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INTRODUZIONE
Il seguente elaborato tenta di illustrare la natura dell’evoluzione della relazione
intercorrente tra due oggetti di particolare interesse nel mondo del management (e, più
precisamente, nel campo della gestione delle risorse umane) avvenuta tra il XX secolo e
oggi: da un lato, le “competenze individuali”; dall’altro, la “definizione del profilo
professionale”.
La prima delle due espressioni costituisce una tematica che si colloca all’interno
di un argomento di più ampia portata che abbraccia da diversi decenni numerose
organizzazioni e aree di studio, ossia quello delle “competenze”. L’attenzione verso di
essa inizia a emergere in modo embrionale tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni
’70 del secolo scorso, quando vari studiosi, a partire da diversi filoni di ricerca, approcci
teorici e costrutti concettuali, riconoscono proprio nelle competenze individuali
l’antecedente-chiave delle performance di successo del lavoratore. Negli ultimi due
decenni del ‘900, complici lo sviluppo di ulteriori contributi significativi sull’argomento
e l’affermazione di un nuovo paradigma economico incentrato sulla conoscenza e
tuttora in evoluzione, l’interesse nei confronti delle competenze individuali si rafforza
ed esse iniziano ad essere concepite dalle imprese come anche strumentali per eseguire
con profitto pratiche tipiche della gestione delle risorse umane.
La seconda espressione fa invece riferimento alla fase iniziale di un processo HR
denominato “reclutamento” e indirizzata a delineare il profilo del candidato ideale da
inserire nell’organizzazione per una posizione vacante al suo interno.
Dal momento che per la corretta definizione del profilo professionale un focus
sulle competenze individuali appare necessario e siccome l’intero processo a cui essa è
riconducibile (il reclutamento, appunto) risulta non banale per il successo aziendale,
l’esistenza di un legame tra la prima e le seconde, la sua rilevanza e l’interesse ad
approfondirne la dinamica evolutiva sembrano trovare una giustificazione ragionevole.
Tuttavia, vista la compresente complessità insita nella tematica delle competenze
individuali, il buon esito di un simile sforzo analitico non può prescindere da un
articolato approfondimento in merito ad esse; ragion per cui due dei tre capitoli in cui
l’elaborato si struttura sono dedicati proprio ad una pluralità di aspetti a loro imputabili.
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Entrando più nel dettaglio, il primo capitolo fornisce un inquadramento teorico e
concettuale sul tema delle competenze individuali. Nella parte iniziale viene posta
chiarezza in merito alle principali accezioni di “competenza” rintracciabili nel mondo
delle imprese e nella letteratura ad esse relativa, introducendo la trattazione di quelle
“individuali” nel presente lavoro. Successivamente, vengono delineati i tratti basilari dei
filoni di ricerca e degli approcci teorici a fondamento della relativa tematica. Il cuore
del capitolo è rappresentato in seguito dalla descrizione sintetica dei principali concetti e
modelli teorici di competenze individuali riscontrabili nella letteratura di riferimento, a
partire dalla nascita del movimento sino all’inizio del terzo millennio. Chiude la sezione
una breve esposizione delle differenze terminologiche e concettuali e degli eventuali
collegamenti e legami tra il costrutto di “competenza individuale” e quelli di “skill” e di
“expertise”, ossia due vocaboli spesso sovrapposti o considerati sinonimi del primo
nella letteratura organizzativa.
Il secondo capitolo mira ad approfondire ulteriormente la questione delle
competenze individuali. Questa sezione prende avvio con una breve esposizione delle
caratteristiche della “knowledge-based economy” e del “knowledge worker”, cioè
rispettivamente il paradigma economico che alimenta e accompagna lo sviluppo e il
consolidamento del movimento delle competenze individuali e che fa da cornice
all’evoluzione delle loro tipologie e il suo protagonista principale. In seguito vengono
elencati e analizzati nel dettaglio in due paragrafi distinti i principali tipi di competenze
individuali (richiesti e diffusi) imputabili al XX secolo (secondo paragrafo) e al giorno
d’oggi e in chiave prospettica (terzo paragrafo).
Il terzo e conclusivo capitolo contiene il cuore dell’intero elaborato, ossia una
breve ricerca volta a comprendere l’evoluzione eventuale del ruolo giocato dalle
competenze individuali nella “definizione del profilo professionale” tra il ‘900 e oggi.
Nella prima parte di tale sezione vengono poste le fondamenta della ricerca stessa,
evidenziando la natura del legame tra i due suddetti elementi, gli aspetti concettuali in
capo alla definizione del profilo professionale e i termini di riferimento per valutare la
portata dell’evoluzione oggetto di indagine di cui sopra. La seconda parte è indirizzata a
cogliere il ruolo ricoperto dalle competenze individuali nella stesura del profilo del
candidato ideale nel corso del XX secolo, attraverso il supporto della letteratura e di
riflessioni deduttive opportunamente giustificate. La terza parte è dedicata a carpire
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mediante interviste sul campo lo stato dell’arte della natura della medesima relazione e
ad alcune riflessioni volte sia a desumerne l’entità del cambiamento tra il ‘900 e oggi,
sia a offrire eventuali spunti per futuri approfondimenti sul tema.
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CAPITOLO I – UN QUADRO TEORICO SUL TEMA DELLE COMPETENZE
INDIVIDUALI
I.1 Una precisazione terminologica di inquadramento
Il termine “competenza” risale ai tempi dei Romani e, più precisamente, a un paio
di specifici elementi della loro lingua, quella latina: da un lato, il verbo “cum-petere”,
utilizzato originariamente per indicare una variegata gamma di azioni, come per
esempio quelle di rivolgersi, accordarsi, coincidere, ma anche l’essere abili in qualche
cosa (Bentivogli, Catani, Marmo & Morgagni, 2013); dall’altro, il sostantivo ad esso
correlato di “compětentĭa-ae”, impiegato in ambito giuridico per indicare il soggetto a
cui è attribuita la facoltà di parlare e, conseguentemente, quella di esprimere una certa
opinione o giudizio (Caupin, Knoepfel, Koch, Pannenbäcker, Pérez-Polo & Seabury,
2006). Quello delle competenze rappresenta un oggetto di studio e di dibattito
particolarmente complesso e ricco di sfaccettature; sono molteplici i campi di indagine e
le angolazioni a partire dai quali esse sono state (e tuttora continuano a essere)
affrontate (Hoffmann, 1999, Chouhan & Srivastava, 2014), così come le ipotesi
interpretative alle loro spalle (Pate, Martin & Robertson, 2003): si pensi, per esempio,
alla politica, impegnata a confrontarsi con la suddetta tematica al fine di orientare i
propri processi decisionali indirizzati ad efficientare il mondo del lavoro e
dell’occupazione (Burgoyne, 1993), o al mondo dell’educazione in senso allargato,
dove il fondamentale focus del sistema scolastico è incentrato sul come assicurarsi che
gli studenti riescano a sviluppare competenze propedeutiche e funzionali ad un loro
successivo ingresso nelle aziende (Bowden & Masters, 1993, Stoof, Martens, Van
Merriënboer & Bastiaens, 2002).
Date la multidisciplinarità e la complessità insite nella tematica delle competenze,
sottolineare al lettore che il presente elaborato assume come oggetto di indagine non il
relativo tema in termini generici, bensì quello delle competenze limitatamente
all’interno della vita aziendale e professionale, potrebbe apparire a prima vista un
supporto adeguato e più che sufficiente per orientarsi e comprendere al meglio quali
siano i contorni e il fulcro dell’analisi che verrà proposta; tuttavia, andando ad
approfondire con una maggiore attenzione la questione relativa a questa specifica
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sottoarea di studio, è possibile notare come essa non sia affatto priva di elementi di
ambiguità e come, contrariamente, parlare di competenze in questi termini sia un modo
abbastanza vago di affrontare con profitto l’argomento e che potrebbe essere fonte di
equivoci e fraintendimenti. Questo rischio deriva dal fatto che, nel momento in cui
viene dato un primo sguardo agli studi inerenti a tale tematica, è possibile osservare la
contemporanea presenza di due principali e distinte accezioni sviluppate nella recente
letteratura riferibili alle competenze nel mondo delle imprese: da una parte, quella
relativa alle cosiddette “competenze distintive” dell’impresa (o altrimenti definite nella
lingua inglese “core competencies”) (Prahalad & Hamel, 1990, Mulder, 2014);
dall’altra, quella di competenze in capo al singolo individuo facente parte
dell’organizzazione medesima, denominate tipicamente “competenze individuali”
(“individual competencies” o “human competencies”) (Boyatzis, 1982, Sandberg, 2000,
Bentivogli et alii, 2013, Mulder, 2014).
Le due accezioni appena menzionate si differenziano per un paio di aspetti: un
primo elemento di distinzione è dato dalle origini e dai background non coincidenti che
esse hanno alle proprie spalle (McLagan, 1997, Delamare Le Deist & Winterton, 2005);
un secondo (ma non per importanza) elemento di differenziazione risiede nel soggetto a
partire dal quale le competenze, intese secondo queste due prospettive, trovano una
concreta estrinsecazione e possono dunque essere percepite e valutate (Bentivogli et
alii, 2013, Mulder, 2014).
Prendendo in considerazione la prima accezione, è possibile notare che essa
affonda le radici e trova il suo consolidamento nel mondo del management e, più
precisamente, nella letteratura relativa alla gestione strategica dell’impresa dell’ultimo
decennio del XX secolo (Delamare Le Deist & Winterton, 2005). Essa può essere intesa
come naturale eredità lasciata in dote dal filone di ricerca denominato “Resource-Based
View” (RBV)
1
(Özbağ, 2013) e trova un contributo fondamentale per la sua diffusione
nelle figure di Coimbatore Krishnarao Prahalad e Gary Hamel, autori di “The core
competence of the corporation” nell’anno 1990 (Özbağ, 2013, Mulder, 2014). In
quest’opera viene posta notevole enfasi sull’importanza per l’organizzazione di
1
La Resource-Based View è una corrente di pensiero nata intorno agli anni ’80 del XX secolo nell’ambito
degli studi sulla definizione e sulla gestione delle strategie d’azienda. Elemento centrale della RBV è
costituito dal patrimonio di risorse dell’impresa (materiali, immateriali e umane), ritenuto la basilare fonte
del suo successo (Istituto Treccani, 2012 b, Özbağ, 2013).
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identificare alcune competenze-chiave definite “core”: esse vengono intese come esito
di un processo di “apprendimento collettivo all’interno dell’organizzazione” (Prahalad
& Hamel, 1990: p. 82) e, al tempo stesso, risorse basilari per favorire il conseguimento
e il mantenimento di un vantaggio competitivo
2
da parte dell’organizzazione stessa, in
quanto specifiche e non facili da emulare dalle imprese concorrenti (Prahalad & Hamel,
1990, Delamare Le Deist & Winterton, 2005, Özbağ, 2013). Pertanto, se si prende in
esame questa prospettiva, risulta evidente come in primo piano assuma un ruolo da
protagonista l’organizzazione intesa nel suo complesso: questa infatti viene concepita
come in grado di apprendere, veicolare e mettere in campo una serie di competenze che
possono condurla ai risultati desiderati (Bentivogli et alii, 2013), attraverso una fitta rete
di interazioni che coinvolge le persone dei lavoratori, l’ambiente in cui operano, la
tecnologia impiegata e gli scambi di informazione che vengono portati a termine a
differenti livelli dell’azienda (Prahalad & Hamel, 1990, Scarbrough, 1998, Bentivogli et
alii, 2013).
La seconda accezione menzionata parte da altri presupposti. In primo luogo,
questa non ha origini in una singola e ben delimitata area di studio, bensì risulta
inizialmente derivare da differenti filoni di ricerca in ambito psicologico e scientifico-
organizzativo che si sono affermati, confrontati, talvolta anche contrapposti e succeduti
a partire dai primi decenni del XX secolo (McLagan, 1997, Bentivogli et alii, 2013); un
suo successivo consolidamento si inizia a riscontrare nel mondo del management a
partire dagli ultimi decenni del ‘900, tuttavia in un ambito non analogo a quello a cui
viene ricondotta l’idea di core competencies (vale a dire la gestione strategica
dell’impresa): la gestione delle risorse umane (Chouhan & Srivastava, 2014). In
secondo luogo, tale accezione non pone l’accento sul ruolo centrale dell’azienda, né
sull’idea di competenza come intesa da Prahalad e Hamel (1990); piuttosto, viene messa
al centro della scena la figura del lavoratore, concepito come soggetto che, in virtù di
talune proprie peculiarità (le competenze, appunto) e della contemporanea appartenenza
all’impresa, è in grado di fornire un contributo teso a favorirne il raggiungimento di
2
Il termine “vantaggio competitivo” è introdotto nel corso degli anni ’80 del XX secolo dal celebre
studioso di strategia aziendale Michael Porter; esso fa riferimento alle capacità dell’impresa di produrre
un reddito più elevato rispetto alla concorrenza e di proteggere tale redditività nel tempo dalle mosse dei
competitor e dai cambiamenti all’interno del business di appartenenza, attraverso un’offerta di elevato
valore per il cliente, ottenuta mediante attività che risultano difficili da replicare dalle altre imprese
(Harney, 2016).
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risultati brillanti, ponendo in essere adeguati comportamenti e prestazioni (Boyatzis,
1982, Grönhaug & Nordhaug, 1992, Bentivogli et alii, 2013).
Evidenziare l’esistenza di questa duplice prospettiva di osservazione del tema
delle competenze cui fa ricorso quotidianamente una qualunque impresa nel proprio
business permette dunque di gettare le basi per definire in modo più preciso i contorni
dell’approfondimento che si intende portare avanti e di fugare eventuali fraintendimenti.
Dal momento che il seguente elaborato ruota intorno al mondo dello human resource
management, l’elemento cardine oggetto d’indagine nei paragrafi e capitoli a seguire
sarà rappresentato dalle competenze intese nella seconda accezione poco fa delineata:
quelle di tipo individuale (o human competencies) in capo al singolo lavoratore
appartenente a una determinata impresa.
I.2 I filoni di ricerca e gli approcci principali al tema delle competenze individuali
Sebbene il campo di indagine relativo alle human competencies risulti
sicuramente più specifico e meno dispersivo rispetto a quello delle competenze nel suo
complesso, ciononostante esso non sembra essere inquadrabile da un punto di vista
teorico in modo lineare, né senza difficoltà alcuna (Norris, 1991, Sandberg, 2000,
Delamare Le Deist & Winterton, 2005, Chouhan & Srivastava, 2014). A dimostrazione
di ciò, è più che sufficiente pensare alle problematiche e alla varietà di aspetti
concettuali che hanno dovuto fronteggiare numerosi studiosi che si sono affacciati alla
questione e che hanno provato a determinare una definizione di competenze individuali
in ambito lavorativo o un modello teorico su di esse universalmente accettabili (White,
1959, McClelland, 1973, 1976, Klemp Jr., 1980, Boyatzis, 1982, Schön, 1983, Bandura,
1990, Spencer Jr. & Spencer, 1993, Antonacopoulou & Fitzgerald, 1996, Stoof et alii,
2002). La ragione principale che permette di comprendere (o quantomeno di provare a
comprendere) la difficoltà a tracciare un percorso condiviso e univoco per questo genere
di competenze va ricercata nella vasta gamma di filoni di ricerca a loro origine e di
approcci teorici alla trattazione del tema individuati da taluni studiosi (Veres III,
Locklear & Sims, 1990, Sandberg, 1994, McLagan, 1997, Sandberg, 2000, Rychen &
Salganik, 2003, Bentivogli et alii, 2013) e nella complessità degli aspetti toccati da
ciascuno di essi. Per questo motivo, per non rendere i focus sugli aspetti definitori e sui
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modelli di competenze individuali presenti in letteratura un mero esercizio di scrittura e
per tracciare uno schema coerente che consenta di comprenderli accuratamente, pare
utile compiere due step in via preliminare: primo, mettere ordine tra le diverse correnti
di pensiero e filoni di ricerca che sono alla base della tematica delle human
competencies e provare a dedurre in che modo si colleghino anche solo in maniera
superficiale ad esse; secondo, fare chiarezza sugli approcci teorici fondamentali adottati
in letteratura per trattare il relativo argomento.
Le origini dell’interesse per le competenze individuali risiedono in differenti studi
di carattere psicologico e scientifico-organizzativo: incrociando le considerazioni
effettuate in letteratura da alcuni studiosi (McLagan, 1997, Bentivogli et alii, 2013),
pare possibile identificare quattro distinte tradizioni di ricerca, vale a dire la “psicologia
differenziale” (“differential psychology”), la “scienza gestionale” (“management
science”), il “comportamentismo” o “psicologia comportamentale” (“behaviorism” o
“behavioral psychology”) ed infine il “cognitivismo” o “psicologia cognitiva”
(“cognitivism” o “cognitive psychology”). Ciascuna di esse, pur partendo da assunzioni
diverse ed utilizzando differenti metodologie di analisi per conseguire obiettivi propri,
sembra aggiungere ugualmente qualche tassello più o meno rilevante per l’affermazione
della suddetta tematica, in quanto appare veicolare lo sviluppo di larga parte degli
aspetti definitori che verranno successivamente adottati per affrontarla (McLagan, 1997,
Bentivogli et alii, 2013).
Allo scopo di concretare il primo step, si propone di seguito un breve
approfondimento sulle origini e sulle caratteristiche specifiche di ognuno dei suddetti
filoni di ricerca, ponendo una certa enfasi sugli elementi che in qualche modo
anticiperanno o costituiranno aspetti di rilievo negli studi successivi riguardanti le
competenze individuali.
La “psicologia differenziale” rappresenta una importante branca della psicologia e
prende in considerazione e integra al suo interno elementi afferenti a una pluralità di
discipline, sia di natura umanistica, quali la filosofia, sia di carattere scientifico, come la
genetica (Revelle, Wilt & Condon, 2010). Come viene suggerito dalla sua stessa
denominazione, l’elemento centrale che caratterizza la psicologia differenziale è dato
dall’osservazione delle cosiddette “differenze individuali” (Anastasi, 1937, McLagan,
1997, De Raad, 2000, Revelle et alii, 2010, Takooshian, 2010, Marsh & Boag, 2013).
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Con questo termine vengono intesi tutti quegli aspetti in grado di discriminare e
contraddistinguere esseri viventi appartenenti all’intero regno animale da un punto di
vista fisico, ma anche sotto i profili sociale e psicologico; si tratta di elementi che
emergono dalla sottoposizione dei medesimi soggetti a un confronto realizzato
attraverso l’ausilio di procedure basate su criteri di scientificità (Anastasi, 1937). In
questa prospettiva di indagine costituiscono oggetto di differenziazione in ambito fisico
e sociale numerose variabili quali-quantitative come il peso, l’altezza, il sesso, l’età, la
razza o il gruppo etnico di appartenenza, la religione professata, la classe sociale di
riferimento, la composizione del nucleo familiare, nonché il livello di istruzione; nella
sfera psicologica rientrano invece altre peculiarità, tra cui le attitudini, i valori, la
personalità, le motivazioni e le emozioni (Anastasi, 1937, McLagan, 1997, De Raad,
2000, Takooshian, 2010).
In linea generale possono essere identificate tre principali tipologie di differenze
tra esseri viventi: differenze qualitative, laddove l’obiettivo sia quello di confrontare
nella medesima circostanza caratteristiche fisiche o psicologiche in capo a soggetti o
entità appartenenti a specie diverse lungo la scala animale; differenze intraindividuali,
qualora lo scopo sia di verificare l’eventuale variazione di taluni tratti nello stesso
soggetto al mutare delle circostanze e situazioni in cui si egli si viene a trovare;
differenze interindividuali, dove il confronto avviene tra determinate caratteristiche di
soggetti appartenenti alla stessa specie, nello stesso momento e nella stessa situazione
(Nesselroade, 2002). Pur avendo ognuna di esse una certa rilevanza, sono quelle della
terza tipologia elencata, cioè le differenze interindividuali, a costituire il principale
oggetto di interesse all’interno di questa tradizione di ricerca (Nesselroade, 2002).
Benché gli albori del suddetto ramo della psicologia vengano tipicamente fatti
risalire alla fine del XIX secolo, un certo interesse verso la comprensione degli aspetti
che distinguono gli esseri umani dai propri simili ha origini ben più antiche (Anastasi,
1937). I primi studi al riguardo sono riconducibili ai tempi dell’antica Grecia, quando
sia Platone, sia Teofrasto (allievo di Aristotele, altro famosissimo filosofo greco)
iniziano a riflettere sulla questione (Anastasi, 1937, Revelle et alii, 2010). Il primo dei
due, in particolare, fornisce un contributo non banale attraverso l’opera intitolata “La
Repubblica” (390-360 A.C.): in essa viene sottolineato che dovrebbero essere proprio
gli elementi di differenziazione tra persone il criterio da impiegare per spartire in
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maniera appropriata e coerente le varie attività lavorative tra i membri di una
determinata comunità, così da favorire il suo corretto funzionamento (Anastasi, 1937).
A distanza di secoli è possibile riscontrare una ulteriore manifestazione di
interesse verso il tema delle differenze tra gli individui: quella dello studioso di biologia
Francis Galton (Anastasi, 1937, Marsh & Boag, 2013).
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Questi, pur partendo da
presupposti diversi rispetto a Platone (gli studi di matrice darwiniana inerenti
all’evoluzione), giunge a toccare un aspetto ugualmente significativo. Le differenze
sono per lui rilevanti perché sono uno strumento in grado di tracciare un confine tra le
molteplici specie animali, favorendo la sopravvivenza e la riproduzione di alcune di
esse e la scomparsa di altre, ossia fungendo da driver per un processo di selezione
naturale (Marsh & Boag, 2013).
Gli elementi di riflessione derivanti da quanto proposto da Platone, Teofrasto e
Galton finiscono per preparare il terreno per la stesura di alcuni contributi che segnano
l’avvio vero e proprio di questo filone di ricerca. Il primo è “La psychologie
individuelle”, realizzato nel 1895 da parte degli psicologi francesi Alfred Binet e Victor
Henri; a esso fa seguito cinque anni più tardi “Über Psychologie der individuellen
Differenzen”, ad opera di William Stern (Anastasi, 1937). Per giungere a un
consolidamento più robusto della disciplina è necessario attendere il 1937, anno in cui
la psicologa statunitense Anne Anastasi formalizza l’esito dei suoi antecedenti
ragionamenti attraverso la pubblicazione di “Differential psychology” (Takooshian,
2010). Ella, più nello specifico, mette in evidenza l’importanza di due aspetti
fondamentali riguardanti le differenze individuali, i quali fino ad allora non avevano
ancora trovato la giusta attenzione tra gli studiosi.
In primo luogo, l’esistenza di questa serie di elementi distintivi non dovrebbe
essere affatto ritenuta il frutto di eventi fortuiti e di tipo congiunturale, ma, al contrario,
andrebbe imputata alla compresenza di due aspetti ben definiti: l’eredità e l’ambiente
(Anastasi, 1937). Il primo termine fa riferimento alla trasmissione di quella complessa
struttura genetica materna e paterna a qualunque essere umano appartenente a una certa
specie animale nel momento in cui esso viene concepito, mentre il secondo attiene alle
sollecitazioni provenienti dall’esterno che impattano quotidianamente sul soggetto
(Anastasi, 1937).
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A tal proposito si fa principalmente riferimento alle opere “Hereditary genius” del 1869 (prima
edizione), “English men of science” del 1874 e “Natural inheritance” del 1889 (Anastasi, 1937).