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successo di un’azienda piuttosto che di un’altra? Se le capacità produttive
possono essere simili, il personale dipendente, le politiche aziendali, il clima
aziendale e tutto ciò che concerne il fattore umano certamente non possono
esserlo.
Diventa quindi molto importante dedicare cura e attenzione alle risorse
umane, considerando sia il loro benessere fisico sia quello mentale. In
questa sede prenderemo in considerazione l’aspetto mentale del lavoro,
prendendo in esame il costrutto del “commitment”.
Il mondo scientifico ha cominciato ad interessarsi a tale costrutto verso
l’inizio degli anni ‘80, producendo un gran numero di studi e teorie poco
coordinati tra loro e quindi poco specifici nel definire le variabili in gioco. In
una rassegna critica sul tema, Morrow (1983) ha trovato oltre 25 concetti
relativi al commitment lavorativo. Tra i tanti, è doveroso ricordare
“l’implicazione nel lavoro” (Lodahl & Kejner, 1965; Robinowitz & Hall, 1977); il
“work involvement” (Fraccaroli, 1989; Ruggiero & Weston, 1988);
l’organizational commitment” (Allen & Meyer, 1990; Mowday, Steers, &
Porter, 1979); l’impegno professionale” (Aranya, Pollock & Amernic, 1981);
l’impegno nell’attività” (Jackson, Stafford, Blanks & Warr, 1983); l’impegno
nella carriera” (Arnold, 1990; Blau, 1985).
L’interesse della psicologia verso la comprensione del comportamento in
ambito lavorativo, ha portato ad approfondire in modo particolare il costrutto
di organizational commitment, con la conseguente ricerca delle variabili in
gioco.
Nello specifico sono state approfondite le relazioni tra organizational
commitment e performance lavorativa, assenteismo e turnover (DeCotiis &
Summers, 1987; Meyer & Allen, 1991; Mowday, Porter & Steers, 1982;
Wiener & Vardi, 1980) e quelle con l’implicazione e la soddisfazione nel
lavoro (Brooke et al., 1988; Mathieu & Farr, 1991; Shore et al., 1990).
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CAPITOLO 1
L’ORGANIZATIONAL COMMITMENT
1.1 DEFINIZIONE DEL COSTRUTTO
Nella letteratura si possono trovare diverse definizioni di organizational
commitment , ognuna delle quali risulta da ricerche apparentemente svolte in
modo autonomo (Sommers, 1993). Ne consegue un ambito di ricerca
tutt’oggi abbastanza frammentato.
Mowday, Porter & Steers (1982) hanno esaminato i vari approcci,
distinguendo tra quelli che considerano il commitment in termini di
manifestazioni comportamentali (Behavioral Commitment) e quelli che lo
analizzano in termini di atteggiamenti (Attitudinal Commitment). L’attenzione
del mondo scientifico si è concentrata su questo secondo aspetto, visto che
l’atteggiamento lavorativo può comprendere fattori importanti come
l’attaccamento al lavoro e la fedeltà all’azienda (Morrow & Goetz, 1988), che
sono aspetti decisamente focali per la vita di un’organizzazione.
Per quanto riguarda una generale definizione di organizational commitment,
la più conosciuta e condivisa è quella proposta da Mowday et al. (Mowday,
Steers & Porter, 1979), che lo considera “uno stato di identificazione
dell’individuo con una particolare organizzazione; l’accettazione dei valori e
degli obiettivi dell’organizzazione; l’impegno a raggiungere tali obiettivi e il
desiderio di mantenere la propria membership all’interno
dell’organizzazione”. Si tratta quindi di un’attiva adesione alla vita lavorativa,
che non può che giovare al clima e alla produttività aziendale.
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Anche Allen e Meyer si sono dedicati ad una rassegna critica di tale
argomento (Allen & Meyer 1990; Allen, Meyer & Smith; 1993; Meyer & Allen,
1987, 1991) evidenziando tre elementi cardini nelle varie definizioni di
commitment:
commitment come attaccamento affettivo all’organizzazione,
identificazione con essa, condivisione dei suoi valori e delle sue regole
(impegno affettivo o Affective Commitment);
commitment come risultato di una valutazione di costi/benefici relativi
all’interruzione dei rapporti con l’organizzazione di appartenenza (impegno
di continuità o Continuance Commitment);
commitment come una sorta di obbligazione morale a dover rimanere con
l’organizzazione (impegno normativo o Normative Commitment).
Un elemento in comune ai tre approcci è la relazione con il turnover: per
quanto riguarda il commitment affettivo e quello normativo la relazione è
negativa, mentre per il commitment di continuità la relazione è positiva (più
una persona rimane nell’organizzazione perché non ha altre possibilità, più
egli avrà voglia di andarsene).
Un altro punto che accomuna i tre approcci è la sottostante compresenza di
due aspetti: da un lato la relazione che si instaura tra i dipendenti e
l’organizzazione, dall’altro le implicazioni personali che derivano dalla
decisione di far parte della tale organizzazione o meno.
Ciò nonostante, rimane il fatto che la natura psicologica di ogni forma di
commitment è sostanzialmente diversa. Le persone con un forte commitment
affettivo, per esempio, rimangono con l’organizzazione perché lo desiderano,
quelle con un forte commitment normativo perché si sentono obbligate a
rimanere, quelle con un forte commitment di continuità perché ne hanno
bisogno.
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Meyer e Allen hanno supposto che le persone possano provare tutte le tre
forme di commitment allo stesso momento anche se in gradazioni diverse.
Questi autori hanno quindi sviluppato una scala che prende in esame le tre
forme allo stesso momento, allo scopo di una comprensione totale del
commitment. Tale scala viene normalmente definita a tre componenti.
Descriveremo ora più accuratamente ogni forma del commitment così come
proposto da Meyer e Allen.
1.2 IL MODELLO A TRE COMPONENTI DEL COMMITMENT
1.2.1 Attaccamento affettivo (affective commitment)
Come accennato prima, la letteratura sul commitment è tutt’oggi piuttosto
confusa. Ciò perché più filoni di ricerche si sono sviluppati
indipendentemente l’uno dall’altro portando a risultati simili ma, in genere,
diversamente definiti. Eccezion fatta per l’affective commitment che viene
sempre definito come quel sentimento di attaccamento emotivo con la
propria organizzazione, di identificazione, di coinvolgimento, di piacere
dell’essere membro della stessa.
Per esempio, Kanter (1968) ha chiamato “cohesion commitment” una forma
di attaccamento affettivo ed emotivo di un individuo al gruppo. Buchanan
(1974) ha, invece, definito il costrutto di commitment come un “attaccamento
affettivo agli obiettivi ed ai valori dell’organizzazione, al proprio ruolo in
relazione a tali obiettivi e valori, all’organizzazione per le sue finalità,
indipendenti da quelle puramente strumentali”.
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Ma la definizione più nota e che viene generalmente considerata per
rappresentare il concetto di affective commitment, è quella proposta da
Mowday et al. (1979): “uno stato di identificazione dell’individuo con una
particolare organizzazione e con i suoi obiettivi, nonché il desiderio di
mantenere al suo interno la propria membership al fine di facilitare il
raggiungimento degli obiettivi stessi”.
Mowday et al. (1979) hanno anche sviluppato una scala adatta alla
misurazione del costrutto da loro proposto. In realtà molti sono gli strumenti
che sono stati studiati allo stesso scopo, ma quello proposto da Mowday e
colleghi è stato sottoposto a rigorose valutazioni psicometriche che ne
attestano la validità e la stabilità. Tale scala è monofattoriale ed è composta
da 15 item, in formato Likert, che misurano i tre aspetti della loro definizione
di organizational commitment: vale a dire l’accettazione degli obiettivi e dei
valori dell’organizzazione, la disponibilità ad impegnarsi per il raggiungimento
degli stessi e il forte desiderio di continuare a far parte dell’organizzazione.
1.2.2 Percezione dei costi (continuance commitment)
Altri autori ritengono che l’aspetto affettivo ricopra in realtà un ruolo piuttosto
limitato se messo a confronto con uno più utilitaristico, quale la necessità di
lavorare.
Secondo tale prospettiva, quindi, il commitment viene considerato una
risposta cognitiva alla valutazione dei costi e dei benefici associati
all’interruzione dei rapporti con l’organizzazione di appartenenza (Becker,
1960).
Stebbins (1970), aggiunge a tale valutazione anche la consapevolezza
dell’impossibilità di scegliere una diversa identità sociale [...] dati i notevoli
costi associati alla scelta di cambiamento.
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Mentre Kanter (1968) definisce il continuance commitment come una
“percezione dei profitti associati alla continuità della partecipazione alle
attività dell’organizzazione e dei costi associati all’interruzione di tale
partecipazione”.
In generale, quindi, il continuance commitment deriva dal fatto di non avere
altre possibilità lavorative e quindi dalla necessità di rimanere
nell’organizzazione.
Il continuance commitment è stato generalmente misurato utilizzando la
scala sviluppata da Ritzer e Trice (1969), e modificata da Hrebiniak e Alutto
(1972), che valuta “la probabilità di lasciare l’organizzazione di appartenenza
in presenza di migliori opportunità di lavoro” come aumento retributivo, di
status, di libertà, o migliori opportunità di carriera, ecc.
E’ però corretto ricordare che tale scala probabilmente non riflette il
continuance commitment così come l’abbiamo definito poc’anzi (Meyer &
Allen, 1984; Stebbins, 1970). Infatti, gli alti punteggi dati alla non-voglia di
lasciare l’organizzazione anziché alla serie di incentivi per farlo, possono
dimostrare un commitment di tipo affettivo, piuttosto che o in aggiunta alla
valutazione costi/benefici (Meyer & Allen, 1984).
1.2.3 Impegno morale (normative commitment)
Infine, l’approccio meno noto ma comunque molto importante, vede il
commitment come una credenza di responsabilità morale nei confronti
dell’organizzazione. Tale sentimento si svilupperebbe da pressioni normative
precedenti (socializzazione culturale e familiare) o successive
(socializzazione organizzativa) l’ingresso nell’organizzazione.
Wiener (1982) definisce questa forma di commitment come
“un’internalizzazione delle pressioni normative ad agire in maniera conforme
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agli scopi e agli interessi dell’organizzazione”, e suggerisce che “gli individui
adottino certi comportamenti solo perché lo ritengono giusto”.
Lo strumento sviluppato per misurare il normative commitment è stato
proposto da Wiener e Vardi (1980). Si tratta di una scala a tre item, in cui si
chiede ai soggetti fino a che punto essi credono giusto che una persona sia
fedele, che faccia sacrifici e che critichi la propria organizzazione.