4
provincia; sono stati intervistati sedici rappresentanti di questo ambito, coinvolgendo tutte le
botteghe attualmente presenti sul territorio: due presidenti di cooperativa, una vicepresidente di
cooperativa, tre presidenti di associazione, tre soci lavoratori, uno dei quali fondatore, un
responsabile educativa assunta a tempo determinato, sei soci volontari, quattro dei quali fondatori;
la seconda traccia, comprendente ventuno domande, buona parte delle quali comune alla prima, era
riservata ai rappresentanti della grande distribuzione: l’idea iniziale era quella di intervistare un
campione più ampio, comprendente almeno un esponente di ogni grande catena di supermercati che
vendesse prodotti equosolidali; ma alla fine l’indagine si è limitata a due esponenti, ovvero agli
unici che hanno risposto positivamente alla richiesta di essere intervistati: si tratta di un brand
manager di Coop Italia e di un responsabile della category Drogheria alimentare di Nordiconad, che
seguono da vicino questo settore.
La suddivisione dei capitoli rispecchia quella interna alle interviste. Il primo esamina la realtà del
commercio equo e solidale per come essa si esprime nel contesto bolognese: definisce quante sono
le cooperative, le associazioni, e le botteghe da esse gestite, e quali le grandi aziende di
distribuzione di massa che si occupano di commercio equo e solidale; descrive le motivazioni alla
base della scelta di dedicarsi al commercio equo e l’organizzazione dell’attività, a livello di vendita
e di altre iniziative; viene anche posto l’accento sulla formazione dei prezzi, sulla loro trasparenza e
sulla loro eventuale competitività; sull’ entità e sulle ragioni della diffusione del commercio equo a
Bologna e in Italia, e sull’incidenza dello stesso rispetto al mercato globale.
Nel secondo capitolo si cerca di individuare le caratteristiche del tipico consumatore di prodotti
equosolidali; si indaga, inoltre, sulle attività di sensibilizzazione dirette al pubblico da parte degli
operatori e sulla proposta, ai clienti, di prodotti originali; sulla via per acquisire nuove fasce di
clientela e sulle motivazioni che inducono i consumatori a scegliere questo genere di prodotti; si
tratta poi il tema dell’influenza, esercitata dalle scelte dei consumatori, sul comportamento delle
aziende tradizionali; e quello del rapporto, per alcuni controverso, fra commercio equo e solidale e
consumismo.
Il terzo capitolo affronta alcune questioni che attualmente coinvolgono il movimento del commercio
equo e solidale, evidenziando la coesistenza di diverse anime all’interno di esso: il rapporto con la
grande distribuzione e con i marchi di garanzia, il rischio di rimanere fenomeno di nicchia, e quello,
opposto, di essere assorbito dal mercato tradizionale, smarrendo la sua identità. Sono esplorati,
inoltre, obiettivi, limiti e prospettive del commercio equo e solidale.
L’ultima domanda, in entrambe le tracce, richiedeva agli intervistati di esprimere una personale
opinione sulla globalizzazione odierna. Le risposte a questa domanda sono sintetizzate nelle
Conclusioni.
5
Capitolo 1 - Contesto e storia del commercio equo e solidale
1.1 Globalizzazione e squilibri fra Nord e Sud del mondo
Per comprendere il fenomeno del commercio equo e solidale dobbiamo considerare il contesto in
cui tale fenomeno è nato e si è sviluppato, ovvero il mondo contemporaneo: un mondo in cui a una
progressiva crescita della ricchezza complessiva della popolazione del pianeta si accompagnano, a
causa della distribuzione diversificata di essa, crescenti disuguaglianze tra i paesi sviluppati del
Nord e i paesi del Sud, cioè quei paesi che si trovano in una grave situazione di svantaggio dal
punto di vista dello sviluppo economico e sociale. Nel 1973 il rapporto fra il reddito globale dei
paesi ricchi e quello dei paesi poveri era di 44 a 1; oggi è di 74 a 1. L’85% di tutta la ricchezza
monetaria prodotta nel pianeta è controllato dal 20% più ricco di esso.
Secondo i dati forniti dal Rapporto sullo Sviluppo Umano 2003
1
, a dispetto della crescita
economica mondiale degli anni ’90, in questo decennio 54 paesi in via di sviluppo hanno registrato
una riduzione del proprio reddito medio. La Banca Mondiale dichiara, nel suo rapporto di fine
millennio, che negli anni’90 si è determinata una diminuzione della povertà globale, accompagnata
però, da un’accentuazione della stessa in alcune zone, come l’Africa subsahariana, dove i poveri
sono aumentati da duecentoquarantadue milioni a trecento milioni e l’America Latina (da
settantaquattro a settantasette milioni). Il miglioramento riguarda prevalentemente la Cina e, in
parte, l’India.Crescono inoltre le disparità tra ricchi e poveri all’interno dei singoli stati, e in questo
non fa eccezione la stessa Cina, dove le differenze fra le varie regioni si sono aggravate. Svariati
autori ritengono che le cause di tali disuguaglianze siano individuabili nel processo di
globalizzazione, che è tuttora in atto nel nostro pianeta; è per questa ragione che il termine
“globalizzazione”, di origine anglosassone, è uno dei più dibattuti del nostro tempo, al centro di
analisi di tipo economico, politico e sociologico, nonché di discussioni che vedono contrapposti i
suoi convinti sostenitori e i suoi accaniti detrattori. Tutti i partecipanti al dibattito concordano altresì
sulla necessità di operare per ridurre il forte squilibrio esistente tra Nord e Sud, sia per aspirazione a
una maggiore equità sociale, sia per scongiurare il pericolo di tensioni politiche tra paesi ricchi e
paesi poveri. Del termine “globalizzazione” esistono varie definizioni.
1
Tale rapporto viene pubblicato ogni anno dall’UNDP (United Nations Development Programme, Programma di
Sviluppo delle Nazioni Unite, istituito nel 1966) a partire dal’90. Il rapporto elaborato da tale agenzia ha introdotto
come nuova misurazione del progresso l’ISU, cioè l’Indice di Sviluppo Umano. Solitamente la crescita di uno stato
viene misurata in base al reddito procapite e al Prodotto Nazionale Lordo. L’ISU combina, invece, gli indicatori del
potere d'acquisto, dell'istruzione e di salute e longevità . Fonte: www.onuitalia.it
6
L’OCSE
2
ha definito la globalizzazione come “un processo attraverso cui mercati e produzione nei
diversi paesi diventano sempre più dipendenti tra loro, a causa della dinamica di scambio di beni e
servizi e attraverso i movimenti di capitale e tecnologia”
3
. Fra i vari paesi del mondo si è sviluppata
dunque, e si sta tuttora sviluppando, in un processo considerato irreversibile da diversi teorici, una
crescente interdipendenza, un’integrazione economica, ma anche politica e socio-culturale; tale
integrazione è determinata dal progresso tecnologico, il quale ha reso possibile la velocizzazione e
riduzione dei costi di comunicazioni e trasporti; è, inoltre, sollecitata e diffusa dall’eliminazione
delle barriere artificiali al commercio internazionale e alla circolazione di merci, capitali,
informazioni, persone (i flussi migratori coinvolgono oggi la maggior parte dei paesi del mondo),
servizi e conoscenze. La globalizzazione costituisce forse il fenomeno più rappresentativo del
nostro tempo, ma le sue origini vengono spesso collocate tra la fine del XV e l’inizio del XVI
secolo: è infatti in quel periodo che le grandi scoperte geografiche spalancano nuovi orizzonti agli
europei, i quali, acquisendo una nuova consapevolezza delle dimensioni del mondo, intraprendono
la loro espansione coloniale, che condurrà alla creazione di nuovi mercati e di un commercio
transoceanico. Una successiva tappa fondamentale del processo di globalizzazione è rappresentata,
a partire dal XVIII secolo, dalla diffusione della rivoluzione industriale, con le sue innovazioni
tecnologiche e le conseguenti moltiplicazione dei traffici e maggiore rapidità dei trasporti, che
sollecitano, tra l’altro, l’emigrazione di oltre sessanta milioni di europei; sempre in quel periodo, e
sempre in virtù dell’affermarsi della rivoluzione industriale, si assiste alla affermazione del
capitalismo. Il decollo definitivo della globalizzazione avviene però nel ‘900 e in particolare negli
ultimi decenni. Durante la seconda guerra mondiale vengono create due organizzazioni che
diverranno istituzioni-simbolo della globalizzazione economica: il Fondo Monetario Internazionale
(FMI) e la Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo (IBRD), oggi nota come Banca
Mondiale. Entrambe nascono nell’ambito della Conferenza internazionale monetaria e finanziaria
svoltasi nel luglio del’44 a Bretton Woods, nel New Hampshire (USA).A questo summit
partecipano i delegati di 44 paesi, schierati con gli Alleati, i cui obiettivi comuni consistono nel
ridefinire gli equilibri di un mondo sconvolto dalla Grande Depressione del ’29 e successivamente
dal secondo conflitto mondiale, e porre le condizioni per evitare il ripresentarsi di rovinose crisi
economiche. Proprio a tale scopo sono istituiti questi due grandi organismi finanziari internazionali,
la cui nascita segna l'inizio del processo di trasferimento della sovranità monetaria ed economica
nazionale a istituzioni sovranazionali.
2
Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, fondata nel 1960 e operativa dal 1961, ha sede a
Parigi, e riunisce 30 nazioni industrializzate. All’interno dell’OCSE vengono concertate le politiche economiche e
sociali dei paesi membri, il cui orientamento è fondamentalmente liberista.
3
Tonino Perna, Fair trade – La sfida etica al mercato mondiale, Bollati Boringhieri, Torino 1998, p.19
7
Compito del FMI è prevenire nuove depressioni finanziarie ed economiche, garantendo la stabilità e
la convertibilità delle monete. Rivestendo il ruolo di supervisore, si occupa di controllare le
politiche monetarie dei paesi membri, i quali a loro volta si impegnano a modificare le proprie
politiche in base alle indicazioni ricevute da tale organo. Il FMI, inoltre, è in grado di fornire un
aiuto finanziario a breve termine a quei paesi che attraversano crisi economiche legate a gravi
squilibri della bilancia dei pagamenti, è istituzione pubblica, ed è finanziato dalle quote di
sottoscrizione versate dai paesi membri (attualmente 184).Il fine della Banca Mondiale è invece,
inizialmente, quello di promuovere la ricostruzione dei paesi devastati dalla guerra, e poi di
favorire lo sviluppo economico e la riduzione della povertà a livello planetario, fornendo ai paesi
svantaggiati prestiti e assistenza tecnica su progetti specifici, come ad esempio la costruzione di
infrastrutture. Conta oggi 184 stati membri ed è finanziata dalle vendite di obbligazioni a governi,
banche, fondi pensione, imprese e privati in tutto il mondo. Come il FMI, ha la sua sede principale a
Washington.Al FMI e alla Banca Mondiale, si affianca, recentemente, un’altra protagonista della
globalizzazione: l’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC o WTO, World Trade
Organization) , l’unica istituzione globale che regola le relazioni commerciali tra gli stati; essa
subentra all’ inizio del 1995 al GATT (General Agreement on Tariffs and Trade, Accordo Generale
sul Commercio e sulle Tariffe doganali), che era stato firmato nel 1947 a Ginevra da 23 paesi. Tale
accordo aveva come obiettivo l’instaurazione di regole economiche che favorissero la
liberalizzazione del commercio, principalmente tramite l’abbassamento costante delle tariffe
doganali, in quanto alle politiche commerciali protezioniste, con cui i paesi aumentavano i dazi
doganali per tutelare le proprie economie, ma a spese dei vicini, era stata attribuita una grossa
responsabilità nella diffusione e nell’entità della depressione. Il GATT si era sviluppato negli anni
attraverso vari negoziati, indicati col nome di “round”. L’ultimo e più importante di essi, l’Uruguay
Round (1986-1994), terminò proprio con la creazione del WTO. Il WTO ha sede a Ginevra, conta
oggi 147 paesi membri e, diversamente dal GATT, il quale era un semplice accordo su basi
provvisorie, è una vera e propria istituzione; dopo l'ingresso della Cina, avvenuto nel 2001, oltre il
90% degli scambi internazionali di merci ricade sotto la giurisdizione di tale organizzazione.
Inoltre, mentre il GATT copriva solo il commercio dei beni industriali, il WTO interessa anche il
commercio dei servizi, dei prodotti agricoli e delle proprietà intellettuali. Il suo scopo rimane quello
di consentire lo sviluppo del commercio internazionale, favorendo l’avanzamento del processo di
liberalizzazione degli scambi mondiali. Questo organismo non stabilisce regole ma fornisce una
tribuna, una sorta di forum per lo svolgimento dei negoziati commerciali, e assicura che gli accordi
presi vengano rispettati. Il suo primo direttore, Renato Ruggiero, lo ha definito come “un processo
perpetuo di negoziazione”, un insieme di convenzioni commerciali in permanente evoluzione. Gli
8
accordi da esso promulgati si indirizzano generalmente verso la deregolamentazione e la
privatizzazione di molteplici settori, compresi servizi pubblici come istruzione, sanità e cultura.
Oggi il WTO, insieme al FMI e alla Banca Mondiale, è uno dei bersagli principali dei movimenti
antiglobalizzazione, che lo accusano di partecipare allo sfruttamento dei paesi meno sviluppati,
appoggiando gli interessi delle grandi aziende multinazionali, e di trascurare le questioni relative
alla salvaguardia ambientale.E’ nel corso degli anni ’80, periodo antecedente alla nascita del WTO,
che si assiste a una graduale evoluzione nei propositi delle istituzioni economiche internazionali.
Come sostiene il famoso economista Joseph Stiglitz
4
, il FMI presentava, al momento della sua
istituzione, un orientamento keynesiano, che sottolineava i fallimenti del mercato e il ruolo dei
governi nella creazione dei posti di lavoro. Tale orientamento viene sostituito negli anni’80 dal
ritornello del libero mercato, nell’ambito del Washington Consensus, cioè un insieme di accordi
informali fra gli organismi internazionali e il Tesoro degli Stati Uniti sulle politiche “giuste” da
applicare ai paesi in via di sviluppo. Il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale
cominciano così a condizionare gli aiuti ad un riaggiustamento, in senso liberista, delle politiche
economiche e sociali di un paese, con conseguenze spesso disastrose per i paesi poveri. La Banca
Mondiale passa, dal semplice sovvenzionamento di progetti, all’erogazione di finanziamenti di più
ampia portata, sotto forma di prestiti di adeguamento strutturale. Questo può avvenire, però, solo
con l’approvazione del FMI, il quale detta così le sue condizioni. Il FMI assume la funzione
principale di gestire l’indebitamento dei paesi in via di sviluppo e le crisi finanziarie nei paesi
emergenti; per poter usufruire dei suoi aiuti, gli stati devono però accettare i provvedimenti, spesso
drastici, che il FMI impone loro: liberalizzazioni troppo rapide, massicci tagli alla spesa pubblica,
austerità monetaria, privatizzazioni effettuate prima di aver creato una regolamentazione adeguata,
apertura eccessiva a merci e capitali esteri, chiusura delle imprese e delle banche meno redditizie
peggiorano le condizioni di stati già in gravi difficoltà e impoveriti dal debito. Stiglitz sottolinea
che proprio i paesi, come la Cina o, ad esempio, l’Uganda e il Botswana, che non hanno seguito
rigorosamente le regole imposte dal FMI, ma hanno valorizzato il ruolo del governo come guida
dell’economia, e realizzato l’apertura gradualmente, hanno ottenuto i risultati migliori. Paesi come
Thailandia, Indonesia e Argentina, applicando alla lettera le prescrizioni del FMI, hanno invece
conosciuto grosse crisi finanziarie ed economiche.Con la caduta, nel 1989, del muro di Berlino, e
con la fine della divisione del mondo in due blocchi antagonisti, la globalizzazione si impone
ulteriormente, e anche i paesi ex-comunisti si avviano alla transizione verso l’economia di mercato
e la liberalizzazione. La globalizzazione degli anni’90, consacrata dalla nascita del WTO, e dallo
4
Joseph E. Stiglitz, premio Nobel nel 2001, ex consigliere economico di Bill Clinton (’93 – ’97) e in seguito, per
quattro anni, vicepresidente della Banca Mondiale (che ha abbandonato, non condividendone l’ispirazione), è autore del
testo La globalizzazione e i suoi oppositori, Einaudi, Torino 2003
9
sviluppo delle ICT (Information and Communication Technology), Internet in primis, si può
dunque definire una globalizzazione di stampo neoliberista, permeata da un’ideologia che viene
denominata “globalismo” dal sociologo tedesco Ulrich Beck L’autore, con il termine globalismo
indica “il punto di vista secondo cui il mercato mondiale rimuove o sostituisce l’azione politica,
vale a dire l’ideologia del mercato mondiale, l’ideologia del neoliberismo. Essa procede in maniera
monocausale, economicistica, riduce la multidimensionalità della globalizzazione ad una sola
dimensione (quella economica, a sua volta pensata in maniera lineare) e considera tutte le altre
dimensioni – ecologica, culturale, politica, civile –subordinandole al predominio del sistema di
mercato mondiale. Naturalmente non si intende con ciò negare o ridurre il significato centrale della
globalizzazione economica (…). Il nucleo ideologico del globalismo sta piuttosto nel fatto che in
esso viene liquidata una differenza fondamentale della prima modernità, e cioè quella tra politica ed
economia. Il compito centrale della politica, fissare le condizioni-quadro giuridiche, sociali ed
ecologiche, imprescindibili, a partire dalle quali l’agire economico in generale diviene socialmente
possibile e legittimo, è perduto di vista o viene taciuto.”
5
. Si tratta di un’ideologia che
auspicherebbe il primato dell’economia sulla politica, basata sulla fiducia nella “mano invisibile”
del mercato che, libera da restrizioni, giungerebbe a diffondere ovunque il benessere. Il sociologo
francese Pierre Bourdieu definisce il neoliberismo come “un’arma di conquista. Si fa portatore di un
fatalismo economico contro il quale ogni resistenza sembra vana.”
6
.Oggi assistiamo al progressivo
intensificarsi degli scambi commerciali, che aumentano mediamente del 7% all’anno. Tuttavia
l’aumento del commercio mondiale, più rapido rispetto a quello della produzione, è limitato
essenzialmente al mondo occidentale e all’Asia. Nonostante sia notevolmente cresciuta tra il 1990 e
il 2000, la partecipazione agli scambi da parte dei paesi dell’America Latina rimane scarsa, mentre
l’Africa risulta in netto ritardo. Le aree sviluppate sembrano dunque prediligere gli scambi con altre
aree sviluppate. L’Europa occidentale esporta i due terzi delle proprie merci verso altri paesi
dell’Europa occidentale. L’America settentrionale esporta circa il 60% delle merci verso il proprio
territorio o verso l’Europa occidentale. L’Asia contribuisce per un quarto al volume del commercio
mondiale, ma la metà delle sue esportazioni è indirizzata alla stessa zona asiatica. Gli investimenti
stranieri nel Sud sono concentrati nei paesi del Sud-Est asiatico (Cina, Malesia, Thailandia,
Indonesia, Corea del Sud) e in alcuni sudamericani (Messico, Argentina, Brasile, Venezuela),
trascurando l’Africa subsahariana e l’Asia meridionale. E’ inoltre in aumento costante la quota di
commercio mondiale detenuta dalle grandi multinazionali del Nord, maggiori beneficiarie, secondo
gli oppositori della globalizzazione, dei dettami di FMI, Banca Mondiale e WTO.
5
Ulrich Beck Che cos’è la globalizzazione, Carocci, Roma 1999, p.22
6
in Jean Ziegler, La privatizzazione del mondo, Marco Tropea Editore, Milano 2003,p.53
10
Proprio allo sviluppo delle multinazionali (General Motors, Coca Cola, Microsoft, per citarne
alcune) si deve la rapida crescita degli scambi internazionali. Le vendite di ognuna delle cento
maggiori società multinazionali private, di cui la maggior parte statunitensi, superano le
esportazioni totali dei centoventi paesi più poveri del pianeta. L’attività produttiva di queste grandi
imprese è organizzata su scala mondiale e ciò permette loro di godere dei vantaggi dei vari paesi in
cui sono presenti. La loro filosofia si può sintetizzare, come ha scritto l’economista americano
Lester Thurow, nel “produrre dove i costi sono più bassi, e vendere dove i prezzi sono più alti”
7
. I
governi dei paesi più svantaggiati, per attirare nei loro territori i capitali stranieri, offrono
manodopera a basso costo, condizioni fiscali estremamente convenienti, grandi aree da sfruttare
senza controllo sull’impatto ambientale, cosa che ha determinato numerosi insediamenti di
produzioni inquinanti e incrementato, tra l’altro, il disboscamento delle foreste tropicali. Dalla
concorrenza fra i paesi del Sud, per attirare investimenti stranieri, sono nate anche le cosiddette
“zone franche”, quelle che in America Latina sono chiamate “maquilladoras”. Le imprese presenti
nelle zone franche godono di una sorta di extraterritorialità economica e politica rispetto ai paesi in
cui operano, ottenendo profitti enormi grazie al costo particolarmente basso della manodopera
locale, agli sgravi fiscali, all’eliminazione di ostacoli all’esportazione. Nel 1995 se ne contavano
circa duecentocinquanta, dislocate in settanta paesi del Sud, di cui centotrenta in America Latina,
ottantacinque in Asia e una trentina in Africa.E’ vero che, per mezzo degli investimenti delle
multinazionali, sono stati creati quattro milioni e mezzo di posti di lavoro, offrendo a volte
l’alternativa di un lavoro in fabbrica a chi non vedeva altra possibilità che una vita da bracciante
agricolo e introducendo nuove tecnologie in quei paesi; ma, d’altronde, le condizioni di lavoro nelle
fabbriche sono generalmente dure, con salari estremamente bassi, orari massacranti, precarietà del
posto, spesso mancanza di misure di sicurezza nelle fabbriche, scarsa o inesistente garanzia
sindacale per i lavoratori. Questo trattamento non risparmia le donne e, spesso, i bambini. Le
multinazionali possono evitare di assumersi responsabilità sulle condizioni dei lavoratori, poiché
possono scaricarla sulle imprese locali a cui, il più delle volte, danno in appalto la produzione al
prezzo più basso possibile.Le multinazionali agroalimentari, si basano, invece, proprio sul lavoro in
piantagione dei braccianti agricoli. Ad esempio, il settore delle banane è dominato da tre
multinazionali che detengono il 70% della produzione, mentre il 40% del mercato del caffè è in
mano a quattro grandi imprese. Alcune multinazionali controllano tutto il ciclo produttivo, dalla
coltivazione alla vendita; altre, quelle commerciali, si occupano solo dell’intermediazione.
7
in AA.VV., La sfida del Fair Trade in Europa – Annuario del commercio equo 2001-2003, EFTA, p.11
11
Oltre a risentire delle paghe basse, della mancanza di assicurazione sociale e tutela sindacale, e di
orari analoghi a quelli degli operai, i braccianti sono esposti alle intossicazioni da pesticidi, senza
peraltro usufruire di assistenza sanitaria. Accanto alle grandi piantagioni vi sono i piccoli
appezzamenti di proprietà dei contadini locali, i quali coltivano i loro prodotti per l’esportazione,
vendendoli a volte direttamente alla multinazionale commerciale, a volte ai commercianti locali. I
contratti di produzione stipulati con le multinazionali prevedono frequentemente che il contadino
usi semi, fertilizzanti e antiparassitari acquistati dalla stessa azienda. Quelle vendute dall’azienda
sono spesso sementi ibride ad alta resa, costose, in quanto sotto la protezione del diritto di proprietà
intellettuale
8
(è il caso dei semi transgenici), e il loro utilizzo compromette la biodiversità
9
,
riducendo la varietà delle colture praticate. La multinazionale, in base al contratto col piccolo
produttore locale, si impegna poi ad acquistare i prodotti che ha ordinato, se di buona qualità e
consegnati entro i termini stabiliti, lasciando ai contadini i rischi di produzione (come siccità,
gelate, epidemie), e quelli legati all’andamento del mercato, che influenza i prezzi. Anche i
contadini che vendono i loro prodotti ai commercianti e agli intermediari locali risentono delle
variazioni dei prezzi dei prodotti, che sono soggetti alle fluttuazioni del mercato; il mercato, da
parte sua, è reso fortemente altalenante dalle speculazioni finanziarie, aumentate enormemente negli
ultimi anni in virtù della maggiore libertà di circolazione dei capitali. Ad esempio, nel caso del
caffè, quando i prezzi sono bassi e si prevede un raccolto scarso, come all’inizio del 1997, gli
speculatori investono largamente, e questa improvvisa domanda spinge i prezzi al rialzo. Quando
gli investitori decidono di intascare il profitto, i prezzi crollano nuovamente, con gravi conseguenze
per i produttori locali, che finiscono spesso per fallire. I piccoli contadini, inoltre, avendo in genere
urgenza di vendere il loro prodotto, non possono permettersi di negoziare sulle cifre, e accettano i
8
Per diritto di proprietà intellettuale si intende comunemente il diritto esclusivo, per l’autore di una determinata
creazione, di usufruirne per un certo lasso di tempo. Sono diritti di proprietà intellettuale i diritti d’autore e i diritti di
proprietà industriali sui marchi di fabbrica e sulle creazioni tecnologiche.
Nel 1995 è entrato in vigore nell’ambito del WTO un insieme di accordi sugli aspetti della proprietà intellettuale: il
TRIPS (Trade-Related aspects of Intellectual Property Rights, Aspetti Commerciali dei Diritti di Proprietà Intellettuale)
Il TRIPS è accusato di favorire gli interessi delle multinazionali, le quali, in virtù di tali accordi, possono disporre del
monopolio dei prodotti farmaceutici ( a scapito delle popolazioni del Sud) e anche ottenere facilmente i brevetti su
organismi viventi qualora vi siano applicate modifiche, anche minime, in laboratorio (come nel caso degli OGM,
Organismi Geneticamente Modificati). Fonti: www.azioneaiuto.it; RAMONET IGNACIO, CHAO RAMON,
WOZNIAK JACEK, Piccolo dizionario critico della globalizzazione, Sperling & Kupfer, Milano 2004.
9
La biodiversità è l'insieme di tutte le possibili combinazioni di geni che si trovano nelle specie animali e vegetali
esistenti in natura. Essa rappresenta un indispensabile "serbatoio genetico" che consente il mantenimento della vita sulla
terra. Più specie esistono maggiore è la probabilità che qualcuna di queste resista agli attacchi di nuove epidemie o di
cambiamenti climatici e ambientali
L'agricoltura che non è basata su sistemi compatibili con l'ambiente e che dipende dall'utilizzo massiccio di prodotti
chimici e sintetici, come nella coltivazione degli OGM, ha accelerato il degrado degli ecosistemi naturali,
compromettendo la biodiversità con la scomparsa di specie e di varietà coltivate. Fonti: De Mauro Tullio, Dizionario
della lingua italiana, Paravia, Milano 2000; www.ministerosalute.it
12
prezzi bassi loro imposti da intermediari e commercianti, non riuscendo a volte a coprire neanche i
costi di produzione. Alla fine del percorso, il prezzo al dettaglio è sette volte più alto rispetto a
quello pagato al produttore. Un altro grave svantaggio per i piccoli produttori locali dei paesi del
Sud risiede in quella che è, secondo vari autori, una grossa contraddizione della globalizzazione: i
paesi del Sud vengono sollecitati dagli organismi economici internazionali alla liberalizzazione e
all’ abbattimento delle proprie barriere; ma gli Stati Uniti e l’Unione Europea proteggono i propri
mercati agricoli e tessili con dazi doganali e vincoli che limitano l’importazione dei prodotti dei
paesi in via di sviluppo. Ad esempio, i paesi avanzati impongono, per tutelare gli eventuali
consumatori, determinati standard produttivi (come quelli di tipo sanitario), cioè requisiti che i
prodotti devono presentare per essere importati. La mancanza di denaro e tecnologie impedisce
facilmente ai paesi più poveri di elaborare standard in linea con tali requisiti, e ciò costituisce un
ostacolo.Le esportazioni di USA e UE sono invece sovvenzionate, in modo tale che i loro prodotti
vengono immessi sui mercati dei paesi del Sud a prezzi bassi con cui i prodotti locali non possono
competere.Gli effetti della globalizzazione assumono quindi spesso connotazioni negative,
aggravando in molti paesi situazioni economiche già critiche.La presa di coscienza di tali aspetti
deleteri del processo di globalizzazione da parte di una consistente fetta della società civile
internazionale ha dato vita ad un ampio movimento di opinione, capace di attirare l’attenzione dei
media; è il caso della protesta di cinquantamila manifestanti in occasione del vertice del WTO di
Seattle, o delle manifestazioni nel contesto del G8 di Genova, pur con i loro risvolti drammatici
.Questo movimento è spesso definito genericamente come “no-global”, ma è costituito da anime
molto diverse, di ispirazione, per quanto riguarda l’Italia, sia cattolica che laica: Organizzazioni
Non Governative (ONG), associazioni solidaristiche e pacifiste, leghe ambientaliste, cooperative
sociali, strutture della sinistra antagonista, sindacati, associazioni di consumatori. I diversi attori del
movimento no-global, in realtà, il più delle volte, dichiarano di non essere affatto contro la
globalizzazione in sè, ma di aspirare a una globalizzazione diversa, più solidale, “dal volto umano”.
Non vengono infatti negati gli aspetti positivi e le potenzialità della globalizzazione, come lo
sviluppo economico, la diffusione di tecnologie e conoscenze in aree che un tempo ne erano
escluse, gli scambi culturali e la conseguente sprovincializzazione (che ha come rovescio della
medaglia la tendenza all’omologazione culturale secondo il modello occidentale); viene bensì
contestato il modo iniquo in cui la globalizzazione viene condotta. Il movimento è vasto e
variegato, ma ha obiettivi comuni. Tali obiettivi sono dichiarati nel manifesto approvato il 4
febbraio del 2002 a Porto Alegre, dove si è svolto il Forum Sociale Mondiale, che ha riunito i
movimenti sociali di tutto il mondo: annullamento del debito dei paesi poveri, istituzione della
13
Tobin Tax
10
, tutela dell'ambiente e della biodiversità, opposizione alle privatizzazioni, sostegno ai
diritti dei lavoratori, e delle donne, diffusione della democrazia nel mondo. Tutti condannano il
terrorismo, ma sono anche contro la guerra. Nell’ambito di questo movimento si sviluppa la
consapevolezza, nella società civile, della possibilità di agire “dal basso” contro le ingiustizie della
globalizzazione. I cittadini, in quanto consumatori, hanno i mezzi per punire i comportamenti privi
di etica delle grandi aziende e promuovere lo sviluppo sostenibile. Gli strumenti utilizzabili sono la
denuncia delle azioni inique delle multinazionali attraverso campagne di sensibilizzazione; il
boicottaggio, cioè la sospensione degli acquisti di determinati prodotti per indurre le società a
modificare i loro comportamenti; il consumo critico, cioè la scelta degli articoli da comprare basata
sulle scelte delle aziende produttrici. I risultati non mancano. Varie imprese hanno reagito, ad
esempio, creando dei codici di condotta (famoso quello della Levi’s), che fissano i principi etici che
devono tassativamente essere osservati dalle imprese straniere a cui viene trasferita la produzione.
Ciò denota l’efficacia delle azioni dei consumatori, anche se peraltro permangono dubbi sul fatto
che i requisiti siano sempre rispettati (ad esempio per la scarsità di controlli esterni sull’operato
delle imprese). L’idea di orientare i propri consumi in senso etico è alla base del successo del
commercio equo e solidale, che ha conosciuto negli ultimi anni una forte espansione, offrendo un
buon esempio di economia e globalizzazione alternative.
10
La Tobin Tax, proposta nel 1972 dall’economista statunitense James Tobin, Premio Nobel per l’economia nel 1981,
sarebbe un’imposta da applicare sulle transazioni internazionali allo scopo di scoraggiare la speculazione finanziaria,
rendendola eccessivamente onerosa. Fonte: IGNACIO RAMONET, RAMON CHAO, JACEK WOZNIAK, Piccolo
dizionario critico della globalizzazione, Sperling & Kupfer, Milano 2004.
14
1.2. Storia del commercio equo e solidale
La prima esperienza di commercio equo e solidale risale alla metà del ‘900. Già all’epoca vi è un
forte squilibrio fra il Nord, proteso verso l’arricchimento e il benessere, e il Sud, che versa in
condizioni di estrema povertà. Si deve alla statunitense Edna Ruth Byler, moglie di Joe Byler,
volontario del Comitato Centrale Mennonita
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, l’iniziativa di costituire i cosiddetti “Ten Thousand
Villages”: si tratta di gruppi che intraprendono relazioni di scambio, basate su principi analoghi a
quelli propri del commercio equo e solidale, con alcune comunità povere del Sud.Alla fine degli
anni Cinquanta, è invece l’Organizzazione Non Governativa inglese (ONG) OXFAM (Oxford
Committee for Famine Relief, Comitato di Oxford per l’Aiuto alla Fame) a iniziare a vendere nei
negozi della propria associazione dei puntaspilli imbottiti realizzati a Honk Kong per opera di
profughi cinesi lì rifugiatisi. OXFAM è stata fondata da un gruppo di quaccheri
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e da altri gruppi
religiosi ad Oxford nel 1942, per alleggerire il blocco navale inglese e, a partire dalla fine della
seconda guerra mondiale, ha cominciato ad interessarsi al problema della fame nel mondo,
avviando progetti di cooperazione nei paesi in via di sviluppo. Nello stesso anno, fra
maggio e giugno a Ginevra, si tiene la prima conferenza delle Nazioni Unite
per il commercio e lo sviluppo (UNCTAD), nata per rispondere a una
richiesta dei Paesi più svantaggiati. Essi rivendicano una maggiore considerazione dei propri
interessi da parte delle istituzioni e dei forum internazionali a carattere economico, cioè la Banca
Mondiale, il FMI, e il GATT. In quell’occasione viene lanciato lo slogan "Trade not aid"
(“Commercio, non aiuto”) , per sintetizzare il nuovo orientamento strategico delle politiche di
sviluppo, volte, cioè, a favorire un maggior equilibrio nella distribuzione della ricchezza mondiale,
tramite il miglioramento delle condizioni di vita nei paesi meno sviluppati. Fino a quel momento le
nazioni industrialmente sviluppate hanno essenzialmente evaso il problema dell'accesso al mercato
dei paesi svantaggiati, preferendo offrire a questi paesi prestiti ed aiuti allo sviluppo, secondo un
approccio fondamentalmente caritatevole e paternalista. Nel 1968 si svolge a Delhi la seconda
conferenza UNCTAD: anche in questo summit viene preso in considerazione il motto “Trade not
Aid”, che sarebbe, secondo un’opinione diffusa, il metodo migliore di cooperazione allo sviluppo,
in virtù di una maggiore equità.
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Il Comitato Centrale Mennonita (Mennonite Central Committee, MCC) è un’organizzazione pacifista e umanitaria
americana, legata alla Chiesa Mennonita. La Chiesa Mennonita, fondata dal riformatore olandese Menno Simons nel
XVI secolo, si caratterizza per il rifiuto della guerra,della pena di morte e del giuramento. Fonte: www.mcc.org
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I quaccheri sono i seguaci del movimento religioso protestante nato in Inghilterra nel XVI secolo, caratterizzato dal
rifiuto della violenza, da uno stile di vita frugale e da un accentuato spirito caritativo. Fonte: : De Mauro Tullio,
Dizionario della lingua italiana, Paravia, Milano 2000
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In quello stesso periodo, un altro paese anglosassone ex colonialista si mostra particolarmente
sensibile alle problematiche legate allo sviluppo: in Olanda, alcuni gruppi di solidarietà, Cane Sugar
Groups, iniziano a esprimere un messaggio politico, attraverso la vendita dello zucchero di canna:
"Comprando lo zucchero di canna, puoi aumentare la pressione sui governi dei paesi ricchi perché
anche i paesi poveri abbiano un posto al sole della prosperità". L'evoluzione e lo sviluppo di questi
gruppi portano alla creazione delle prime Botteghe del Mondo. La prima viene inaugurata nel 1969.
Le Botteghe vendono, oltre alla canna da zucchero, anche prodotti di artigianato, importati, a
quell'epoca, da SOS Wereldhandel, che, nata nel 1959 nella cittadina di Kerkrade, importa già da
alcuni anni prodotti da paesi in via di sviluppo e , nel tempo, diventa Fair Trade Organisatie,
secondo importatore europeo per volume d'affari dopo GEPA in Germania. Fondata da un gruppo di
giovani del Partito Cattolico Olandese, ha intrapreso le proprie attività con una campagna per
portare latte in polvere in Sicilia (anche l'Italia, e in particolare il Sud del paese, è allora in via di
sviluppo). Il principio ispiratore di questa organizzazione è di raccogliere
fondi e fornire assistenza finanziaria a gruppi di produttori in aree economicamente svantaggiate,
aiutando questi gruppi ad affrancarsi dalla dipendenza nei confronti dei paesi ricchi. L’aiuto
finanziario porta alla creazione di laboratori di produzione artigianale in vari paesi del Sud del
mondo. Tuttavia, ben presto si pone il problema della commercializzazione di tali prodotti, molto
ridotta sul mercato locale. SOS Wereldhandel comincia, così, ad importare questi prodotti in
Olanda, vendendoli attraverso gruppi di solidarietà ed attraverso le prime Botteghe del Mondo.
Gli anni 60, vedono l’ emergere dei principi basilari di quello che poi sarà chiamato "Fair Trade",
tradotto in Italia come "Commercio Equo e Solidale". I primi promotori del commercio equo nei
paesi di Africa, America Latina e Asia verificano rapidamente che una delle necessità di base di
queste popolazioni è trovare un mercato per i propri prodotti. Comprare questi prodotti, favorendo
l’ occupazione a livello locale, e rivenderli nel Regno Unito, è una forma di cooperazione molto più
rispettosa della dignità delle popolazioni locali, rispetto al classico approccio di "charity". Le
popolazioni svantaggiate nei paesi in via di sviluppo non sono più trattate alla stregua di
"mendicanti" bisognosi di elemosine, ma come partner commerciali che vendono i loro prodotti a
un giusto prezzo.
Nel 1965 OXFAM lancia il programma "Bridgehead", con il quale viene intrapresa l'importazione
di articoli di artigianato da Africa, Asia ed America Latina. "Bridgehead" diviene ben presto la
prima ATO (Alternative Trade Organisation, Organizzazione del Commercio Alternativo), centrale
di importazione il cui obiettivo consiste nel creare una relazione commerciale fra contadini ed
artigiani dei Paesi del Sud e consumatori dei Pesi del Nord.
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Agli inizi degli anni ‘70 si assiste ad un primo sviluppo europeo del Commercio Equo, testimoniato
dal fiorire in tutta Europa di Botteghe del Mondo. In Olanda ne vengono aperte 120 in poco tempo.
Nell’area d’influenza tedesca, sono stati soprattutto gli ambientalisti e le Chiese a rivestire un ruolo
di primo piano nella diffusione delle Botteghe del Mondo. In Inghilterra, come abbiamo visto, lo
stesso ruolo è stato svolto principalmente dalle ONG. In vari paesi vengono istituite centrali di
importazione (ATOs): Belgio, Germania, Svizzera, Austria, Francia, Svezia. Inizialmente si tratta di
ONG o di imprese private che importano prodotti dal Sud del Mondo per rivenderli in Europa
attraverso le Botteghe del Mondo (che allora si chiamavano anche Third World Shops), oppure per
posta, nelle fiere, nei mercatini parrocchiali e missionari.
Fra il 1974 e 1975, si apre una nuova fase, nella storia del commercio equo e solidale, definibile
come “fase politico-ideologica”: in questo periodo si realizza un collegamento fra le idee ispiratrici
del Commercio Equo e i principi affini del movimento operaio e dei vari movimenti sociali presenti
in quell’epoca (terzomondisti, antinucleari, ambientalisti, femministi).
A partire dal 1977 i prodotti vengono acquistati non solo dai piccoli produttori, ma anche da
produzioni nazionalizzate dei paesi socialisti, come la Tanzania, per esempio. La parola
"solidarietà" viene affiancata a "Fair Trade" ed usata spesso nell’attività di comunicazione e
sensibilizzazione svolta dalle ATOs. Nonostante quest' avvicinamento ideologico ai movimenti
alternativi dell'epoca, il commercio equo conserva, tuttavia, una sostanziale indipendenza rispetto ai
partiti politici. Risale a questa fase l'importazione di prodotti recanti un messaggio politico o di
solidarietà internazionale: caffè dal Nicaragua e dalla Tanzania (governi socialisti) o dai Paesi
dell'African Frontline, come sostegno alla lotta anti-apartheid in Sudafrica. In particolare, il caffè
del Nicaragua, prodotto “storico” del commercio equo e solidale, diviene simbolo dell’appoggio
alla rivoluzione sandinista, vista come rifiuto e denuncia della politica imperialistica degli Stati
Uniti, che si è espressa, in questo specifico contesto, nell'embargo e nell'addestramento e sostegno
alla controrivoluzione.
Tale impostazione rimane per lungo tempo caratteristica del commercio equo, al punto di
contraddistinguere anche il sorgere di questo movimento in Italia (le confezioni di caffè del
Nicaragua importato da CTM, contengono, fino al 1991, un esplicito sostegno alla rivoluzione
sandinista).
Nei primi anni 80, in seguito all’affermazione delle politiche neoliberiste, il numero di paesi in via
di sviluppo è aumentato, così come il numero di persone al di sotto della soglia di povertà fissata
dalla Nazioni Unite. Il risultato di queste politiche è che, quando i prezzi delle materie prime,
incluso quelle alimentari, crollano a causa delle fluttuazioni del mercato internazionale, le
conseguenze sono disastrose per i piccoli produttori dei paesi più svantaggiati. Molti di questi,