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INTRODUZIONE
Al termine di un percorso accademico durato due anni, durante i quali si è parlato
prevalentemente della marca e dei valori ad essa legati, sembrava quasi necessario
porsi alcune domande di fondo. Per esempio, come possono fare politiche di
branding, o comunque parlare di valore simbolico, aziende che producono beni ad
alta sostituibilità, o prodotti valutati quasi esclusivamente per i loro benefit oggettivi?
E’ comunque possibile creare una relazione duratura tra questi brand e il
consumatore? E ancora, esiste una caratteristica comune, una costante, tra tutte
quelle marche che nonostante la natura dei propri prodotti sono comunque riuscite
nello scopo? Lo scenario preso in considerazione quindi, nella lettura di questa tesi,
è quello nel quale si muovono tutte le imprese che, volendo fare politiche di brand
management, debbano anzitutto fare i conti con la natura stessa dei propri prodotti.
E, concentrandosi più sulla comunicazione di impresa che non su altri aspetti del
marketing mix, cercare di capire quali siano i migliori strumenti per raggiungere
questo scopo. La scelta di focalizzarsi poi sul solo settore del food and beverage è
stata consequenziale per tre motivi. Anzitutto era necessaria una “riduzione”
dell’ambito nel quale lavorare, visto che una tesi sui soli strumenti del communication
mix declinati nel largo consumo rischiava di essere fin troppo articolata, o peggio
ancora, fin troppo generica e superficiale. Un secondo motivo è stato dettato dalle
caratteristiche stesse del settore. La comunicazione di marca nasce infatti proprio nel
settore dei beni alimentari,
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per poi arrivare via via a tutte le categorie merceologiche.
Non solo le grandi marche alimentari investono decisamente di più in pubblicità
rispetto ad altre aziende operanti in altri settori, ma anche le piccole imprese
utilizzano, in un modo o in un altro, diverse forme di comunicazione. L’ultimo motivo,
sicuramente il più importante, è stato il semplice interesse personale verso
l’argomento. L’obiettivo a monte del lavoro dunque è quello di rappresentare uno
spaccato della comunicazione nel food and beverage in tutte le sue sfaccettature.
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Emanuele Garibaldi, Food. Sette casi di comunicazione di brand alimentari, FrancoAngeli, 2010.
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E insieme ad esso, cercare di capire se esista un legame tra l’uso di particolari
strumenti di comunicazione, diversi da quelli convenzionalmente usati dal comparto,
ed il successo aziendale; se le grandi industrie alimentari poi siano in grado di
“segnare un tracciato”, di fare da pionieri per le più piccole, oppure se un certo tipo di
comunicazione sia solo prerogativa delle prime.
Prima di descrivere lo scenario nello specifico però, è necessario fare una
panoramica generale sull’ambiente in cui si trovano ad operare oggi tutte le imprese.
E’ parere di molti che di fronte agli evidenti – ed estremamente veloci - cambiamenti
in atto, tante imprese e tanti professionisti che si occupano di comunicazione
d’impresa fatichino a cambiare i propri atteggiamenti; questo ovviamente non è vero
per tutti, anzi, per fortuna le felici eccezioni sono innumerevoli. E’ anche vero tuttavia
che se si guarda alle aziende più piccole, il ruolo della comunicazione viene spesso
sottovalutato. Spesso se questa non porta ritorni economici nel breve periodo per
esempio, il costo che questa comporta viene considerato più che sacrificabile.
Risulta quindi necessario oggi distinguere fra la comunicazione intesa come mezzo
per arrivare ad immediati ritorni economici e la stakeholder care, concetto che va al
di là dei singoli strumenti del communication mix e che oggi si sviluppa intorno alle
relazioni tra l’impresa e l’ambiente ad essa circostante. Il consenso e la
legittimazione (sia economica che sociale) infatti non possono che essere valutati nel
lungo periodo, al termine di un percorso e di un agire coerente costruito attraverso
l’uso composito di più strumenti e di più variabili. Il primo capitolo dunque pone
l’accento sui fattori che hanno influito sul cambiamento del mercato, sul ruolo della
marca e, soprattutto, sul ruolo della comunicazione.
Fatta una breve introduzione sui cambiamenti in atto quindi, verrà fatto un accenno
agli strumenti del communication mix che oggi il settore del food and beverage – così
come tanti altri – ha a disposizione. Per dare coerenza al lavoro, e per ricollegarsi al
capitolo uno nel quale saranno presenti alcuni cenni relativi al sovraffollamento dei
messaggi veicolati dai media classici, non sono stati analizzati e descritti strumenti
come l’advertising, il packaging, le fiere di settore o i comunicati stampa, che sono
già prerogativa di tutta la comunicazione del comparto. Una descrizione articolata di
tutti gli strumenti del communication mix poteva altresì risultare troppo dispersiva; per
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questo quindi non verranno presi in considerazione tutti i mezzi che ha a
disposizione un’impresa per comunicare, ma solo quelli “alternativi” e più ricchi di
spunti. Si parlerà poi delle nuove relazioni che l’impresa può instaurare con i
consumatori attraverso il rapporto diretto (pubblic relations), o grazie ai luoghi per la
distribuzione fisica del prodotto, come gli store; si farà accenno alle nuove tecnologie
digitali, al marketing non convenzionale e agli strumenti attraverso il quale l’azienda
può oggi comunicare i propri valori e la propria “visione etica”.
La seconda parte del lavoro verte sui consumi e sulle tendenze del settore. Si parlerà
quindi di food system, ovvero della destinazione alimentare del cibo; al sistema agro-
alimentare vero e proprio, “l’insieme della attività di produzione e distribuzione dei
beni e servizi intermedi per l’agricoltura, dalle attività di produzione delle aziende
agricole, al magazzinaggio, alla trasformazione ed alla commercializzazione dei
prodotti dell’agricoltura e dei beni di origine agricola, […] in sintesi, il complesso delle
attività collegate a valle a monte con l’attività agricola”
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verrà solamente fatto cenno
quando si parlerà dei dati relativi alle materie prime per esempio, o al fatturato del
settore.
Il terzo capitolo quindi sarà improntato quasi esclusivamente sulle tendenze del
settore, sia quelle economiche, sia quelle relative alle dinamiche di consumo. Verrà
preso in considerazione quanto sta accadendo nel nostro paese, e si cercherà di
capire il rapporto che intercorre tra la crisi dei consumi, che sta colpendo tutti i
settori, e quanto accade nel solo comparto del food and beverage. Nell’ultima parte
del capitolo infine si analizzerà il modo di comunicare del settore; anche in questo
caso, volendo evitare la descrizione di ogni strumento usato da ogni tipo di azienda
del comparto (dalle grandi multinazionali ai piccoli produttori), sarà presentato un
modus-operandi generico utilizzato dalla maggioranza degli esperti e delle imprese,
in modo tale da creare un fil rouge che si ricolleghi a quanto detto in precedenza.
Nel quarto capitolo verrà presentata un’intervista a Daniele Vinci, consulente con
esperienze nell’ambito del marketing e dei social media. L’intervista a Vinci, che può
considerarsi a pieno titolo un esperto di settore in quanto ideatore e responsabile del
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Luciano Pilati, Marketing agro-alimentare, Uni Service, 2004, p. 187.
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network di consulenza on line Comunikafood, è stata raccolta quando la stesura
della tesi era oramai completata. L’obiettivo infatti era proprio quello di confrontare il
parere di un esperto con quanto elaborato durante i mesi di lavoro; cercare di capire
insomma se esista un collegamento tra i paradigmi teorici, e quindi l’uso degli
strumenti elencati in precedenza, ed il successo di alcune politiche aziendali.
E proprio uno studio su alcune politiche d’impresa costituisce il focus vero e proprio
della tesi. Benchè siano completamente eterogenei fra di loro, e si riferiscano tutti a
grandi gruppi multinazionali che, potendo contare su maggiori risorse, possono
quindi sperimentare alcuni degli strumenti più innovativi, tutti i casi analizzati
nell’ultimo capitolo hanno in comune due fattori. Anzitutto tutte le imprese in
questione hanno messo a punto queste strategie in Italia; come per il capitolo
precedente la scelta è stata fatta per circoscrivere l’argomento ad un realtà il più
possibile vicina alla nostra. In secondo luogo, tutti i casi sono unici nella loro specie,
e hanno riscosso un notevole successo, se non quantificabile a livello economico
(alcuni casi sono recentissimi), sicuramente a livello di immagine presso gli addetti al
settore e la stampa.
Un ultimo accenno va infine fatto alla bibliografia. Riprendere in mano alcuni dei
manuali utilizzati in questi due anni di corso è stato necessario più che doveroso,
soprattutto per la stesura dei primi due capitoli. Per quanto concerne l’analisi del
settore del food and beverage, la selezione su quali testi usare è andata “a ritroso”,
partendo cioè da testi di natura generale sull’argomento sono stati via via selezionati
quelli più specifici. Nonostante alcuni siano, considerato l’argomento, piuttosto
“datati”, gli spunti d’interesse non sono mancati. Più complessa la letteratura
riguardante i casi aziendali, che sono stati analizzati quasi esclusivamente grazie ad
alcune fonti reperite in rete.
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Capitolo uno
I cambiamenti in atto
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IL RIEQUILIBRIO DEL MERCATO
John Kennet Galbraith, uno fra i più celebri ed influenti economisti del secolo scorso,
provò a descrivere il mercato attraverso un semplice modello, che illustra quella da
lui definita “teoria dei poteri controbilanciati”. In questo modello i diversi portatori di
interesse, ovvero le aziende, i distributori e i consumatori, venivano rappresentati
attraverso un triangolo equilatero. Nonostante tutti i soggetti avessero interessi
contrastanti, erano comunque dotati dello stesso potere contrattuale. Nella realtà
delle cose il triangolo non è mai stato equilatero, perché il potere delle imprese è
sempre stato più forte rispetto a quello degli altri due soggetti: i produttori infatti
hanno sempre potuto godere di una posizione egemonica rispetto agli altri due attori
coinvolti.
Oggi invece assistiamo ad un cambiamento radicale, perché non solo il potere della
distribuzione e del consumatore stanno crescendo esponenzialmente, ma soprattutto
perché le imprese - in un contesto in cui i settori tendono a convergere, si sviluppano
nuove forme di intermediazione, cambiano i rapporti all’interno dei canali distributivi e
l’ambiente circostante si evolve in maniera rapida ed intensa - faticano a trarne le
dovute conseguenze. E a cambiare. Il lato del triangolo che rappresentava l’impresa
dunque è destinato oggi a ridimensionarsi fortemente. Giampaolo Fabris,
riprendendo nel suo libro Societing il pensiero di Walter Giorgio Scott, afferma che
“Stiamo assistendo sotto certi aspetti al ritorno dell’impresa mercante, cioè di quella
particolare organizzazione sviluppatasi sulla capacità di percepire i bisogni dei clienti
serviti e di individuare il modo più efficace e remunerativo per soddisfarli”.
Con questa affermazione
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Scott solleva diversi interrogativi. Anzitutto, cambia il
primo lato del triangolo, quello relativo alla distribuzione; e per capire meglio questo
cambiamento un’analisi della situazione interna al nostro paese è più che ideale.
La struttura distributiva in Italia è stata storicamente contraddistinta perché
frammentata e gestita prevalentemente da singoli individui.
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Walter Giorgio Scott, Il commercio elettronico. Nuovi rapporti tra imprese e mercati, Isedi, 1999.
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Fino a pochi anni fa poi poteva contare su un potere contrattuale estremamente
ridotto, così che le grandi marche hanno potuto imporre i propri prodotti alle
condizioni che più ritenevano favorevoli. Questa situazione anomala, che comunque
si è verificata quasi esclusivamente nei nostri confini, ha fatto si che le imprese,
trovandosi di fronte all’evidente debolezza contrattuale dei piccoli esercizi, abbiano
potuto crescere considerevolmente. Non è un caso infatti che a lungo in Italia i prezzi
per prodotti delle stesse marche fossero più elevati di quelli di altri paesi. Una
seconda conseguenza di questa situazione è stata lo svilupparsi di una struttura
distributiva tanto debole da tener a lungo le grandi multinazionali lontane dal nostro
mercato.
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Nel corso degli ultimi trent’anni però la situazione è andata rapidamente evolvendo
perché l’ingresso dei grandi sistemi distributivi ha ormai colmato il gap tra noi ed il
resto d’Europa. Ma soprattutto oggi la GDO ha sviluppato un tale potere economico
da poter proporre le proprie marche di insegna. Nell’ottobre del 2010, in un incontro
all’università IULM
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, Luca Barilla, vice presidente dell’omonimo gruppo parmigiano,
disse che proprio una delle maggiori difficoltà per le imprese agro alimentari oggi è
quella di contrastare le marche d’insegna, capaci di riprodurre gli stessi prodotti dei
grandi brand a prezzi decisamente inferiori (questo, dichiarò lo stesso Barilla, a
discapito della qualità dei prodotti). Un ulteriore e fondamentale cambiamento, che
finora ha toccato solo marginalmente il settore alimentare, è stato l’ingresso nel
nostro paese della grandi catene operanti in tutte le parti della filiera. In due dei
settori più importanti del Made in Italy, la moda e l’arredamento, è già avvenuto. Le
grandi catene come Ikea, Zara, e H&M hanno avuto un successo incredibile anche
nella nostra penisola, e dopo McDonald e Burger King potrebbe passare poco tempo
prima che grandi multinazionali come Pizza Hut o Starbucks entrino
prepotentemente nel nostro mercato, imponendosi con i propri marchi.
La distribuzione comunque non ha eliminato del tutto i negozi al dettaglio. Al
contrario invece, il netto ridimensionamento nel numero dei punti vendita ha
comportato un forte miglioramento delle strutture al dettaglio più intraprendenti:
quelle che sono riuscite a resistere alla concorrenza della GDO hanno sviluppato
infatti forme di imprenditorialità fino a qualche anno fa inimmaginabili. Sempre per
rimanere nel food and beverage, si pensi per esempio a tutti i negozi che vendono
prodotti alimentari di alta gamma
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, come i prodotti tipici locali importati. Il nuovo
canale on line poi, se è vero che per alcuni sta costituendo una vera e propria
minaccia, per altri sta rappresentando un’opportunità di crescita unica.
4
L’incontro, L’imprenditore come persona: valori e sentimenti. Barilla raccontata da Luca Barilla, si tenne
nell’ambito del Corso di Laurea Magistrale in Strategia e Comunicazione della Marca, Moda e Design, il 13
ottobre 2010.
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Per un approfondimento, si veda l’articolo di Alex Guzzi La sfida di Eat’s, pubblicato sul Corriere della Sera il 9
settembre 2011.
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E’ importante ricordare infine che oggi il punto vendita, ed in generale gli spazi di
interazione diretta con il consumatore, stanno assumendo un ruolo nuovo e decisivo,
e rappresentano, come vedremo più avanti, un modo quasi rivoluzionario di
comunicare. Non sono state tante finora le imprese che sono riuscite a gestire in
modo vincente i luoghi fisici della distribuzione del proprio prodotto. Nel riassetto dei
rapporti di forza infatti la conoscenza del consumatore è andata via via spostandosi,
tant’è che oggi molti distributori hanno le stesse capacità di segmentazione,
sviluppate grazie allo screening e al sistema delle fidelity card (questo è un mezzo
imprescindibile per la GDO), che hanno le imprese. Fino a qualche anno fa erano i
produttori a fornire ai distributori tutti i dati sugli acquirenti finali: oggi le ricerche di
mercato che conducevano le imprese non risultano altrettanto efficaci come i sistemi
di segmentazione utilizzati dai distributori.
Il terzo soggetto presente sul mercato poi, che al pari dei distributori sta aumentando
esponenzialmente il suo potere contrattuale riequilibrando il modello sviluppato anni
fa da Galbraith, è proprio il consumatore. Se è vero che, soprattutto nel nostro
paese, le associazioni di categoria rivestono un ruolo sempre meno importante,
perché manca una vera e propria rappresentatività e perché mancano tradizioni di
lotte riscontrabili negli altri paesi occidentali (le azioni di boycott e buycott sono molto
più comuni ed incisive, per esempio, nel mondo anglosassone) è anche vero che il
consumatore sta sviluppando una conoscenza sui singoli prodotti
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più approfondita e,
più in generale, sta capendo meglio le dinamiche del macrocontesto dell’offerta.
Ma se sul piano teorico è un dato di fatto che il consumatore debba essere
considerato sempre più “centrale” nei rapporti di scambio, su quello pratico le
imprese faticano ad accettarlo. Il consumatore è divenuto nel corso degli anni più
competente, più esigente e più informato, ma le strategie di marketing e
comunicazione sembrano le stesse di un tempo: ci si rapporta ancora con un target
passivo e spaesato, pronto a perdersi nel mondo del consumismo e della marca.
Si potrebbe dire che oggi il consumatore subisca meno il fascino dell’offerta e abbia
capito come agire, quali informazioni raccogliere e, “di chi fidarsi”. Il rapporto fra
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Don Tapscott, Anthony Williams, Wikinomics, Etas, 2007.
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domanda e offerta è notevolmente cambiato dunque, con quest’ultima che è
cresciuta a livelli esponenziali sia perchè il mondo della produzione, in linea
generale, risulta più competitivo, sia perchè il sistema distributivo (luogo privilegiato
per l’esperienza di consumo) risulta, come detto poco sopra, decisamente più forte
rispetto a qualche anno fa; e, soprattutto, perchè oggi il consumatore è quasi del
tutto indifferente alle politiche di marketing troppo aggressive. Tuttavia ad una prima
analisi il consumatore, nonostante risulti sì insoddisfatto dall’offerta – come
dimostrano alcune indagini di mercato - non è diventato comunque antagonista al
consumo. Sembra che la teoria di Galbraith, da sempre considerata solo un modello
teorico distante dalla realtà dei fatti, a quasi un secolo di distanza sia diventata
applicabile al mercato che vediamo oggi. L’impresa potrebbe ritrovarsi, dopo anni di
potere incondizionato, a lato più corto del triangolo equilatero.