INTRODUZIONE “ Per droga psichica è da intendersi tutto ciò che, derivato
da un’esperienza di completa soddisfazione, permette
all’individuo da bambino l’illusoria convinzione di poter
fare a meno delle cure materne e, da adulto, lo spinge
vanamente alla conquista dell’immortalità ” (Scarnecchia,
M., 1999, p. 17).
Una stimolante esperienza di tirocinio svolta presso una comunità per il recupero dei
tossicodipendenti ha sviluppato in me l’interesse per le dinamiche che caratterizzano i
comportamenti di abuso.
L’analisi della sintomatologia più tipica di tali condotte mi ha condotto a ipotizzare
l’esistenza di un’eventuale comorbilità tra a patologia borderline e i comportamenti di
addiction, e che quindi fosse possibile far rientrare questi ultimi a pieno titolo all’interno
dell’ambito delle “ psicopatologie affrontabili o addirittura descrivibili con un’ottica
psicoanalitica” (Scarnecchia, M., 1999, p. 18), dal momento che esse presentano tratti
sintomatici riscontrabili anche nelle manifestazioni più tipiche dei casi limite.
Il primo capitolo del mio lavoro offre una panoramica generale sul concetto di caso limite
a partire da Freud (1915, 1937) con particolare riferimento alla teoria di Bergeret (1974):
l’autore considera i casi limite delle astrutturazioni, intendendo con questo termine
definire un’organizzazione fluttuante e imprecisa che, pur raggiungendo un assestamento,
non ottiene mai quelle caratteristiche di solidità e di specificità definitiva che
caratterizzano al contrario organizzazioni strutturate, quali nevrosi e psicosi. Si tratta di
pazienti vittime di inadeguatezze da parte dell’oggetto dell’appoggio, le quali non hanno
permesso la corretta significazione del bisogno del bambino e sono responsabili di
un’” emorragia energetica ” (Conrotto, F., 2000, p. 178) e di una frammentazione dell’Io
che impediscono sani investimenti sull’oggetto e determineranno l’instaurarsi di un
regime economico egemonizzato dalle pulsioni di morte (Green, A., 1990, p. 68 sg.).
Il secondo capitolo affronta il concetto di comorbilità tra patologia borderline e condotte
tossicomaniche, partendo dalla constatazione che il consumo di sostanze rappresenta uno
dei sintomi più frequenti dei casi limite e che il borderline condivide con il
tossicodipendente problematiche legate alla dipendenza, al vissuto di vuoto e
deprivazione e agli agiti aggressivi auto ed etero diretti. Mi soffermerò in prima analisi
sul concetto generale di dipendenza dall’oggetto e quindi sulle problematiche di
separazione che caratterizzano entrambe le condizioni considerate, per poi passare a
descriverne gli aspetti aggressivi in riferimento al concetto di pulsione di morte: questi
soggetti sono spinti dai bisogni “in direzione di manifestazioni autoaggressive frequenti
e spesso compulsive” (Bergeret, J., 1982, p. 17), che gli impediscono “di raggiungere
una sufficiente soddisfazione narcisistica ” (Ibidem ). Mi soffermerò poi sulla difficoltà di
questi pazienti hanno a mentalizzare e significare i propri vissuti emotivi, e ciò determina
l’insorgere del vuoto di rappresentazione, un vuoto lasciato dall’oggetto che non è stato
interiorizzato e che non permette significazione e possibilità di rappresentare, e il
consumo di sostanze può essere in questo senso interpretato nei termini di un tentativo di
riempimento di un vuoto invasivo che costoro, incapaci di provvedere a se stessi,
esperiscono sotto forma di un senso di sprofondamento causato dalla mancata
interiorizzazione di un oggetto in grado di assicurare uno stato di “ benessere
somatopsichico ” (Racalbuto, A., 1994, p. 38); si tratta quindi di un tentativo di
rivitalizzazione tramite un’intensa esperienza affettiva e sensoriale “un senso di sé
percepito come facilmente o inevitabilmente soggetto a svuotamento e privazioni di
vitalità ” (Correale, A., 2001, p. 84), a tratti curativo, messo in atto per fronteggiare il
doloroso lavoro atteso per elaborare il lutto. È possibile quindi ipotizzare, a questo
proposito, che le autoaggressioni ripetute e frequenti che il tossicomane mette in atto,
siano in realtà aggressioni rivolte ad un oggetto d’amore perduto, con cui il tossicomane
si identifica per fronteggiare un lutto non elaborabile, che lo lascia nel vuoto più totale
(Bergeret, J., 1982).
Il terzo e ultimo capitolo è dedicato alla presa in carico e offre una panoramica generale
sulle difficoltà che l’analista incontra lungo il percorso analitico con questi pazienti. Mi
soffermerò principalmente sul ruolo contenitivo e significante dell’analista, il quale si
trova a dover fronteggiare in seduta il vuoto di rappresentazione del paziente, che invece
è “ un troppo pieno di eccitazione, di violenza, di rabbia e di disperazione” (Racalbuto,
A., 1994, p. 87), l’assenza dell’oggetto e le difficoltà di separazione. Il funzionamento,
caratterizzato da numerosi agiti in seduta, da un alto tasso di aggressività e di rabbia e
dall’utilizzo di identificazioni proiettive ostacola il mantenimento del setting e la
creazione di una solida alleanza terapeutica; dal momento che l’analisi è pervasa da
intense emozioni, una combinazione di stati fisici e psichici dalle sorprendenti
potenzialità, anche ai fini della stessa analisi, che riguardano entrambi i membri della
diade, ho ritenuto interessante dedicare ampio spazio alle dinamiche transferali e
controtransferali; esse sono a mio avviso uno degli elementi più rappresentativi della
complessità di questi pazienti, e “ rendono conto che il territorio border è un territorio di
confine proprio dell’esperienza che se ne fa” (Racalbuto, A., 2001, p. 41).
Capitolo primo IL CONCETTO DI CASO LIMITE 1.1. I casi limite a partire da Freud “Che cosa vede il lattante quando guarda il viso
della madre? Secondo me di solito ciò che il lattante
vede è sé stesso. In altre parole la madre guarda il
bambino e ciò che essa appare è in rapporto con ciò
che essa scorge” (Winnicott, 1971, p. 191)
“non essere finito. Ma essere li, fuori dal tempo
misurabile, come dall’eternità” (Pontalis, J-B., 2000, p. 67)
Il concetto di caso limite sembra aver avuto in ambito clinico il compito di colmare quel
vuoto che implicitamente esisteva tra le definizioni di nevrosi e psicosi, ma anche quello
di ripristinare “ il senso di un continuum, spesso ambiguo nella sua determinazione e
sfumato nelle sue caratteristiche” (Racalbuto, A., 1989, p. 516).
Gli stati detti “misti” sono caratterizzati da condizioni di angoscia diffusa, non nevrotici,
apparentemente perversi, con condotte tossicomaniche e delinquenziali che non
appartengono né alla struttura nevrotica né a quella psicotica, ma che si collocano in
quella che Green chiama terra di nessuno (Green, 1991, p. 108), lungo una linea di
frontiera, al limite tra le due organizzazioni. Avere chiaro cosa si intende per “limite” è
fondamentale per poter parlare di patologia borderline.
Il primo lavoro di Freud in cui è possibile individuare un riferimento al concetto di limite,
sebbene esso venga affrontato nell’accezione di limite tra la psiche e il soma, potrebbe
essere Pulsioni e i loro destini (Freud, S., 1915, p. 15), in cui scrive:
1
“[…] la “pulsione” ci appare come un concetto limite tra lo psichico e il somatico, come il
rappresentante psichico degli stimoli che traggono origine dall’interno del corpo e pervengono
alla psiche, come una misura delle operazioni che vengono richieste alla sfera psichica in forza
della sua connessione con quella corporea” Ne emerge che il concetto di “pulsione” si situa al limite tra due territori, tra loro in
relazione, ed è il rappresentante psichico delle eccitazioni che provengono dal corpo. La
pulsione è definita come una progressione delle eccitazioni interne del corpo che arrivano
all’apparato psichico e che necessitano di un’elaborazione. L’entità di tale necessità è di
intensità variabile e i limiti tra corpo e psiche non sono definiti in maniera chiara. Da
questo concetto-limite, sostiene Green in Psicoanalisi degli stati limite (1991), possiamo
ricavare un concetto di limite che serve forse a fornirci una prima definizione degli stati-
limite, inducendoci a “ considerare il limite come una frontiera mobile e fluttuante, che è
tale sia nella normalità, che nella patologia ” (Green, 1991, p. 108). Frontiera che
differenzia il dentro dal fuori, il me dal non me, frontiera anche come zona che “ sta tra i
confinanti, in quanto soggetti-oggetti della relazione” ; si tratta di linee di demarcazione
tra fisico e psichico, “ fra investimento narcisistico e investimento oggettuale, fra
esperienza traumatica (perdita del Sé) e esperienza luttuosa (perdita oggettuale) ” che
altro non sono che “ zone di elaborazione psichica ” (Racalbuto, 2001, p. 33).
In Analisi terminabile e interminabile (1937) Freud sostiene che la collaborazione
analitica possa avvenire per mezzo di “ un’alleanza che noi stabiliamo con l’Io della
persona che si sottopone al trattamento, al fine di assoggettare porzioni incontrollate del
suo Es ” (Freud, S., 1937, p. 517-518). Tale patto, prosegue, possiamo concluderlo
soltanto con un “ Io normale, ma tale Io normale è, come la normalità in genere, una
finzione ideale e ogni persona normale lo è solo mediamente, il suo Io si avvicina a
quello dello psicotico per un tratto o per l’altro, in proporzione maggiore o minore ”.
Sebbene egli avesse sempre nettamente distinto le “nevrosi da transfert” dalle “nevrosi
narcisistiche”, distinzione riscontrabile anche sul piano lessicale con l’impiego dei
termini di “nevrosi” e “psicosi”, da lui ritenute rispettivamente analizzabili e
inanalizzabili, dobbiamo ritenere che fosse ben presente nella sua mente il concetto di
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continuum, meglio definito dal termine di caso-limite, nato con l’obbiettivo di “ colmare
il vuoto implicito nella drastica differenza suggerita dalle definizioni di nevrosi e di
psicosi ” (Racalbuto, 2001).
“Nella realtà gli stadi intermedi e di passaggio sono di gran lunga più frequenti che non le
situazioni fortemente differenziate e tra loro contrapposte” (Freud S., 1937, p. 518).
I casi-limite, secondo Green occupano “ una posizione di intersezione, costituiscono una
specie di porta girevole che permette, da questo punto di vista, di capire meglio sia la
nevrosi che la psicosi, come anche la perversione e la depressione ” (Green, 1991, p.
109).
La parola “limite” (borderline, nell’accezione inglese)
1
non è un vocabolo che appartiene
normalmente al vocabolario classico della psichiatria, anche se quest’ultima ci definisce
il caso-limite come quello che rasenta la follia. È importante sottolineare come sia
difficile immaginare che il confine tra normalità e follia sia rappresentato da una
demarcazione così precisa, dal momento che la nostra esperienza dovrebbe insegnarci
quanto spesso sia arduo scegliere da che parte stare, quando si parla di normalità e di a-
normalità.
Il dizionario “de Mauro” della lingua italiana definisce il “limite”: “ linea terminale o di
divisione, confine ”, mentre il “confine” risulta essere “ zona di transizione a ridosso di un
limite geografico, culturale, amministrativo” , evidenziando così la sinonimia che esiste
tra i termini di “limite” e di “confine”.
Secondo il Manuale diagnostico e statistico dei disordini mentali, 4° ed. (1994), la
patologia borderline può essere definita come “ una modalità pervasiva di instabilità delle
relazioni interpersonali, dell’immagine di sé e dell’affettività come impulsività notevole,
comparsa entro la prima età adulta e presente in vari contesti ”.
Nel 1968 Grinker e colleghi (Grinker, Werble e Drye, 1968) condussero uno studio a
sostegno dell’esistenza di una “sindrome borderline” di personalità, con tratti
caratteristici che vanno dal confine con le nevrosi a quello con le psicosi. Costoro
1 Il termine inglese borderline significa frontiera che separa due paesi e in generale, il limite, il bordo, mentre in
francese è impossibile trovare un unico termine che esprima contemporaneamente i due concetti, quello di limite e
quello di frontiera.
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individuarono quattro caratteristiche chiave della suddetta patologia:
a) Rabbia come affetto principale b) Relazioni interpersonali difettose c) Depressione pervasiva d) Identità del Sé inconsistente L’Enciclopedia di psicoanalisi ci fornisce del caso-limite la seguente definizione:
“ termine nato per designare affezioni psicopatologiche situate al limite tra nevrosi e
psicosi, di solito delle schizofrenie latenti che presentano una sintomatologia ad
andamento nevrotico ” (Laplanche, Pontalis, 1968, p. 184). Viene così ancora sottolineata
così la vaghezza del concetto, che tende ad inglobare personalità dai tratti assai differenti.
La patologia borderline è stata alternativamente descritta come uno stato, una condizione,
una sindrome, o come una forma di organizzazione del carattere o della personalità.
Napolitano (1996) parte dall’assunto che la nozione di stato-limite non denuncia una
patologia “di confine” o “al confine” di differenti organizzazioni psicopatologiche, ma
piuttosto una patologia del confine; abbastanza concorde con l’autore, Conrotto (2000) fa
leva sulla debolezza, precarietà e aleatorietà dei confini, affermando che gli stati-limite
possono essere interpretati come “ espressione psicopatologica della vaghezza dei confini
tra i differenti meccanismi di difesa tipici della nevrosi, della perversione e della psicos i”
(Conrotto, F., 2000, p. 176)
Sebbene siano stati diversi gli autori che si sono interessati agli stati-limite, il primo che
cercò di caratterizzare i pazienti borderline utilizzando un punto di vista strettamente
psicoanalitico fu Otto Kernberg (1967, 1975), il quale, attingendo dalla teoria delle
relazioni oggettuali e dalla psicologia dell’Io, coniò l’espressione organizzazione
borderline di personalità, al fine di descrivere “ un gruppo di pazienti che mostravano
caratteristici segni di debolezza dell’Io, operazioni difensive primitive e relazioni
oggettuali problematiche ” (Gabbard G., 1994, p. 423). Egli utilizza il termine
“borderline” in senso ampio per descrivere una struttura della personalità con caratteri di
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