migliorata. L’esposizione dei risultati della ricerca verrà suddivisa in tre
parti.
La prima, rivolgerà l’attenzione al punto di vista di alcuni mass
media sulla sicurezza. Questi, infatti, rivestendo l’importante ruolo di
riproduttori della società, forniranno una prima immagine della città e
della sua sicurezza, attraverso l’analisi degli argomenti di cronaca da
loro trattati.
La seconda parte analizzerà il punto di vista dei cittadini su questo
argomento, attraverso alcuni sondaggi che, oltre a fornire le loro dirette
testimonianze in merito, evidenzieranno le problematiche che sono fonti
di maggior disagio ed insicurezza.
La terza parte prenderà in esame, invece, alcune istituzioni
direttamente coinvolte nella gestione della sicurezza; al fine di
acquisirne le varie opinioni, esaminare la loro strutturazione, ed
analizzare i meccanismi che esse adottano per far fronte alle varie
problematiche.
Dal confronto delle tre analisi, si procederà a verificare se
l’immagine della sicurezza percepita dai cittadini viene condizionata o
meno dal processo di selezione e filtraggio delle notizie, diffuse dai
media e dagli organismi istituzionali preposti. Questo mostrerà, in linee
generali, l’attuale efficacia della comunicazione prodotta dalle varie
parti sociali e darà modo di proporre alcuni suggerimenti per un
eventuale miglioramento.
Questa ricerca, considerando la variabilità dei fattori in campo,
continuamente in evoluzione e di difficile definizione, non intende
proporre risposte definitive, né soluzioni facili, ma vuole apportare un
valido contributo scientifico, utilizzabile anche per studi futuri.
6
CAPITOLO I
NORME, DEVIANZA E CRIMINALITÀ
Da tempo in alcuni paesi, come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna,
la preoccupazione dei cittadini di fronte alla criminalità e alla
delinquenza viene presa in seria considerazione dagli studiosi e dai
ricercatori sociali, ne vengono analizzate le dimensioni, le ragioni, il
legame con le diverse forme di criminalità e di devianza. Nel nostro
paese tale interesse è ancora recente e, in parte, ancora guardato con
sospetto dagli studiosi, abituati a pensare che l’inquietudine dei cittadini
di fronte alla delinquenza sia frutto di timori irrazionali o comunque non
pienamente giustificati. Oggi si sa che anche nel nostro paese la paura
della criminalità ha una rilevante incidenza psico-sociale. Le dimensioni
di alcuni reati, che colpiscono direttamente gli individui e le famiglie,
sono aumentate sin dagli anni settanta e la minaccia alla propria
incolumità e il timore di perdere i propri beni costituiscono oggi timori
ricorrenti e diffusi nei cittadini.
È opportuno precisare che paura della criminalità o sentimento di
insicurezza sono espressioni usate, spesso, in modo ambiguo, in genere
per indicare due fenomeni che da tempo, nella letteratura internazionale,
vengono analiticamente tenuti distinti. Il primo (concern about crime) è
la preoccupazione, di ordine sociale, politico o anche morale per la
criminalità. Questo sentimento ha, in genere, a che fare con il grado di
partecipazione politica, l’adesione ad una determinata visione del
mondo, dei valori che la comunità dovrebbe perseguire e che lo Stato
dovrebbe incoraggiare. La paura della vittimizzazione (fear of crime) è,
7
invece, il timore che gli individui hanno di fronte alla possibilità di
subire un reato, per la propria incolumità personale o per i propri beni.
Entrambi i fenomeni si presentano distribuiti in modo diseguale
tra la popolazione Italiana, a seconda della zona in cui vive, del sesso,
dell’età, della collocazione sociale. Tuttavia, solo in parte queste due
dimensioni si sovrappongono e ciascuna può essere ricondotta a fattori
diversi. Le ricerche condotte in altri paesi hanno mostrato, infatti, che la
preoccupazione per la criminalità è più diffusa fra gli strati medio-alti
della popolazione, tra gli individui che occupano posizioni politiche
conservatrici e cresce nei periodi di rapido cambiamento sociale e
politico. La paura della vittimizzazione è in genere, invece, più diffusa
tra gli strati medio-bassi della società, ed è legata ai livelli di criminalità
o devianza del quartiere in cui si vive.
1.1 Definizione di devianza
È proprio delle società umane cercare di vivere in conformità alle
norme e ai valori sociali stabiliti, nonostante all’interno di ogni società
vi siano, come vi sono sempre esistiti, comportamenti, atti, pratiche e
credenze che si discostano dai valori condivisi o si pongono in contrasto
con le norme. Questi atti, pratiche, comportamenti o semplici credenze
sono dunque percepiti come una trasgressione o violazione e riscuotono
pertanto pubblica disapprovazione, in quanto vengono ritenuti in
qualche modo “devianti”.
“Devianza” è una parola che nel linguaggio comune viene usata
spesso e con un significato diverso da quello, tecnico e quindi più o
8
meno ristretto e negli intenti specifico, ad essa assegnato nell’ambito
delle scienze sociali. Nel linguaggio quotidiano essa indica tutto ciò che
è strano, anormale, patologico o illegale ed esprime una valutazione
negativa. Al contrario, gli studiosi di scienze sociali (i sociologi, gli
antropologi, gli psicologi, gli storici, i criminologi), che da molto tempo
fanno uso di questo termine, se ne servono in modo del tutto avalutativo
per descrivere e spiegare determinati comportamenti a carico di
individui o gruppi e le reazioni che questi suscitano nella società o in
certi suoi strati. Il compito di queste discipline non è di pronunciare
giudizi morali e politici sulle varie forme di devianza, ma di raccogliere
dati ed elaborare schemi interpretativi, che permettano di capire dove,
quando e perché tali forme si manifestano.
Tuttavia, anche tra gli studiosi di scienze sociali non vi è pieno
consenso sulla valenza ed estensione del concetto di “devianza”. Alcuni
ne danno una definizione ristretta, altri attribuiscono al concetto una
estensione molto più ampia. Per i primi, deviante è ogni comportamento
considerato inaccettabile dalla maggioranza della gente e che provoca
una risposta collettiva di carattere negativo (Tittle, 2000).
Per i secondi, la devianza è un atto, una credenza o un singolo
tratto che viola le norme convenzionali della società e che determina una
reazione negativa da parte della maggioranza delle persone (Googe,
2001).
Queste due definizioni appaiono molto simili. Per entrambe, la
devianza è qualcosa che nega un valore, viola una norma sociale o si
trova in contrasto con determinate aspettative. Per entrambe, affinché la
violazione di una norma, la negazione di un valore etc. possano essere
percepiti come tali è necessario che valori, norme e aspettative siano
9
condivise da un numero significativo di persone (o dalla maggioranza di
loro). Ancora, per ambedue le definizioni è appunto la maggioranza che
definisce qualcosa come inaccettabile, degno di disapprovazione e
passibile di condanna. Tra le due vi è però un’importante differenza, che
risiede nella portata del concetto e nella tipologia dei fenomeni che esso
comprende.
Per la prima, deviante può essere solo un comportamento. Ad
esempio: mangiare a tavola senza le posate, ruttare rumorosamente,
tradire il coniuge, rubare etc. Per la seconda, invece, deviante può essere
anche una credenza o un tratto comportamentale di una singola persona
o di un gruppo. Ad esempio: avere convinzioni opposte o semplicemente
diverse a quelle osservate della maggioranza, professare un’altra fede
religiosa o non averne nessuna; ovvero esibire delle anomalie fisiche,
quali il nanismo, l’obesità, la deformità, la cecità e la sordità.
Naturalmente, gli studiosi che propongono la seconda definizione
non intendono fornire una giustificazione alle discriminazioni di cui i
“devianti”, in questa accezione estesa, sono spesso vittime. Al contrario,
essi si limitano a rilevare che ciò si verifica e il loro compito specifico
consiste nello spiegarne il perché.
La nozione di devianza presuppone dunque l’esistenza di un
complesso di valori, di norme e di aspettative. Se la maggioranza delle
persone che compongono una comunità definisce inaccettabile un atto o
un tratto comportamentale o di una persona o di un gruppo, ciò è dovuto
al fatto che quella maggioranza condivide le stesse idee su ciò che è
bene e male, giusto o ingiusto, vero o falso, “normale” o deviante.
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1.2 Norme e contestualizzazione sociale della devianza
Il sociologo americano William Graham Summer ha distinto tre
diversi tipi di norme (Summer, 1962):
• Norme d’uso
• Norme morali
• Norme giuridiche
Delle prime fanno parte le norme riguardanti le “buone maniere”,
i modi di vestire, di stare a tavola, di mangiare, di interagire con gli altri.
Le aspettative condivise, su cui si basa la vita in società,
impongono ai propri componenti l’osservanza di alcune elementari
regole di comportamento in ogni segmento dell’interazione con gli altri.
Nell’ambito delle “buone maniere” ogni infrazione susciterà delle
reazioni ma le sanzioni che ne conseguiranno saranno informali e
relativamente prive di rigore. Assai più dure saranno, invece, le reazioni
di fronte ad una violazione delle norme morali: la menzogna, la
bestemmia o, ancora peggio, i comportamenti ritenuti osceni.
Come è noto alcune di queste regole coincidono nella sostanza
con precise norme giuridiche, allorquando ciò è stato deciso dall’autorità
politica (nel nostro Stato questa decisione è presa dal Parlamento). A
differenza delle altre, le norme giuridiche prevedono delle sanzioni
formali per chi le viola e vengono fatte rispettare da alcune istituzioni
statuali (Forze di Polizia e Magistratura).
Vi sono diversi tipi di norme giuridiche. Nell’ordinamento
italiano vi sono quelle che regolano i rapporti fra i privati (diritto
privato) e quelle riguardanti i rapporti fra i cittadini e lo Stato (diritto
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pubblico). Queste ultime possono essere divise in diversi sottotipi
(diritto amministrativo, finanziario, penale, etc.). Viene definito “illecito
amministrativo” un comportamento che viola gli obblighi imposti dalla
legge nei confronti della pubblica amministrazione (ad esempio, pagare
le tasse nella misura prevista) e che comporta una sanzione pecuniaria.
Viene invece definito “reato” un comportamento che viola una norma
del codice penale e che comporta una sanzione penale: la multa,
l’arresto e la reclusione.
Solo una piccola parte degli atti devianti costituisce un reato.
Mangiare senza posate o tradire il proprio partner non costituisce una
violazione del codice penale (che non vieta questo genere di
comportamenti), ma solo delle norme dell’uso (nel primo caso) o di
quelle morali (nel secondo). Per quanto precede, vengono pertanto
commessi degli atti devianti non classificabili come reato. Al contrario,
la grande maggioranza dei reati sono anche atti devianti, per quanto vi
siano e vi sono stati, in alcuni luoghi e in determinati periodi storici, dei
reati che non costituiscono o non costituirono atti devianti. In alcuni stati
americani, ad esempio, il gioco d’azzardo è vietato dal codice penale,
ma non viene considerato in modo negativo dalla maggioranza della
popolazione.
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1.3 La relatività della devianza
La devianza non è dunque una proprietà di certi atti o
comportamenti, ma una qualità che deriva dalle risposte, dalle
definizioni e dai significati attribuiti a questi dai membri di una
collettività (o dalla loro grande maggioranza). Questa idea era già stata
espressa molto bene da Émile Durkheim:
Non bisogna dire che un atto urta la coscienza comune perché è
criminale, ma che è criminale perché urta la coscienza comune. Non lo
biasimiamo perché è un reato, ma è un reato perché lo biasimiamo
(Durkheim, 1962).
Poiché le risposte della collettività variano considerevolmente
nello spazio e nel tempo, un atto può essere considerato deviante solo in
riferimento al contesto socio-culturale in cui ha luogo. La devianza può
essere definita relativa in tre diversi sensi (Cusson, 1996):
• In primo luogo, un comportamento può essere considerato deviante
in una situazione ma non in un’altra del tutto diversa. Nessuno, ad
esempio, può vietare ad un uomo e una donna consenzienti di
intrattenersi in intimità nella camera da letto della loro casa o di un
albergo. Ma se ciò avviene all’aperto, in un luogo frequentato, essi
rischiano, secondo l’articolo 527 del nostro Codice penale, di essere
denunciati e condannati (da un minimo di tre mesi ad un massimo di
tre anni) per atti osceni.
• In secondo luogo, un atto sarà considerato deviante a seconda del
ruolo di chi lo commette. L’omicidio è considerato un reato molto
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grave. Chiunque cagiona la morte di un uomo, recita l’articolo 575
del nostro codice penale, è punito con la reclusione non inferiore ad
anni ventuno. Vi sono però delle eccezioni. L’articolo 53 di questo
codice prevede che: “non è punibile il pubblico ufficiale che, durante
l’adempimento del proprio dovere, fa uso, oppure ordina di far uso
delle armi”.
• In terzo luogo, un comportamento considerato deviante in un paese o
in un dato periodo storico può essere accettato o addirittura
considerato positivamente in un altro paese o in un altro periodo
storico. In un libro molto famoso, Norbert Elias ha mostrato come in
Europa, nel Medioevo, chi mangiava senza posate, si soffiava il naso
con la tovaglia, sputava continuamente per terra, lasciava le urine e le
feci nei corridoi, non veniva considerato come un deviante, ma come
una persona assolutamente normale e che, a partire dal Cinquecento,
la situazione è cambiata con il “processo di civilizzazione” e le buone
maniere si sono progressivamente affermate in tutti gli strati sociali.
Analogamente, l’atteggiamento verso l’uso di alcool, del tabacco e
delle droghe è più volte cambiato nel corso del tempo (Elias, 1988).
D’altra parte, all’interno di uno stesso periodo storico vi sono
state e vi sono ancora oggi notevoli differenze fra i paesi riguardo alle
norme sociali. Ad esempio, in alcune zone della Cina mangiare i cani è
ritenuta un’abitudine adeguata, mentre la stessa pratica in Europa è
addirittura impensabile. Altro esempio è quello della poligamia. Nei
paesi africani, per un uomo avere due o tre mogli non solo è possibile,
ma è ritenuto anche un segno di appartenenza ad un ceto sociale agiato.
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In Italia, come del resto negli altri paesi occidentali, un comportamento
del genere è espressamente vietato dal codice penale, che all’articolo
556 prevede che: “chiunque, essendo legato da matrimonio avente effetti
civili, ne contrae un altro pure avente effetti civili, è punito con la
reclusione da uno a cinque anni”.
Questa concezione relativistica della devianza è stata sostenuta
con forza, negli ultimi trent’anni, da molti studiosi di scienze sociali. Ma
essa è altresì molto antica. “Nulla si vede di giusto e ingiusto che non
muti qualità col mutar del clima”, scriveva Blaise Pascal (Pascal, 1962).
È tuttavia sbagliato pensare che tutte le norme sociali e tutte le
forme di devianza siano relative. Le ricerche condotte nell’ultimo secolo
dagli storici e dagli antropologi hanno mostrato che, se è vero che il
modo in cui sono stati percepiti e giudicati alcuni comportamenti è
vietato, con notevolissime variazioni nel tempo e nello spazio, è
altrettanto vero che vi sono atti che, salvo rare eccezioni, sono stati
condannati sempre e comunque (Hoebel, 1973). Questi atti sono quattro.
Il primo è l’incesto fra madre e figlio, fra padre e figlia e fra
fratello e sorella. Si tratta di un atto universalmente proibito, con
rarissime eccezioni. La più famosa si è avuta nell’antico Egitto, dove il
matrimonio tra fratello e sorella era ammesso e persino incoraggiato
nelle famiglie degli strati sociali più elevati. Ma anche in questo caso le
nozze fra madre e figlio e fra padre e figlia erano vietate.
Il secondo è il furto ai danni di una persona del proprio gruppo.
Il terzo è lo stupro di una donna sposata.
Il quarto è l’uccisione di un membro del proprio gruppo.
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Però vi sono stati popoli, come ad esempio gli eschimesi, nei quali
l’infanticidio e l’uccisione di un genitore anziano erano ammessi.
Tutto ciò era giustificato da uno dei più importanti assiomi posti
alla base della cultura eschimese: la vita è difficile e il margine di
sopravvivenza è esiguo e da un corollario: i membri improduttivi della
società non possono essere mantenuti a spese dei membri attivi della
comunità stessa.
1.4 I tratti fisici del deviante
Come è stato detto sopra, per molti studiosi, devianti non sono
solo gli atti, ma anche le credenze e le anomalie fisiche. Queste ultime
possono essere di due tipi. Del primo fanno parte quei tratti che si
discostano dalle norme estetiche condivise in una comunità e che
riguardano l’altezza, il peso, i lineamenti, il colore della pelle e dei
capelli di una persona. Parimente devianti sono, i nani, gli obesi, gli
albini (che sono persone che soffrono di una mancanza di pigmentazione
della pelle, dei peli, dei capelli e dell’iride) o coloro che hanno il naso
deforme, il labbro leporino o vistose macchie o cicatrici nel volto. Nel
secondo tipo rientrano i limiti nella capacità di camminare, di vedere e
di udire. Devianti sono, in questo caso, gli infermi, costretti a vivere su
una sedia a rotelle, i non vedenti e i non udenti. Per lungo tempo, le
persone con queste anomalie fisiche sono state derise, isolate e
discriminate. In passato, i neonati deformi erano chiamati “mostri” (che
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deriva dal latino monstrum, segno divino, da monere, avvisare,
ammonire), in quanto considerati presagi di sventura e talvolta uccisi.
Molti consideravano le deformazioni fisiche alla stregua di una
punizione divina per qualche peccato sconosciuto. L’antico testamento
vietava l’ingresso nel tempio a chiunque mostrava i segni di tali difetti
fisici: “né un cieco né uno zoppo né uno che abbia mutilazione o
deformità, né un uomo che abbia difetto ai piedi o alle mani, né un
gobbo né un nano né uno affetto da malattia agli occhi o da scabbia o
da piaghe purulente o uno che abbia i testicoli difettosi” (Hobbes,
1989). Come già sottolineato, si temeva in particolare che un grave
difetto fisico fosse segno anche di colpe morali. Così, ad esempio, il
deviante dell’Iliade di Omero, Tersite, oltre ad essere “l’uomo più
brutto” del mondo (“camuso e zoppo d’un piede, le spalle erano torte,
curve e rientranti sul petto: il cranio aguzzo in cima, e rado il pelo
fioriva”) era anche vile e insolente.
D’altra parte, nel Medioevo sono di facile reperimento leggi che
esprimono analoghi pregiudizi: “se due persone vengono sospettate di
un reato, è da considerarsi più probabilmente colpevole quella più brutta
e deforme” (Wilson, 1985). Oggi, fortunatamente la situazione nei paesi
occidentali è assai diversa. È difficile che le persone con anomalie
fisiche siano demonizzate. L’atteggiamento che spesso si assume
prevalentemente verso di loro è tuttavia ambivalente se non ambiguo.
Un misto di senso di superiorità, disprezzo, pietà e
condiscendenza. Così anche oggi, per coloro che hanno anomalie
fisiche, l’interazione con gli altri è continuamente fonte di frustrazioni e
di sofferenze.
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È evidente, dunque, che i devianti devono far fronte a numerosi
problemi pratici.
Essi devono in primo luogo disporre di risorse di vario tipo. Un
eroinomane deve riuscire a procurarsi l’eroina ogniqualvolta ne ha
bisogno e deve sapere come usarla.
In secondo luogo, i devianti devono avere un’ideologia in grado
di giustificare a se stessi i propri comportamenti.
In terzo luogo, essi devono sapersi difendere dagli altri e
soprattutto da coloro che hanno professionalmente il compito di far
rispettare le leggi, come le Forze dell’Ordine e la magistratura.
Per far fronte a tutti questi problemi, i devianti possono servirsi
dell’aiuto di persone che si trovano nella stessa situazione, cioè di
qualche forma di organizzazione sociale.
1.5 L’organizzazione sociale della devianza
L’organizzazione sociale dei devianti può assumere forme assai
diverse (Best, 1994). In base alle caratteristiche che presentano, si
possono distinguere cinque diverse forme di organizzazione sociale:
• I solitari
• I colleghi
• I pari
• Le squadre
• Le organizzazioni formali
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“Solitari” sono considerati coloro che, costretti dalla natura dei
problemi pratici che si trovano ad affrontare, fanno ricorso
esclusivamente alle proprie forze. Sono riconducibili a questo gruppo
anche molti suicidi, omicidi, stupratori e coloro che falsificano assegni,
o commettono il reato di appropriazione indebita.
Gran parte di coloro che compiono questi atti, non si servono
dell’aiuto di altri devianti per avere le risorse materiali e conoscitive
necessarie, per elaborare un’ideologia che giustifichi il loro
comportamento, o per sfuggire al controllo delle Forze dell’Ordine.
“Colleghi” possono essere invece chiamati coloro che, come le
peripatetiche, i protettori o gli hackers informatici, commettono da soli i
loro atti devianti, ma si ritrovano nel tempo libero e discutono di
questioni di interesse comune con i loro consimili. Un esempio può
essere quello delle peripatetiche che lavorano lungo le strade, che
passano insieme ore attendendo i clienti o frequentano gli stessi locali. A
differenza dei solitari, i colleghi condividono una comune subcultura
(cioè un insieme di valori, conoscenze, linguaggi, norme di
comportamento e stili di vita, molto diversi da quelli del resto della
società) che trasmettono a coloro che vogliono o devono entrare a far
parte del loro mondo. In comune essi hanno un gergo, un vocabolario di
parole speciali e una prospettiva cognitiva per interpretare le loro
attività.
I “pari” invece, a differenza dei colleghi, commettono gli atti
devianti insieme, collaborando attivamente l’uno con l’altro.
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