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regime, ad un evento spettacolare programmato in anticipo in vista della sua diffusione
mediatica.
Allo stesso modo, tutti gli altri momenti salienti del conflitto – dalle prese delle
varie città alla liberazione del soldato Lynch, dall’avanzata delle forze alleate,
ostacolata ora dai feddayn ora da bibliche tempeste di sabbia, sino ai bombardamenti
chirurgici delle città, per concludere con il capitolo finale della cattura di Saddam
(perfetto, con la sua barba lunga e ispida, nella parte del cattivo giustamente sconfitto) –
ci sono stati spiegati e raccontati dalle fonti ufficiali e dai media come tanti episodi di
un grande racconto epico: la storia di una guerra di liberazione in cui venivano descritte
le mirabili gesta di una nazione coraggiosa e giusta impegnata nella lotta contro un
nemico barbarico e crudele, da spodestare e distruggere per ridare la libertà ad un
popolo oppresso ed eliminare una minaccia gravante su tutti i popoli liberi del pianeta.
Sono stati in molti, fra gli studiosi di comunicazione e gli osservatori di politica
internazionale, a denunciare l’accentuato carattere narrativo dell’ultima guerra
americana. In un saggio uscito di recente che svela alcuni sconcertanti retroscena delle
strategie di propaganda impiegate dal governo Bush per promuovere l’intervento armato
in Iraq, ad esempio, Sheldon Rampton e John Stauber parlano di sequel della prima
guerra del Golfo (Rampton, Stauber, 2003), mentre lo stesso Fracassi nota come:
«il conflitto fu accuratamente programmato in funzione della sua
rappresentazione mediatica. […] La pianificazione mediatica della guerra
fu costruita sulla base di stereotipi provenienti dalla storia mondiale delle
“liberazioni belliche”, quando il popolo insorge mettendo in fuga gli
oppressori, preparandosi ad accogliere in tripudio, facendo ala ai lati delle
strade, le truppe liberatrici» (op. cit.: 14).
È la realizzazione della profezia di Arquila e Ronfeldt citata in exergo, secondo
cui le nuove guerre le vince chi le racconta meglio? Federico Montanari ha parlato, a
proposito, di «narrazione come forma attuale della guerra»:
«tutto è divenuto procedura efficace, buona per la costruzione scenica,
filmica, drammaticamente telegenica; e dunque, narrativa. […] Non si
tratta più di dire che la guerra nasconde la verità, che in guerra da sempre
la verità viene manipolata e la propaganda è la principale arma; si tratta di
attestare, mai come oggi, lo statuto costruttivo di tali “verità” di guerra,
cioè il loro montaggio a tavolino»
1
.
1
In Rampton, Stauber, op. cit.: 167-168.
3
In realtà, si potrebbe obiettare che, sin qui, non c’è nulla di nuovo, che il
binomio guerra/propaganda è da sempre (o almeno da quando esiste una società di
massa) inscindibile, che – per dirla con Mattelart – «la comunicazione è qualcosa che
serve innanzitutto a fare la guerra». E, del resto, basterebbe sfogliare un qualunque
manuale di strategia aggiornato secondo i principi della cosiddetta RMA – la
Rivoluzione negli Affari Militari, la nuova scuola di pensiero dei generali statunitensi
che ha drasticamente rinnovato la dottrina degli eserciti occidentali – per rendersi conto
di come l’informazione sia ormai considerata da militari e politici una vera e propria
“arma strategica” nella gestione dei conflitti
2
.
La guerra che Bush dichiara a Saddam presenta tuttavia caratteristiche che per
molti versi hanno reso cruciale la forma della presentazione del conflitto, da parte delle
autorità governative, ai media, all’opinione pubblica e, in generale, alla comunità
internazionale.
Il mancato appoggio delle Nazioni Unite, la strenua opposizione di alcune
potenze europee come Francia e Germania, la straordinaria mobilitazione di un
movimento pacifista che ha saputo convogliare un diffuso sentimento di ostilità nei
confronti delle “ragioni” americane della guerra preventiva
3
, sono solo alcuni tra i
fattori più importanti che avevano determinato un clima, non solo politico ma anche, per
così dire, “culturale”, di perplessità e scetticismo, quanto non di aperta contrarietà,
verso le motivazioni addotte dalla presidenza americana a sostegno di questa guerra. Un
clima ben diverso da quello che aveva accompagnato l’intervento armato in
Afghanistan, quando l’opinione pubblica di tutto l’Occidente si era stretta attorno al
dolore del popolo americano piegato dagli eventi dell’undici settembre, nei giorni del
“siamo tutti americani”. Senza dilungarci in riflessioni politiche, che esulano dagli
obiettivi di questo lavoro, risulta tuttavia evidente che, in una simile situazione, la
conduzione di una guerra così impopolare costituiva un serio ostacolo al
2
Di Nunzio, un analista militare interessato ai problemi dell’information warfare, osserva come la
potenza di un esercito non sia più determinata solamente dalla capacità di mobilitazione, dalle risorse
economiche, tecnologiche e industriali o dalla capacità e precisione di fuoco, ma anche «dalla capacità di
controllare la percezione dell’informazione e la rappresentazione degli eventi». «Per dare senso all’azione
– continua Di Nunzio – diventa indispensabile, all’interno e all’esterno di un conflitto, rappresentarla, ri-
costruirla con una copertura mediale globale che influenzi tutti i possibili attori o recettori» (Di Nunzio,
1999: 2).
3
Come testimoniato dalle numerosissime manifestazioni contro la guerra, che hanno registrato una
partecipazione e una diffusione per certi versi senza precedenti, e dalla straordinaria mobilitazione di un
movimento di pacifisti che ha anche trovato tanti portavoce illustri.
4
consolidamento di un consenso mondiale (perlomeno occidentale) e alla ricostruzione di
un valido sistema di alleanze politiche e militari. La guerra, questa volta, partiva sotto i
peggiori auspici, senza la benedizione dell’Onu e, soprattutto, dell’opinione pubblica.
In un simile contesto, l’amministrazione Bush si trovava di fronte alla necessità
di dover combattere una battaglia ancora più importante, quella che Blair definì la
battaglia «per la conquista dei cuori e delle menti».
Durante questa guerra, come è noto, l’attenzione dedicata agli aspetti
comunicativi fu enorme. L’”offensiva” dell’amministrazione Bush giocava su più
fronti: istituzione di strutture in grado di garantire un “supporto mediatico alla guerra”
4
,
non meglio precisate “operazioni di influenza strategica”
5
, e operazioni di public
diplomacy
6
.
In questa tesi, rivolgeremo l’attenzione ad un’importante segmento dell’attività
di public diplomacy: prendendo in esame alcuni discorsi tenuti dal presidente Bush nel
periodo della crisi irachena, si tenterà di vedere come la Casa Bianca ha cercato di
convogliare il consenso americano e di accumulare un appoggio internazionale attorno
alla guerra contro Saddam Hussein. Proveremo dunque ad analizzare l’intensa e
aggressiva campagna di comunicazione che ha preceduto e accompagnato la guerra in
Iraq, osservandola da una prospettiva particolare e attraverso una metodologia ben
precisa. La prospettiva sarà quella del discorso presidenziale (e il primo capitolo sarà
dedicato proprio all’inquadramento di questo potente strumento non solo di
comunicazione ma anche di azione politica); il metodo, quello della semiotica di
ispirazione strutturalista (di cui introdurremo qualche principio nel secondo capitolo).
Nella seconda parte della nostra tesi (la parte più corposa), passeremo dunque all’analisi
di un corpus di discorsi del presidente Bush, con l’obiettivo di ricostruire le “forme
rappresentazionali” che l’evento-guerra in Iraq ha assunto nelle strategie di
comunicazione politica della Casa Bianca.
4
Il più recente è l’Office of Global Communications.
5
Le Psy-Op, psychological operation che «agiscono sulla popolazione a livello cognitivo, operando sulle
credenze e sui valori» (Vitali, 2004: 106).
6
Gli esperti di comunicazione pubblica indicano con l’espressione public diplomacy quell’ «approccio
integrato di tecniche diplomatiche, strumenti di influenza mediatica ed economica» (Vitali, 2004: 107)
che sembra caratterizzare la politica internazionale dei nostri giorni.
5
Riflessioni conclusive
«Uno degli errori più marchiani dell’oratoria di Bush è stato il voler credere
che questa parola, il male, fosse un pulsante da premere a volontà per
diventare sempre più potente. Se dai alla gente la possibilità di iniettarsi in
vena un analgesico narcotizzante, ci sarà sempre chi continuerà a far abuso
di flebo. Bush usa la minaccia del male per narcotizzare quella parte
dell’opinione pubblica che più di altre si sente depressa. Certo, a suo dire si
comporta così perché crede che l’America si identifichi con il bene. E non c’è
dubbio che ne sia convinto. Bush ritiene che l’America sia l’unica speranza
del mondo. Teme inoltre che il nostro paese stia diventando sempre più
dissoluto, e che l’unica soluzione possibile – parole terribili, possenti e quasi
sacre – che l’unica soluzione possibile, dicevo, sia quella di lottare per il
predominio del pianeta. Dietro alla frenesia di dichiarare guerra all’Iraq si
nasconde il desiderio di instaurare una robusta presenza militare nel Medio
Oriente, che possa servire da trampolino di lancio per impadronirsi del
mondo intero» (Mailer, 2003: 45).
Le parole di Norman Mailer che abbiamo scelto per introdurre queste brevi
riflessioni finali fissano molto bene un aspetto centrale dell’attività comunicativa di
Bush: la rappresentazione dell’America come una nazione con una chiara responsabilità
verso la storia: liberare il mondo dal male.
Questo aspetto è emerso più volte nel corso del nostro “viaggio” tra i meandri
delle contorsioni verbali del presidente americano, rendendo evidente come una delle
caratteristiche centrali dell’oratoria di Bush sia il suo linguaggio morale. In questi
discorsi, i “nemici del mondo libero” sono il prodotto di una malvagità pura, di un odio
astratto che viene dal di fuori, da un mondo distante, geograficamente e culturalmente.
Le opposizioni manichee che scandiscono tutti questi discorsi (democrazia vs. dittatura,
modernità vs. oscurantismo, libertà vs. oppressione) testimoniano come questa
amministrazione veda nella guerra al terrorismo (e ai suoi presunti alleati) una lotta tra
le forze del bene e un male radicale, che va combattuto a tutti i costi. Conosciamo questi
costi: bombardamenti contro paesi già disastrati, destabilizzazione politica dell’area
medio-orientale, usurpazione delle regole del diritto internazionale.
L’analisi sin qui condotta non aveva lo scopo (né poteva averlo) di svelare i reali
interessi in gioco nel conflitto in Iraq, le reali intenzioni, strategiche e politiche, degli
Stati Uniti d’America. Quello che poteva fare – e si spera, almeno in parte, sia riuscita a
fare – era svelare certi aspetti che potremmo definire, con un termine talmente generico
6
da risultare forse privo di significato, ideologici. E ci sembra che sia proprio l’auto-
elevazione dell’America al ruolo di “guardiano della democrazia nel mondo” a
costituire la cifra ideologica di questa guerra.
Resta aperta la questione dell’efficacia comunicativa di questi discorsi. Si è
parlato di una sconfitta diplomatica dell’amministrazione Bush in questa guerra. Come
ha scritto Vittorio Zucconi in un suo articolo, «nessuno, dai tempi di Lyndon Johnson in
Vietnam, aveva sperperato tanto, in vite umane, danaro pubblico, retorica e prestigio
dell'America, per ottenere così poco» (Zucconi, 2004).
Ma cos’è che non ha funzionato? Da una parte, la condotta di questa guerra ha
sembrato smentire tutte le teorie del soft power: nelle intenzioni di Bush, dovevano
essere i risultati sul campo, in Iraq, a mostrare la correttezza dei suoi argomenti.
D’altronde, anche se studiosi come Keegan hanno affermato che la conduzione del
conflitto, da un punto di vista strettamente militare, è stata un successo
7
, il dopoguerra
sembra aver smentito tutte le rosee aspettative e le lusinghiere promesse del governo
Bush. Le armi di distruzioni di massa non sono state trovate, e c’è chi ha parlato di una
guerra combattuta nell’attesa di trovarne le ragioni. Quest’ultima affermazione rende
forse meglio di tutte il senso della vicenda, anche per il fatto che neanche queste ragioni
sono poi state trovate.
Un altro problema riguardava forse la programmazione del’istanza ricevente: i
discorsi di Bush avevano come interlocutore ideale, come Lettore Modello, il cittadino
americano sconvolto dagli attentati. Ma l’opinione pubblica, anche quella americana,
probabilmente non ha capito bene, nonostante gli sforzi di Bush, quale potesse essere il
nesso tra guerra all’Iraq e lotta al terrorismo. Senza considerare che tutti questi discorsi
si rivolgono esclusivamente (da un punto di vista “culturale”) ad americani, e che
l’opinione pubblica internazionale (soprattutto europea ed araba) non è quasi mai presa
in considerazione. La totale esclusione del punto di vista non-americano (ad eccezione
di qualche accenno demagogico qua e là) è un’altra caratteristica preminente della
produzione discorsiva di Bush: se dal punto di vista americano poteva forse ancora
trattarsi di una “lotta contro il terrorismo”, dal punto di vista di quelli che stavano
dall’altra parte dell’oceano e che erano il bersaglio degli attacchi poteva sembrare che
7
Citato in Fracassi, op. cit.
7
l’America si stesse attrezzando per un assalto contro il mondo musulmano, e ciò
nonostante tutti i finti proclami d’amicizia verso il popolo iracheno.
In questo senso, l’aspetto forse più inquietante della parola di Bush sembra
essere proprio l’arroganza insita nella concezione del popolo americano come popolo
eletto, una presunzione ideologica evidente nel “rivestimento moralizzante” con cui è
stata presentata la guerra in Iraq, una guerra che pretendeva di “portare la democrazia”
in Iraq.
La democrazia, in Iraq, ad un anno di distanza dalle ottimistiche dichiarazioni di
Bush, non è arrivata, ma intanto, mentre scriviamo queste righe, si scopre che in un
carcere americano vicino a Baghdad, soldati americani si divertivano a torturare i
detenuti iracheni.