rispettivi tesserati. L’Inter era
arrivata a versare per emolumenti il 108.42% del fatturato, la Lazio il
108.24%.
Nella stagione 2002-2003 Juventus e Milan non hanno duellato solo per
vincere il campionato e la Coppia dei Campioni, ma si sono sfidate anche
sino all’ultimo centesimo per vincere la speciale classifica del fatturato.
Nessuna società italiana aveva mai sfondato il tetto dei 200 milioni di euro
di ricavi complessivi: ci sono riuscite sia la Juventus (218 milioni) che il
Milan (200 milioni). Il resto delle formazioni di rango si sono dovute
accontentare di guardare da lontano questa marea di ricavi: l’Inter ha chiuso
il fatturato a 163 milioni di euro, la Roma a 134, la Lazio a 100. Le
formazioni minori si sono dovute accontentare di fatturati compresi fra i 19
e i 30 milioni di euro.
Tutte queste storture hanno provocato una crescente situazione di collasso
del sistema economico-finanziario, accrescendo a dismisura il numero dei
bilanci societari chiusi con passivi più o meno pesanti. I conti in rosso della
gestione ordinaria della serie A è cresciuto dai 150 milioni di euro della
stagione 1995-1996 ai 222 del ’97-’98, ai 406 del ’99-2000, ai 710 del
2000-2001. Sino ad assestarsi, nei bilanci chiusi al 30 giugno 2002, alla
quota di 900 milioni di euro.
Conti che sarebbero stati ancora più drammatici se, in molti casi, i bilanci
delle società non fossero stati “addomesticate” applicando il geniale
artifizio contabile delle “plusvalenze” fittizie. In realtà il concetto di
“plusvalenza” occupa un ruolo importante nel diritto commerciale e
societario, e non rappresenta una frode. Esemplificando al massimo, se
acquisto un oggetto a 50 e lo rivendo a 200, avrò realizzato un guadagno,
cioè una plusvalenza, pari 150; in realtà, se nel frattempo ho anche
utilizzato quell’oggetto, sfruttandone parte del suo valore, potrò iscrivere
nella contabilità aziendale quel valore d’uso alla voce “ammortamenti”.
L’oggetto, dopo l’uso, non varrà più 50 come quando era nuovo, ma 30: e
dunque rivendendolo a 200 la plusvalenza sarà di 170.
Nel mondo del calcio le plusvalenze esistono da sempre. Quando esse erano
“reali”, si concretizzavano nella politica delle società minori, impegnate ad
allevare in casa campioni in erba che, una volta cresciuti, venivano trasferiti
alle società più grandi facendo affluire nelle casse del club proprietario
ingenti somme di danaro liquido. Agli inizi degli anni Novanta, anche i
grandi club calcistici si accorsero del fascino contabile della plusvalenza,
incalzati dal progressivo deterioramento dei bilanci, dall’aumento dei costi
e dall’impossibilità di presentarsi al cospetto del “mercato” con cifre in
rosso. Essendo ovviamente impossibile realizzare plusvalenze a senso
unico, il vero colpo di genio fu quello di mettere in atto le cosiddette
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“plusvalenze incrociate”, dando origine ad un frenetico scambio di giocatori
fra le varie società con quotazioni assolutamente al di fuori degli ordinari
parametri di valutazione.
Meri artifici contabili, come si diceva in precedenza, che non arrecavano
nessun beneficio tangibile alle casse delle società, ma contribuivano ad
alleggerirne i bilanci alla voce “perdite”. L’operazione è semplice, ai limiti
dell’ovvio. La società “X” vende alla società “Y” il giocatore “Tizio” per
un miliardo, ma acquista dalla stessa società il giocatore “Caio”, sempre per
un miliardo. Ognuna delle due squadre ha realizzato una plusvalenza di un
miliardo, senza spostare materialmente nemmeno un centesimo, ma
iscrivendo in bilancio – grazie all’ipervalutazione del giocatore ceduto – un
introito “virtuale” che è ossigeno per i conti in rosso. I costi sostenuti per
l’acquisto, al contrario, non incidono direttamente sull’esercizio in cui è
stata realizzata la plusvalenza: trattandosi di beni ammortizzabili, essi
verranno ripartiti in più anni. Un giochetto contabile ripetuto all’infinito,
con un vortice di scambi in serie che non risparmia nessuna squadra e che
quasi sempre, quando è fittizio, riguarda giocatori a fine carriera o di nessun
impatto sul pubblico, prelevati dalle aree più marginali e misconosciute
della “rosa” – sempre molto ampia – della formazione.
Storicamente, la prima plusvalenza incrociata fittizia fra grandi squadre
risale alla stagione 1998-1999: lo scambio fu architettato da Lazio e Milan e
fruttò a ciascuna delle due società una plusvalenza di circa 10 miliardi di
lire. La Lazio cedette al Milan l’attaccante Alessandro Iannuzzi, il Milan
cedette alla Lazio il centrocampista Federico Crovari. Iannuzzi, arrivato a
Milano nel gennaio 1999 non giocò neppure un minuto, fu spedito sei mesi
dopo a Reggio Calabria e successivamente a Monza e Messina. Crovari
ebbe a Roma eguale destino: senza aver giocato mai in serie A, fu trasferito
a metà del 1999 a Treviso e l’anno seguente a Vincenza.
Si tratta, insomma, dell’esempio classico della plusvalenza fittizia
incrociata: uno scambio senza nessuna finalità tecnica e realizzato a prezzi
enormemente superiori alla valutazione corrente dei giocatori coinvolti. Da
allora, la politica degli “scambi” è proseguita con una escalation
inarrestabile, nel frenetico – quanto vano – tentativo di porre un argine,
almeno virtuale, alle voragini contabili dei bilanci societari.
A conferma della valenza crescente del pianeta-calcio nel costume
nazionale e della sua importanza sotto l’aspetto economico, va citato il
decreto legge approvato d’urgenza dal Governo Berlusconi nel dicembre
2002, poi convertito in legge dal Parlamento il 21 febbraio 2003. Il decreto
– significativamente definito dai mezzi di informazione “spalmadebiti” -
nasce in virtù delle pressioni esercitate da tutti i grandi club di serie A e di
serie B, allarmati dal progressivo deflagrare delle proprie perdite di
bilancio. La nuova norma consente di calcolare nuovamente il valore del
patrimonio calciatori, ovvero il valore dei diritti di utilizzo delle loro
prestazioni. La differenza fra la cifra iscritta a bilancio e il nuovo calcolo
genera ovviamente una perdita, considerati gli eccessi nelle valutazioni
all’atto degli acquisti: ma tale perdita non deve essere più contabilizzata
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interamente nell’esercizio in cui essa affiora, bensì può essere “spalmata”
nell’arco di dieci anni.
Una sorta di “falso in bilancio legalizzato”, come ebbe a definirlo il prof.
Victor Ukmar, uno dei maggiori tributaristi italiani nonchè ex presidente
della “Co.vi.soc.”, la commissione di vigilanza sulle società di calcio.
Una norma che ha sollevato anche l’interesse della Commissione europea:
nel novembre del 2003 è stata formalmente aperta la procedura d’infrazione
contro l’Italia. Infrazioni sono state ipotizzate sia dal Commissario alla
concorrenza, Mario Monti, che da quello al mercato interno, Frits
Bolkestein, mettendo sotto accusa l’irregolarità degli aiuti di Stato, non
consentiti dalla normativa comunitaria, e la violazione del codice civile
quanto al modo di redigere i bilanci.
1.5. L’AUTODIFESA DEL MONDO DEL CALCIO ED IL CALCIO
DEI TIFOSI
Sommerso dagli scandali (col ciclico riproporsi del fenomeno del calcio-
scommesse), dai sospetti (l’inchiesta della magistratura torinese sul doping
è tuttora in corso), dai bilanci in rosso e dalle bizze di campioni super-
pagati e super-sfruttati, anche il calcio ha deciso di lanciare la sua offensiva,
proponendosi agli occhi dell’opinione pubblica come un’azienda “sana e
florida”, che produce ricchezza e prosperità.
Alla metà di maggio del 2004 la Federcalcio ha presentato ufficialmente
un’indagine commissionata alla società di analisi e consulenza Deloitte dal
titolo “Il calcio: lo sport e il business”. L’indagine fotografa il mondo del
calcio fornendo cifre e percentuali. Secondo gli analisti di Deloitte il calcio
interessa ben 77 italiani su 100 (44 milioni di persone), genera un volume di
affari di circa 6 miliardi di euro l'anno, fattura 6 volte il cinema (1 miliardo
l'anno), 4 volte la musica (1,5 miliardi), piu' di 20 volte il teatro (284
milioni), settori che peraltro sono sovvenzionati dallo Stato mentre il
mondo del pallone porta all'erario 1,2 miliardi di euro, senza beneficiare di
nessun finanziamento pubblico.
Di contro, il calcio alla data del 30 giugno 2003, presenta un risultato netto
negativo per 524 milioni di euro per quanto riguarda la Serie A e di 96
milioni per la serie B. Secondo lo studio commissionato dalla Federcalcio,
non c'e' nessun altro settore in Italia che interessa la popolazione come il
calcio.
Le cifre esibite a sostegno di questa tesi sono, del resto, eloquenti: 31
milioni di tifosi, 9 milioni di lettori di quotidiani sportivi, 4 milioni di
praticanti, 3.900.000 di telespettatori medi per gara, 23 milioni che seguono
le rubriche calcistiche tv, oltre 14,5 milioni di pubblico negli stadi, 710.000
partite l'anno, stando ai dati 2003.
Gli oltre 6 miliardi di euro di business generato dal mondo del pallone
dipendono per 3,8 miliardi dall'indotto diretto e per 2,5 dall'indotto
derivato. Tra le voci, 1.550 milioni da scommesse e schedine, 264 milioni
dall'acquisto di giornali sportivi, 312 milioni da biglietti e abbonamenti, 642
milioni dai diritti tv, per restare nei ricavi diretti. E poi, 334 milioni per il
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merchandising, 599 per l'affitto di impianti, 1.168 per trasporti e servizi, per
i ricavi indiretti.
Allo Stato, il pallone rende 1.226.926 milioni di euro, tra cui 886.038 di
ricavi diretti (Irpef, Irpeg, Irap, Iva, ecc.) contro soli 33.623 euro di costi
come l'impiego delle forze dell'ordine. Nel raffronto con le altre attività di
intrattenimento, il divario è evidente. Il cinema con 35 milioni di italiani
interessati genera un business di 1 miliardo di euro ma riceve finanziamenti
statali per 125 milioni di euro. Il teatro vanta oltre 15 milioni di presenze
ma il suo business e' di soli 284 milioni ed il finanziamento pubblico e' di
129 milioni di euro. La musica ha 12,5 milioni di acquirenti ed incassa 1,5
miliardi di euro con finanziamenti a fondo perduto per 328 milioni. In
sostanza, il calcio genera un giro d'affari pari al 70% del totale dei quattro
segmenti.
Secondo i dati “Sinottica” del 2002/2003 i due profili del tifoso che “segue
abitualmente il calcio in tv” e di quello che “assiste dal vivo a partite di
calcio” sono prevalentemente maschili, anche se le donne costituiscono una
buona percentuale come telespettatrici (21%), più che come tifose allo
stadio (18%).
I due profili sono inoltre uniformemente distribuiti sul territorio e, pur
essendo presenti in tutte le fasce d’età, sono maggiormente concentrati tra i
giovani e i giovani/adulti, soprattutto nelle fasce d’età tra i 25 e 54 anni.
Gli appassionati di calcio di entrambi i profili si concentrano inoltre nelle
classi medie d’istruzione, reddito e condizione socioeconomica.
Ma i tifosi sono naturalmente anche dei consumatori poichè non solo
spendono il loro denaro per guardare le partite alla tv o per comprare i
biglietti dello stadio, ma perchè contribuiscono al giro d’affari del calcio
attraverso le diverse attività commerciali svolte dalle società calcistiche
quali il merchandising, i prodotti editoriali, ecc.
Sempre secondo i dati “Sinottica” i consumatori di calcio italiani sarebbero
in maggioranza uomini (64%) di una fascia d’età compresa tra i 35 e i 44
anni (18%). Si nota comunque come le donne, nel ruolo di consumatrici
“del pallone”, abbiano più potere e rilevanza rispetto al ruolo di tifose (36%
dei consumatori): non è certo un caso che in questa ultima stagione
calcistica 2003/2004 società come la Juventus abbiano puntato decisamente
con i loro partner commerciali – prima fra tutte la Nike – ad attività di
marketing e merchandising volutamente ed esplicitamente rivolte al
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pubblico femminile.
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1.6. BREVE STORIA DEL MILAN
Il Milan Cricket and Football Club nasce il 18 dicembre 1899 nel corso di
una riunione alla Fiaschetteria Toscana di Via Berchet, ad opera
dell’inglese Herbert Kilpin, vero pioniere del calcio italiano, e di un
composito gruppo di appassionati anglo-italiani. Il battesimo ufficiale alla
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Esempi eclatanti sono l’utilizzo, come seconda maglia della squadra, della storica casacca
juventina color rosa, per incontrare maggiormente i gusti del sempre crescente pubblico
femminile; e l’introduzione nel catalogo merchandising della società torinese di una linea di
prodotti “Juve Girls”.
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Per tutto il capitolo fonte: Valitutti F., Breve storia del grande Milan, Newton, 1996.
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Comunicazione e prodotti editoriali nel mondo del calcio: i casi di Milan e Inter Simone Cometti 150540
nuova formazione viene dato il 15 gennaio del 1900: presidente del
sodalizio è l’inglese Alfred Edwards, campo di gioco è il Trotter, un’area
senza recinzione e senza porte dove qualche anno più tardi sarebbe sorta la
Stazione Centrale.
Il Milan fa il suo debutto l’11 marzo 1900, sconfiggendo per due a zero i
“cugini” della Mediolanum, formazione milanese antecedente al Milan ma
frenata da pesanti ristrettezze finanziarie.
Nell’arco di tempo fra le due guerre mondiali il Milan sopravvive a stento,
adeguandosi alle difficoltà organizzative e pratiche che tutto il calcio
italiano deve sopportare. Il 19 settembre del 1926 viene inaugurato lo stadio
di San Siro, fortemente voluto dal presidente rossonero, Piero Pirelli, nobile
e generosa figura di mecenate, impegnato allo spasimo per dare al sodalizio
milanese una struttura solida ed una formazione competitiva.
Ma l’ossatura della formazione comincia a compiersi solo nei primi anni
Cinquanta. Nel ’49 debutta in rossonero Gunnar Nordhal, calciatore svedese
dal fisico eccezionale e dalla straordinaria potenza di gioco. L’anno
seguente Nordhal è raggiunto dai connazionali Gunnar Gren e Nils
Liedholm: il trio – ribattezzato dai tifosi Gre-No-Li – regala al Milan una
invidiabile solidità e una ineguagliabile fecondità in attacco. Puntuale, nel
campionato 1950-1951, arriva lo scudetto rossonero.
Gli anni Sessanta portano il Milan sul tetto dell’Europa calcistica,
conquistando in un decennio due Coppe dei Campioni, una Coppa delle
Coppe, una Coppa Intercontinentale, una Coppa Italia e due scudetti. Si
affacciano alla ribalta figure leggendarie nella storia del sodalizio
rossonero: il portiere Ghezzi, il difensore Giovanni Trapattoni, il
giovanissimo trequartista Gianni Rivera, i difensori Gigi Radici e Cesare
Maldini, l’estroso Josè Altafini.
Gli anni Settanta segnano la conquista del decimo scudetto, raggiunto nel
campionato ’78-‘79 sotto la guida di quel Nils Liedholm rivelatosi non solo
abile giocatore ma anche allenatore esperto e buon conoscitore degli uomini
in campo.
Il 1980 si apre col ciclone del calcio-scommesse, che colpisce duramente il
Milan: il presidente Felice Colombo finisce in manette e il Milan viene
retrocesso in serie B. Il “purgatorio” dura sino al 1983, quando il Milan
torna stabilmente in serie A dopo due campionati in “altalena” (una
promozione in A e una successiva retrocessione in B). Nel 1986 un nuovo
scandalo rischia di travolgere la struttura societaria: il presidente Giussy
Farina, oberato da un “buco” societario di svariati miliardi si invola
all’estero, scegliendo l’esilio dorato del Sudafrica (stessa cosa aveva fatto,
negli anni Sessanta, un altro presidente rossonero, il finanziere Felice Riva,
che aveva scelto come suo luogo di fuga il Libano).
Lo scandalo-Farina apre di fatto l’ingresso del Milan nell’èra-Berlusconi:
l’imprenditore milanese – all’epoca già attivo nel campo dell’edilizia
residenziale e delle televisioni commerciali – assume la presidenza dei
rossoneri e vara un programma di potenziamento sul medio periodo avviato
con il “pensionamento” del tecnico Liedholm e l’arrivo a Milano di un
giovane tecnico di Parma, all’epoca sconosciuto: Arrigo Sacchi.
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