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Introduzione
La guerra del Kosovo, che viene fatta coincidere con l’operazione della Nato Allied
Force, durò 78 giorni, dal 24 marzo al 10 giugno 1999. La guerra fece nascere un
nuovo, ampio dibattito, che si protrasse anche sui giornali, e che contribuì a rimettere
in discussione le categorie tradizionali della politica moderna
1
.
Nonostante siano passati dieci anni dal conflitto nella regione, la società kosovara è
ancora polarizzata e le stesse dinamiche che condussero alla guerra del 1998-1999
sono ancora delle micce pronte ad essere accese.
Roland Dannreuther aveva osservato che l’importanza della crisi del Kosovo si basava
sul fatto che essa si poteva considerare «a “prism through which some of the most
contentious and unresolved questions of contemporary international politics have been
debated”»
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Il conflitto in Kosovo fu una prova cui venne sottoposta l’opinione pubblica
occidentale. L’importante novità che caratterizza questo conflitto, nell’ambito della
storia italiana, è il fatto di essere la prima guerra europea che vide la partecipazione
del nostro Paese dopo la fine della seconda guerra mondiale, che sembrava segnare
uno spartiacque imprescindibile della Storia, in seguito al quale il continente europeo
non si sarebbe più macchiato dei crimini che vide commettere nel proprio territorio (e
non solo) durante la prima metà del ventesimo secolo.
Una guerra, fa notare acutamente lo storico Angelo D’Orsi, «[…] i cui attori (gli
aggressori) non hanno mai fatto ricorso alla parola stessa [guerra, ndr], preferendo,
oltre a tutta una serie di espressioni parafrastiche, la denominazione asettica (ufficiale)
di “Operazione Allied Forces”»
3
.
La decisione di affrontare questo argomento ha suscitato in me non poco timore,
soprattutto a causa della complessa trama storica e politica ad esso sottesa, che però
mi ha dato la possibilità di conoscere un tema di storia contemporanea ancora oggi
dibattuto dagli studiosi; inoltre, la scelta di osservarlo attraverso la “lente” di due
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Cf. Raffaella Gherardi, Il futuro, la pace, la guerra. Problemi della politica moderna, Roma, Carocci
editore, 2007, p. 109. Gherardi, inoltre, specifica: «Anche in Italia, come nel panorama internazionale
della ricerca, la riflessione teorica sui caratteri delle guerre contemporanee ha subito una potente
accelerazione dopo la guerra in Kosovo e particolarmente a seguito degli avvenimenti succeduti all’11
settembre 2001», ivi, p. 129.
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Roland Dannreuther, “War in Kosovo: history, development and aftermath”, in M. Buckley and S.
Cummings (eds.), Kosovo: Perceptions of War and Its Aftermath, London, Continuum, 2001, p. 13.
3
Angelo D’Orsi, I chierici alla Guerra. La seduzione bellica sugli intellettuali da Adua a Baghdad,
Torino: Bollati Boringhieri, 2005, p. 182.
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quotidiani italiani, per giunta abbastanza distanti tra loro come il Corriere della Sera
e il manifesto, fornisce una base di osservazione particolare, da un punto di vista sia
qualitativo (in un certo senso, trattandosi di periodici coevi al conflitto del 1999,
potrebbero integrare la schiera delle fonti primarie a disposizione) che quantitativo
(dato che tutti i 78 giorni di bombardamento sono stati seguiti con grande attenzione
da entrambi i quotidiani).
Ho inserito una introduzione storica dedicata ad avvenimenti salienti della storia del
Kosovo, partendo dalla famosa battaglia di Kosovo Polje del 1389, offrendo poi una
sintetica panoramica della storia di questa regione nel ventesimo secolo.
Sono stati poi presi in considerazione articoli, editoriali e cronache riferiti a tre episodi
del conflitto: lo scoppio della guerra, il 24 marzo; il bombardamento Nato sulla sede
televisiva serba a Belgrado del 23 aprile e l’accordo di pace firmato a Kumanovo il 9
giugno 1999.
Ho preso in esame anche articoli dedicati a un episodio precedente l’inizio dei
bombardamenti, ovvero l’eccidio di Raçak, risalente alla metà di gennaio del 1999,
che ha rappresentato una motivazione importante, agli occhi dell’opinione pubblica,
per lo scoppio del conflitto due mesi dopo.
Ogni capitolo è introdotto da una breve cornice temporale. Per gli episodi della guerra
che ho scelto di prendere in considerazione, ho letto le pagine dedicate dai due
quotidiani del primo e del secondo giorno seguenti gli avvenimenti, e talvolta anche di
qualche giorno successivo, se ritenevo ci fossero interventi o articoli interessanti che
fornivano ulteriori indicazioni sul modo in cui i due quotidiani raccontavano gli
episodi analizzati.
I titoli rivestono un ruolo importante nell’analisi condotta in questo elaborato. È stato
stimato che il “lettore tipo” dei quotidiani nazionali, formati da circa quaranta-
cinquanta pagine, con una media di dieci minuti dedicati ad ogni pagina, dovrebbe
metterci almeno cinque o sei ore per leggerlo da cima a fondo. La maggior parte dei
lettori dedica alla lettura del giornale meno di trenta minuti
4
. Questo fatto, come ben
sanno gli esperti di informazione, è centrale nella definizione dei titoli, che
contribuiscono a ridurre i tempi di lettura del quotidiano in quanto forniscono al lettore
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Cfr. Alberto Papuzzi, in collaborazione con Annalisa Magone, Professione giornalista. Le tecniche, i
media le regole. [Roma]: Donzelli, [2010], p. 193.
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una panoramica delle notizie, nonché la possibilità di selezionare ciò che si vuole
leggere
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.
Il titolo indica la scelta del giornale dei temi cui assegnare maggiore significato. Il
Corriere della Sera, in particolare per quel che riguarda la cronaca interna ed estera,
utilizza, per lo più, titoli enunciativi (o freddi), riprendendo spesso le parole di
personaggi intervistati o dichiarazioni ufficiali; il manifesto fa aderire maggiormente
al commento la titolazione, che quindi è definita di tipo «paradigmatico» (o caldo),
vicina al parlato, ed è tipica dei quotidiani che hanno una «comunanza di linguaggio
con il pubblico»
6
.
Ancora Papuzzi spiega chiaramente un’altra caratteristica dei titoli «paradigmatici»,
che, da un certo punto di vista, sono il punto di forza (o di debolezza, quando il modello
dello slogan pubblicitario può risultare ambiguo) del manifesto, nel momento in cui:
«[…] i titoli paradigmatici, che condensano le notizie in una metafora o in uno slogan,
funzionano meglio in un giornale apertamente di tendenza com’è il manifesto, che può
intrattenere un colloquio con i lettori, avendo in comune un linguaggio e una cultura»
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.
Il titolo, poi, serve anche a interpretare il fatto, ne anticipa il giudizio del quotidiano al
lettore. «Il titolo decide l’interpretazione dell’articolo», afferma Umberto Eco.
Partendo quindi dal presupposto per cui «il giornalista è lo storico dell’istante», come
affermò acutamente Albert Camus, il lavoro proposto in questo elaborato ha tentato di
rendere onore, almeno in parte, alla capacità dei giornali di scrivere, e di fare, la Storia.
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I titoli, scrive Alberto Papuzzi, «[…] rappresentano […] il codice di lettura di un quotidiano; è anche
attraverso i titoli che un quotidiano si fa conoscere dal lettore», ibidem.
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Ivi, pp. 194, 195.
7
Ivi, p. 196.
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1. Presupposti storici della guerra in Kosovo
Il territorio dei Balcani è stato da sempre terra di incontri e di scontri, un crocevia di
svariate culture; tante popolazioni hanno dato vita a un affascinante mosaico di storia.
Greci, romani, germani, celti, normanni, francesi, tedeschi, italiani, turchi, popolazioni
nomadi provenienti dall’Asia centrale hanno attraversato queste terre aspre e contese
da tante potenze, piccole e grandi.
Anche la regione del Kosovo ha rivestito un ruolo decisivo nella storia di queste terre.
Un esempio viene fornito dall’importanza acquisita nel Medioevo dalla “via della
Zeta”, che risale la valle del fiume Drina verso la Metohija e Prizren, fino al bacino
del Kosovo e a Pristina e da là, attraverso la valle della Toplica, nel bacino di Niš (in
Serbia). Importanti vie di comunicazione hanno infatti segnato questo territorio, sin
dall’età romana: da un lato, ciò ha permesso alle popolazioni balcaniche di prendere
parte a intensi scambi commerciali, dall’altro, la posizione di crocevia costituiva una
minaccia costante, perché la conformazione geografica non offriva molti ripari contro
gli invasori.
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1.1. Alcuni cenni sulla geografia del Kosovo.
Il Kosovo è una regione per molti versi misteriosa, dato che, per parecchi secoli, alcune
sue zone sono state raramente (se non per nulla) attraversate da persone che non
fossero i suoi abitanti, sia per ragioni politiche (a causa dei disordini e delle rivolte
violente, in particolare nell’ultimo periodo del dominio ottomano) che per ragioni
fisico-geografiche. Il Kosovo è un’unità geografica ben determinata, circondata da
catene montuose e colline: il suo confine meridionale è segnato per la maggior parte
dalla catena dei monti Šar; a ovest, ci sono i monti Nemuna, nome che, in lingua
albanese, significa “dannati”, per via della loro impenetrabilità. Ancora, a settentrione,
i confini del Kosovo sono attraversati dal massiccio Kopaonik, che entra nella regione
partendo dalla Serbia centrale; a est, infine, il confine geografico è delimitato da vette
meno alte di quelle che si trovano nel perimetro meridionale e occidentale.
Il cuore del Kosovo, protetto da queste montagne, è caratterizzato da altipiani,
attraversati da fiumi che sfociano in tutti e tre i mari su cui si affacciano i Balcani,
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Edgar Hösch, Storia dei paesi balcanici, Einaudi, Torino 2005, p. 11.
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ovvero l’Egeo, il Mar Nero e l’Adriatico. Un elemento che suggerisce l’importanza
della posizione centrale del Kosovo nei Balcani.
Il Kosovo, pur essendo un territorio di poco più di 10 mila chilometri quadrati, è diviso
da una catena di basse colline che lo spezza in due metà quasi uguali: la metà
occidentale è chiamata dai Serbi Metohija, nome che deriva dalla parola greco-
bizantina metochia, cioè “proprietà monastiche”. In questa zona, infatti, molti
monasteri ortodossi ricevettero in eredità ricchi terreni dai governanti serbi medievali.
Gli albanesi del Kosovo chiamano questa zona con un altro nome, Rrafsh i Dukagjinit,
cioè “l’altopiano di Dukagjin”, nome di una famiglia di etnia albanese che governò nel
Medioevo anche in una ampia zona dell’Albania settentrionale. La metà orientale del
Kosovo è chiamata semplicemente “Kosovo”, toponimo che, con procedimento
sineddotico, ha dato il nome a tutta la regione. Durante quasi tutto il periodo titino, il
nome ufficiale dell’unità amministrativa è stato quello più completo: “Kosovo e
Metohija”. Tuttavia, il nome “Kosovo” compare per la prima volta nelle descrizioni
della grande battaglia del 1389.
Il Kosovo, (nella sua totalità, sia quello occidentale che quello orientale) ricopre
un’importanza strategica particolare, essendo caratterizzato dalla più alta
concentrazione di ricchezze minerali dell’Europa sudorientale: piombo, zinco,
bauxite, cromo e soprattutto argento. Piombo e argento, addirittura, venivano estratti
sin dall’epoca romana, fino all’età contemporanea, quando, dopo la conquista della
Jugoslavia nel 1941, il Terzo Reich divise con gli altri paesi dell’Asse la regione,
assicurando però al controllo tedesco la ricca miniera di Trepça, le cui miniere di
piombo e zinco contribuirono a produrre le armi naziste
2
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1.2. La battaglia di Kosovo Polje del 1389 e l’attentato all’arciduca nel 1914
Non possiamo, in questa sede, inoltrarci troppo nella complessa storia delle
popolazioni balcaniche, ci soffermeremo piuttosto su episodi salienti della storia della
regione del Kosovo nel corso del XX secolo. Per farlo, tuttavia, come in un gioco di
scatole cinesi, bisognerà aprire una delle statole più piccole, e iniziare da un episodio
di primaria importanza che ebbe luogo nel XIV secolo.
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Noel Malcom, Storia del Kosovo. Dalle origini ai giorni nostri, RCS Libri S.p.A., Milano 1999 (tit.
originale: Kosovo .A short History, Noel Malcom 1998).
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A testimonianza di come la Storia, ancora una volta, possa far dialogare eventi molto
distanti tra loro cronologicamente, vale la pena soffermarsi sull’epica battaglia di
Kosovo Polje del 28 giugno 1389.
Uno degli storici italiani dell’area dei Balcani, Marco Dogo, nel suo libro dedicato al
Kosovo,
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nel primo capitolo, ricostruisce, i canti epici serbi alla mano, la storia dei
giorni precedenti e il giorno stesso della battaglia decisiva tra le truppe serbe guidate
dal pio principe Lazar, e gli Ottomani nel Campo dei Merli o Kosovo Polje (Kos in
lingua serba significa merlo, mentre -ovo è una desinenza attributiva), una pianura non
distante da Pristina:
«Lazar Hrebljanović era chiamato imperatore dal sultano, ma non dai suoi stessi alleati e vassalli, che
gli riconoscevano appena il titolo di principe. Con gli Ottomani alle porte, il campo serbo era percorso
da rivalità dinastiche e gelosie personali. La sera del 14 giugno (calendario giuliano) Lazar riunì alla
sua mensa i capi che l’indomani avrebbero guidato i serbi alla battaglia. Fra questi, i due valorosi
cavalieri Vuk Branković e Miloš Obilić, sposi alle figlie di Lazar. Il principe levò una coppa d’oro e
brindò, ad uno ad uno, ai nobili ospiti: infine a Miloš, rivolgendosi a lui come «fido un dì, su l’ultimo
fellone! Tu doman mi tradirai, domani, disertor, a Murat passerai». Miloš balzò in piedi e protestò la
sua lealtà a Lazar e la sua devozione alla santa fede; se cercava un traditore, Lazar, si guardasse da chi
gli sedeva accanto. Accanto al principe sedeva Vuk Branković. Dopo il banchetto, nella notte, Lazar fu
colto da neri presagi e manifestò alla moglie Milica il proposito di costruire una chiesa (…) in grado di
resistere agli assalti turchi. Ma in quella lo raggiunse un falco (in altre versioni, il profeta Elia), recante
da Gerusalemme un messaggio della madre di Dio: «Vuoi tu Lazar il regno della terra o il regno dei
cieli? Se vuoi il regno dei cieli, eleva un tempio non di marmo ma di seta scarlatta, che l’armata vi si
comunichi, giacché i tuoi guerrieri periranno e tu con loro». (…) (…) All’alba del 28 giugno, giorno di
San Vito, il principe Lazar, avendo scelto il regno dei cieli, si preparava al martirio. (…) Miloš fu visto
allontanarsi a cavallo verso le linee nemiche. Si consumava forse il tradimento annunciato? Col pretesto
di rivelare al sultano l’assetto di combattimento serbo, Miloš si fece condurre alla presenza di Murat:
estrasse un pugnale, uccise il sultano, fu a sua volta ucciso dalle guardie. Secondo altre versioni cadde
più tardi, dopo aver ammazzato un’infinità di Turchi; secondo altre ancora fu decapitato insieme con il
suo principe, preso in battaglia, davanti agli occhi di Murat morente. Lo scontro tra i due eserciti ebbe
per teatro il Campo dei Merli. Vuk Branković comandava la riserva (…). Nel momento critico ordinò
loro di ripiegare, e si astenne dal combattere»
4
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Il dominio ottomano non ebbe inizio subito dopo questa vittoria, dato che i Serbi
sarebbero stati sottomessi definitivamente solo settant’anni dopo. Tuttavia, anche se
per cinquecento anni i turchi stabilirono il proprio dominio sulla regione, nel ricordo
del 1389 la letteratura e la poesia serba hanno composto un’infinità di opere, poemi e
leggende; nei villaggi venne tramandata oralmente l’epopea del Campo dei Merli, e
nei Balcani ebbero grande popolarità personaggi che esaltavano concetti come l’onore,
l’eroismo, il senso di sacrificio e l’amore per il proprio popolo. Nel XIX secolo,
influenzato dall’interesse nei confronti del folklore tipico del Romanticismo, il
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Marco Dogo, Kosovo. Albanesi e Serbi. Le radici del conflitto, Costantino Marco Editore, Cosenza
1992.
4
Ivi, pp.7-10.