PREMESSA
Il presente lavoro non intende essere esaustivo,data la complessità e la novità
del tema in esso modestamente trattato.
Questa trattazione vuole essere semplicemente identificata come una ricerca
preliminare sulla comorbilità che integri solo parzialmente la scarsa
letteratura pregressa in merito all’argomento.
La complessità del tema preso in considerazione nelle pagine seguenti
necessita di ulteriori approfondimenti e di una maggiore acribìa affinché
possa considerarsi ultimato e completo, non trascurando che buona parte
dello studio, condotto avvalendomi di solidi sostegni, è stato effettuato sullo
spunto di una ricerca americana più ampia e particolareggiata (Goldstein S.
& Schwebach A.).
L’intento del mio lavoro è quindi quello di evidenziare le più rilevanti
caratteristiche e i sintomi dei due disturbi conosciuti come Disturbo Autistico
e Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività e, presi in considerazione
singolarmente, rilevarne gli elementi che permettono di dirigere ad un’ipotesi
di “comorbilità”o che, nel caso opposto, conducano ad una diagnosi
differenziale.
Si ricordi inoltre che, i due disturbi suddetti ad oggi sono ancora in fase di
studio e approfondimento e, molti aspetti dell’uno e dell’altro, presentano
zone d’ombra.E’ facile quindi cadere in errore specie se, tra due disturbi già
di per sé enigmatici, si inserisce l’ulteriore supposizione che essi si
presentino in comorbilità.
Mi auguro che questo lavoro possa comunque essere considerato valido sotto
alcuni aspetti e che possa rappresentare per gli addetti ai lavori, un ulteriore
segnale da cui avviare un piano terapeutico, assistenziale ed educativo che
sia più completo e integrato.
I. B .
I
INTRODUZIONE
La frequenza con la quale si manifestano le malattie in una data popolazione e
l’intensità dell’impatto di queste sulla popolazione stessa, viene definita in
demografia e in epidemiologia come morbilità o, meno spesso, morbosità.
Questi stessi termini sono stati di recente modificati e ampliati, in ambito
sanitario, anche per adattarli alle nuove esigenze di una scienza, come la
medicina per l’appunto, che estende i propri orizzonti in maniera sempre più
veloce e rilevante.
Volendo infatti imbattersi in una semplice ricerca del termine co-morbilità,
chiunque troverebbe non pochi ostacoli, dal momento che tale vocabolo si
aggiunge, nella nostra lingua, alla lunga serie dei neologismi che la nuova
società e le nuove scoperte, rendono sempre più ricca e nutrita.
Tuttavia la letteratura scientifica sempre più spesso fa uso di tale vocabolo
con un’accezione specifica che, ovviamente, estende e amplifica il significato
della parola da cui deriva. Per comorbilità si può quindi intendere la
frequenza con cui due malattie, che possiedono di per sé una loro precisa
nosografia e che sono perciò identificate secondo precisi criteri diagnostici, si
possono chiaramente individuare contemporaneamente nello stesso soggetto,
affermandone la coesistenza ed escludendo quindi una cosiddetta “diagnosi
differenziale”.
Il termine comorbilità viene quindi sempre più spesso adoperato in ambito
clinico, specie dal momento che sempre più frequentemente si osservano
soggetti in “doppia diagnosi”, in particolare nelle patologie psichiatriche e
neuropsichiatriche, le quali per definizione presentano sintomi molto sfumati
e che spesso confinano con altre patologie. Inoltre questi stessi disturbi, non
presentando in molti casi un sostrato biologico, genetico o virale accertato,
non si manifestano nel soggetto che ne è affetto, in maniera così chiara e
inconfutabile, al contrario, si rivelano in modo del tutto soggettivo e con
II
differenti livelli di gravità dettati dalla quantità, dalla complessità e dalla
“qualità” con cui si manifestano.
Pertanto la necessità di rintracciare un termine che potesse riassumere la
coesistenza di due patologie in uno stesso individuo, si è mostrata negli ultimi
anni indispensabile.
Mi approprierò quindi, in questa trattazione, anch’io di tale neologismo,
alternandolo sporadicamente al suo sinonimo, “comorbidità”, anch’esso
frequentemente adoperato soprattutto nella letteratura scientifica in lingua
inglese, la quale rintraccia nel termine comorbidity, la traduzione più corretta
della forma italiana.
Tenterò di giungere ad una tesi, partendo dall’ipotesi che si possa attualmente
parlare di comorbilità anche nel caso del Disturbo Autistico e del Disturbo da
Deficit di Attenzione con o senza Iperattività. Cercherò, peraltro, di
corroborare o di confutare, i pochi studi che sono stati di recente condotti a
favore o contro tale ipotesi, attraverso uno studio preliminare retrospettivo
condotto su 114 piccoli pazienti venuti in contatto con l’équipe socio-sanitaria
dell’Ospedale Giannina Gaslini di Genova, Reparto di Neuropsichiatria
Infantile, con la quale ho avuto una collaborazione anche in vista di tale
studio.
Infine, per rendere al lettore più noto l’argomento trattato, ho ritenuto
opportuno che il presente lavoro dovesse illustrare, nei primi quattro capitoli,
in maniera più analitica e compilativa, sia l’autismo che il Disturbo da Deficit
dell’Attenzione/Iperattività; entrambi sono stati trattati secondo i diversi
aspetti che essi chiamano in causa, nel tentativo di restituire un quadro delle
patologie che fosse il più possibile chiaro anche se non approfondito,
includendo altresì la valutazione clinico-diagnostica per l’individuazione dei
due disturbi e descrivendo, in maniera sintetica, le più importanti e diffuse
III
scale di valutazione e gli esami diagnostici effettuati di routine sui soggetti
con sospetto di Autismo e di Disturbo dell’Attenzione.
La vasta trattazione antecedente al capitolo che più specificatamente si occupa
della comorbilità dei due disturbi, ha pertanto lo scopo di aiutare il lettore ad
orientarsi, con maggiore cognizione, negli studi effettuati sulla comorbilità
stessa di cui si parla nell’ultima parte del lavoro. Quest’ultimo si conclude,
infine, con una sezione dedicata alla presa in carico e all’intervento
psicoeducativo del bambino cui può essere attribuita una diagnosi di
comorbidità e affrontando la non facile concretizzazione del cosiddetto
“trattamento integrato”.
IV
CAPITOLO 1
CONOSCERE IL DISTURBO AUTISTICO
1.1 Definizione: da Kanner ai criteri del DSM-IV-TR
L’aggettivo “autistico” fu usato per la prima volta nel 1911 dal grande psichiatra Eugene
Bleuler, che lo utilizzò per identificare un particolare sintomo spesso presente nei soggetti
1
adulti affetti da schizofrenia. Questi ultimi, infatti, tendevano ad un isolamento e ad una
chiusura in se stessi, tale da restringere le relazioni con il mondo circostante e le persone.
Bleuler notò che i pazienti schizofrenici con cui entr in contatto negavano qualsiasi tipo
di vicinan a con gli altri ed escludevano qualsiasi cosa eccetto il proprio S Non a caso il
termine autismo coniato da leuler deriva dalla parola greca (autòs) traducibile con
l’espressione “se stesso” con la quale si riassume la peculiarità che condividono i soggetti
affetti d’autismo nel ritirarsi in se stessi
isognerà aspettare il 1943 prima che il termine “autismo” si introducesse per la prima
volta nella letteratura medica moderna, per merito del medico Leo Kanner, il quale
2
pubblicò una serie di studi effettuati su una ventina di bambini esaminati precedentemente
nel corso degli anni presso la clinica psichiatrica della “Johns Hopkins University” di
Baltimora.
Kanner, a differenza di Bleuler, impiegò il termine autismo, non per identificare un
sintomo caratteristico nella schi ofrenia dell’età adulta bensì come una sindrome ben
distinta dalle altre condi ioni psichiatriche e riferendola specificatamente all’infan ia
denominandola “Autismo precoce infantile”.
Durante gli anni ’40 vi era unanime accordo nel ritenere che Kanner avesse individuato
una nuova malattia che rientrava nell’ambito delle psicosi Tuttavia negli anni ’50 e ’60 si
1
Anche il termine “schizofrenia” fu coniato da E leuler
2
Si fa qui riferimento all’articolo di L Kanner intitolato “Disturbi autistici del contatto affettivo”,in
“Nervous Child” (1943)
1
scrissero numerosi articoli nello sforzo di differenziare l’autismo dalla schi ofrenia e/o dal
ritardo mentale.
Quasi contemporaneamente (1944) e all’insaputa l’uno dell’altro a Vienna l’allora
giovane psichiatra Hans Asperger stava anch’egli studiando un nuovo disturbo
psichiatrico (cui è ora legato il suo nome), dalle caratteristiche molto simili a quelle
dell’autismo ma in cui non erano presenti difficoltà linguistiche
Sia Kanner che Asperger avevano quindi individuato due disturbi che oggi identifichiamo
3
nello spettro dei Disturbi Pervasivi dello Sviluppo (Pervasive Developmental Disorders-
PDD), in cui rientrano il Disturbo Autistico (DA) e il Disturbo di Asperger.
Contrariamente alla schi ofrenia descritta da leuler l’autismo sembrava essere presente
sin dalla nascita pur manifestandosi in maniera più conclamata solo verso i tre anni, inoltre,
a differen a della schi ofrenia “all’autismo infantile” non faceva seguito nella maggior
parte dei casi, un deterioramento progressivo, anzi si osservavano molto spesso dei
4
miglioramenti con l’apprendimento e la crescita.
Kanner nella descri ione dei sintomi dell’autismo propone la presen a non casuale di
nove caratteristiche che accomunavano tali soggetti.
A distan a di oltre 60 anni dall’intui ione di Kanner in merito al DA (Disturbo Autistico)
la sua proposta non è stata del tutto confermata, ma non smentita, dai successivi studi in
merito all’argomento tuttavia alcune delle nove caratteristiche descritte dal medico sono
ancora oggi ritenuti criteri validi usati nelle attuali valutazioni diagnostiche e utilizzati
anche al livello internazionale. Si ritiene, pertanto, che talune caratteristiche inizialmente
indicate da Kanner che oggi sono ritenute solo aggiuntive nell’approccio diagnostico sono
probabilmente dovute ad un campionamento esiguo e non rappresentativo effettuato
durante i suoi studi.
3
Questa espressione si deve alla psichiatra inglese Lorna Wing, che mette in evidenza una concezione del
disturbo secondo cui, tra i soggetti affetti da autismo e disturbi simili e le altre persone, la differenza è di tipo
quantitativo, non già qualitativo.
4
Si escluda da questi casi il Disturbo Disintegrativo della Fanciullezza che sarà descritto nelle pagine
seguenti.
2
E’ utile a questo stadio fare una panoramica sui nove sintomi che Kanner riteneva
associabili al DA. Riporto qui di seguito tali sintomi in maniera riassuntiva e un breve
commento.
1. Incapacità di relazione/ interazione sociale con persistente isolamento
5
(“aloneness”)
2. Carenze nelle capacità comunicative e/o nel linguaggio in generale
3. Paura ossessiva dei cambiamenti e ripetitività monotona nei movimenti
6
(“sameness”)
4. Preferenza per oggetti inanimati che possono essere manipolati con abilità
5. Apparenti buone capacità cognitive, di apprendimento e di memoria
6. Disturbi dell’alimentazione
7. Disturbi nella coordinazione motoria
8. Assenza di tratti fisici che possano dimostrare la presenza di un disturbo
9. Atteggiamento freddo e distaccato dei genitori
Attualmente le caratteristiche sopra elencate, benché non siano tutte incluse nei criteri
diagnostici sono tuttavia considerate associate con alta frequen a all’autismo; in
particolare, come si vedrà più avanti, i primi tre sintomi descritti da Kanner sono oggi
contenuti nei più validi manuali diagnostici, mentre le restanti sei caratteristiche, trovano
spesso un riscontro nel DA, ma non sono indicative della presenza del disturbo salvo che
esse non siano associate in modo aggiuntivo ai primi tre sintomi.
1. INCAPACITA’ DI RELAZIONE SOCIALE
E’il sintomo primario dell’autismo e secondo Kanner sin dalla nascita è possibile notare
questa carenza. I bambini autistici infatti, possono manifestare fin da piccoli una simile
5
Il termine in inglese è quello usato dallo stesso Kanner per racchiudere, in un solo termine, il sintomo
descritto.
6
Idem nota 2
3
anomalia, ad esempio mantengono una postura rigida quando sono presi in braccio o non
ne anticipano il gesto allargando le braccia.
Attualmente non appare ancora confermato dalla letteratura il dato che la difficoltà
nell’intera ione sociale di questi pa ienti sia presente alla nascita, anche se in alcuni casi è
possibile riscontrarle molto precocemente. Nella maggior parte dei casi tali anomalie si
rendono evidenti tra i 6 e i 12 mesi, o addirittura oltre il secondo anno di vita.
2. DEFICIT NEL LINGUAGGIO E NELLA COMUNICAZIONE
Carenze nel linguaggio sono osservabili nella maggior parte dei bambini autistici
(escludendo momentaneamente la Sindrome di Asperger) e, anche quando appare presente
un linguaggio normostrutturato, esso non viene utilizzato con una funzione comunicativa.
In particolare questo si manifesta in molti casi con un linguaggio ecolalico che può anche
assolvere una funzione comunicativa.
Alcuni bambini autistici tendono a ripetere frasi sentite in determinati contesti
riproponendole all’occorren a allo scopo di esprimere un esigenza provata in quella
situazione, oppure più semplicemente ripetono una frase con lo scopo di riportare al
presente una situa ione piacevole ormai conclusa e di cui ricordano un’espressione precisa
Un’altra caratteristica riguarda il particolare uso dei pronomi personali con l’inversione
per esempio del “tu” e dell’”io” o ancora l’uso del proprio nome in sostitu ione della
prima persona singolare.
Esistono, come si può immaginare, numerose altre caratteristiche nel linguaggio di questi
soggetti di cui scriverò procedendo nella trattazione.
3. PAURA DEI CAMBIAMENTI E RIPETITIVITA’ MONOTONA
Anche questo sintomo si manifesta in maniera piuttosto precoce (tra i 2 e i 3 anni circa)
costituendo una caratteristica fondamentale del DA.
4
La ripetitività di movimenti si esplica in una serie di stereotipie del corpo e dei gesti del
tutto singolare. Tipico è lo sfarfallamento delle mani nei casi di eccitazione e/o allegria, il
piroettare su se stessi per lunghi periodi di tempo, i movimenti del capo e delle espressioni
del viso atipici etc.
La ripetitività monotona si sviluppa anche durante il gioco, caratterizzato da
perseverazione in attività apparentemente inutili e afinalistiche. Tipico è il mettere in fila le
macchinine, far girare le ruote di alcuni giochi, far rotolare gli oggetti che non hanno tale
funzione e così via.
Per quanto concerne invece la preferenza per la persistenza delle situazioni, è tipico del
soggetto autistico un attaccamento morboso alle routine; qualsiasi cambiamento può
suscitare nell’autistico rea ioni di pianto inconsolabile urla e strenua opposi ione Il
cambiamento rappresenta per questi soggetti con ogni probabilità, la rottura di un intimo
equilibrio tale “omeostasi” interna restituisce una sorta di sicure za al soggetto, da cui si
distacca con difficoltà.
L’intolleran a alle minime varia ioni della quotidianità rendono il bambino affetto da DA
difficile da gestire e da educare.
4. PREFERENZA PER GLI OGGETTI INANIMATI
Il tentativo del bambino di procurarsi un appagamento sensoriale, può essere rappresentato
da “forme autistiche” (Battistella, 1999), cioè sensazioni che il bambino si procura
annusando leccando e tastando gli oggetti e da “oggetti autistici” (Battistella, 1999) che
possono essere manipolati con una conseguente gratificazione sensoriale data dal materiale
7
con cui è costruito l’oggetto stesso
7
Cfr. Pier Antonio Battistella “Autismo infantile e psicosi in età evolutiva”, “Neuropsicopatologia dello
sviluppo” 1999 Edi io ni Piccin Padova
5