4
interpretandolo, il nodo che unisce due ambiti apparentemente estranei tra loro:
l'esperienza migratoria e una scrittura che ha i caratteri di “letteratura”.
Tradizionalmente, infatti, la critica letteraria ha considerato poco “letterari” i testi
legati al tema migratorio, percependoli maggiormente affini ad un’indagine ed una
riflessione di tipo saggistico o d’impianto sociologico, o ravvisando in essi semplici
schematismi, argomentazioni o “resoconti” pregni di topoi. Come sottolinea Gnisci:
La migrazione, comunque, non è una qualità che forma e distingue la letteratura solo
da un punto di vista sociale o in ragione della tematica “fissa” che tratta […]. La
migrazione, invece, è una qualità primordiale (di ordine primo: alla lettera) del destino
degli umani. E’ un valore e un dolore, o anche un’abitudine e un’avventura che origina
l’umanità come tale e le permette di elaborare immaginario e discorsi. E’ il contrario,
quindi, di un carattere sociale (o “etnico”) limitato, o di un tema limitato e “poco
nobile”, perché troppo realistico, antropologico, per così dire […].
2
L’obiettivo sarà, perciò, analizzare ed interpretare alcuni aspetti che paiono
significativi della condizione emotiva, mentale e sociale di emigranti meridionali,
così come gli autori affrontati li descrivono, tasselli costitutivi, come si accennava
poco sopra, di una poetica della “migranza”. D’altra parte, verrà portato avanti il
tentativo d’indagare intorno al tema letterario della “migrazione” inoltrandosi
all’interno della tradizione letteraria meridionale: una tradizione in cui ebbero grande
peso specifico non solo le discussioni teoriche ed ideologiche circa la “questione
meridionale” ma anche lo sviluppo di veri e propri topoi legati all’emigrazione ed
alle terre cui essa si rivolse.
La ricerca si è concentrata principalmente su tre narratori: Corrado Alvaro,
Saverio Strati e Carmine Abate, scrittori calabresi che appartengono a generazioni
differenti del Novecento letterario italiano, tutti testimoni, nonché, protagonisti di
esperienze migratorie, di diverso esito, durata e finalità, che hanno avuto come meta
una medesima area germanofona: la Germania e la Svizzera.
Analizzare “storie” e vissuti di emigranti ed affrontare questioni correlate ad un
tale status, fulcri tematici dei racconti esaminati, potrà rendere possibile, inoltre,
delineare un itinerario che tenga conto delle trasformazioni subite da un sentimento
“malato” ed ambiguo, quello nostalgico.
L’elemento “nostalgia”, infatti, introdotto nell’ambito del pensiero europeo
moderno quale vera e propria patologia, diviene sentimento onnipresente nella
produzione letteraria che ha affrontato il problema migratorio, perdendo l’originario
carattere patologico.
5
La produzione narrativa dei tre scrittori testimonia, però, evoluzioni non di
poco conto non solo all’interno del quadro letterario tradizionale in cui s’inserisce: la
loro narrativa tratteggia, infatti, anche le “tappe” di un itinerario che conduce da una
“morte” per la nostalgia, topos avvertibile soprattutto in Alvaro, ad una “morte”
della nostalgia, come testimoniano i racconti di Strati ed Abate.
Un altro aspetto che assumerà particolare rilievo sarà quello linguistico: ci si
soffermerà sulla componente “orale” rintracciabile nella narrativa di tutti e tre gli
autori e sulle scelte linguistiche da essi operate. E’ comprensibile che la lingua
ricopra una grande importanza: gli emigrati basano soprattutto sull’elemento
linguistico la possibilità non solo di instaurare un contatto, per quanto elementare,
con la diversità ma anche di rappresentare ed auto-rappresentarsi come quell’ altro
da sé che si diviene, lontano da un mondo familiare, sempre identico a sé, o quasi.
Sembra, infatti, inevitabile volgere lo sguardo anche sulla componente
“autobiografica”: elemento costante della produzione narrativa da noi affrontata che,
se assunto in chiave ermeneutica, è ampiamente rivelatore di una complessa “poetica
della migranza” e, quindi, non di una convenzione generica latrice di un contenuto
tematico abbastanza scontato.
Ancora, in un’ottica multidisciplinare, ad affiancare un lavoro principalmente
dedito agli aspetti letterari legati al tema emigratorio, si troveranno ampi riferimenti a
considerazioni di ordine antropologico e psicanalitico che riguardano categorie e
concetti (“identità”, “silenzio”, “memoria”) utili ad esaminare in maniera completa e
sfaccettata soprattutto la produzione narrativa di Abate, vista l’originalità di sguardo
assunta all’interno del quadro di riferimento tradizionale della “letteratura
d’emigrazione”.
La scrittura di Abate, infatti, si fa strumento e testimonianza di un’ibridazione e
di un impegno interculturale che le garantiscono piena attualità e profonda efficacia
in tempi, come i nostri, che avvertono sempre più l’urgenza di riflessioni intorno a
queste tematiche.
Si accerterà, perciò, nelle pagine conclusive di questo lavoro, la necessità di
una parziale “morte” di sé, altro rispetto al lutto ed alla nostalgia, che rende possibile
accogliere l’alterità in una sorta di processo “apocalittico” cui questa conduce;
ancora, si troverà un riferimento ad alcune posizioni di Ernesto De Martino che, oggi
più che in altri momenti storici, mi sembrano di una attualità straordinaria.
2
A. GNISCI, La letteratura italiana della migrazione, Roma, Lilith, 1998, p. 20.
6
De Martino narra e rintraccia i confini immobili e dolorosi di una terra del
“rimosso” che è il Sud, “tutto il Sud”, ma delinea anche quelli di una terra del
“rimorso”, all’interno della quale, il soggetto riesce a far emergere la dolorosità del
proprio passato che, grazie ad una consegna “compartecipata” alla collettività, può
farsi ethos, “espiazione” e rinascita. Le osservazioni di fondo cui lo studioso conduce
si rivelano dotate di una profonda attualità per una società ed un tempo che contano
attentati diretti, a mio parere, soprattutto, alla memoria.
“Strane” ed “amare” coincidenze, di cui solo la Storia sa farsi carico
dolorosamente, vogliono che il presente lavoro venga “rivisitato” e presentato in
giorni nei quali a farla da padrona sulle cronache nazionali ed internazionali sia
proprio la mia “terra”, la Calabria.
Si registrano in questi giorni episodi gravissimi come l’attentato dinamitardo
davanti alla sede della Procura Generale di Reggio Calabria o i forti scontri, quelli
che hanno interessato Rosarno, i cui protagonisti sono gli immigrati extracomunitari
sfruttati dalla ‘ndrangheta gambizzati o ridotti in fin di vita nel momento in cui si
ribellano. Sempre in questi giorni, si registrano, però, anche l’inaugurazione di un
Museo, fondato a Torino, dedicato a spiegare i meriti ma anche i limiti dell’attività di
uno studioso come Lombroso
3
e quella di un altro museo che a migliaia di
chilometri, nel reggino, è dedicato alla storia della ‘Ndrangheta.
Su questo dato che riguarda proprio tali iniziative museali voglio soffermarmi.
Vi è stata una reazione polemica all’inaugurazione del museo torinese dedicato a
Lombroso, considerato una sorta di celebrazione di un’attività scientifica giudicata
ormai unanimemente razzista. Così come, l’inaugurazione di un Museo dedicato alla
storia della ‘Ndrangheta, sorto all’interno di una villa confiscata ad una nota famiglia
mafiosa, non ha raccolto grandi entusiasmi tra la popolazione. Ciò, a mio parere,
significa che la comunità meridionale teme ancora eccessivamente il proprio passato
e non affida allo strumento “memoriale” la priorità di garantire una reale “rinascita”,
la quale è sempre fondata sul polivalente sentimento dell’appartenenza, parte
integrante dell’identità di ogni comunità.
L’appartenere si basa, infatti, su una memoria ereditata e condivisa e su un
sistema di immagini in continuo divenire che veicolano senso. La memoria, come
insegnano studi multidisciplinari, non è una riproduzione, ma è sempre una
ricostruzione, e ogni esperienza che un singolo o un gruppo possono fare è da
3
Cfr. V. TETI, La razza maledetta: origini del pregiudizio antimeridionale, Roma, Manifestolibri, 1993.
7
mettere in relazione con i diversi passati con cui si è in grado di connettere tale
esperienza. Se la memoria è memoria di rovine, dunque, difficilmente si riuscirà a
dare un senso costruttivo alle cose che accadono, sia individualmente che
collettivamente.
Il progetto vuole esaminare, perciò, parte della storia dell’emigrazione e la
serie di rappresentazioni ed autorappresentazioni legate a questo fenomeno, tanto
sulla lunga durata che nella dimensione sincronica, che hanno contribuito alla nascita
di una “memoria abituale” riferibile alla comunità meridionale, calabrese, nello
specifico.
Non si tratta della memoria del ricordo, ma di quella interamente
metabolizzata, com’è possibile riscontrare grazie soprattutto ad Abate; la lezione che
abbiamo imparato così bene da restare inscritta in noi dopo aver dimenticato persino
il processo di apprendimento: la “memoria abituale”, risultato di una attività emotiva
e simbolica spesso influenzata dai poteri che risultano normativi in una società. E’,
perciò, memoria controversa e con la quale occorre riappacificarsi, a volte.
I rituali, che, non a caso, ricoprono un ruolo rilevante all’interno della narrativa
di Abate, sono le occasioni più diffuse che un qualsiasi potere ha per far
interiorizzare modelli della memoria. È la memoria lenta, implicita.
Le cose che vivono in questa memoria sono incarnate, producono valori. La norma
sociale stessa s’incarna, diventando, così, memoria che non si dimentica, ma anche,
memoria che dimentica di indagare, accettando soltanto dei dati memoriali, senza
interrogarsi troppo.
Memoria che si fa, perciò, acqua torbida perché spesso stagnante. Quello che si
tenta di dire è che un tale lavoro vuole soffermarsi sull’importanza di una riflessione
che coinvolga la memoria e l’identità meridionale, nello specifico, calabrese. Si
avverte profondamente la necessità e l’urgenza di una tale operazione visto che allo
stato attuale esiste una cultura della ‘ndrangheta che funziona, fin troppo bene.
Accanto alla strapotenza economica, vige, infatti, un codificato sistema di
simboli che permette ai gruppi della criminalità di realizzare un alto grado di
coerenza interna, di comunicare valori con facilità (recapitare una testa di un animale
morto vale più di dieci lezioni universitarie), di trasmettere nel tempo un sapere, di
proporre per inculturazione modelli di virilità e spregio del pericolo che affascinano
a tutti i livelli.
8
Le modalità che ha la ‘ndrangheta di gestire silenzi carichi di significato, di
utilizzare il sistema delle parentele “spirituali”, di manipolare a proprio uso un
campionario di immagini tradizionali fanno parte di un sistema di segni
culturalmente fondato e trasmissibile che, nel suo adattarsi continuo alle nuove
esigenze dei tempi, costituisce pienamente quello che correttamente si definisce
“tradizione”.
Il sentimento di appartenenza che ipoteticamente dovrebbe accomunare la
maggioranza antindrangheta è, invece, labilissimo. L’identità, infatti, è sempre un
criterio contrappositivo che si alimenta sulle linee di confine con l’alterità. Quella
della ‘ndrangheta è una cultura che, per la sua pervasività e per la sua capacità di
operare in silenzio, per i più non è identificabile e quindi non risulta utile a provocare
il sentimento di un’identità contrapposta. La stragrande parte della popolazione non
avverte nei fatti il fiato sul collo dell’organizzazione criminale: per tanti la
ndrangheta non è una vera minaccia.
Più che un clima di paura si interiorizza, così, un modello di pre-paura. Un
atteggiamento pre-omertoso, di vaga disponibilità all’omissione, tratto caratteristico
di questa cultura.
L’obiettivo, perciò, sarà anche quello di fare i conti in modo razionale e
cosciente con un capitolo significativo di una memoria controversa e con una
trasmissione di valori che, nello specifico, attraverso la letteratura, possa informare le
nuove generazioni, evitando loro di cadere tanto in facili o “isterici” pregiudizi
culturali quanto in “piagnistei” storici che non fanno altro che continuare a
deresponsabilizzare l’individuo e la comunità alla quale egli appartiene.
9
1. Letteratura di migrazione: fonti e modelli, inquadramento storico- letterario
della questione migratoria
1.1 Problemi di metodo e di definizione della letteratura di migrazione
La contemporaneità in cui siamo pienamente coinvolti, via via che dispiega il
ventaglio delle sue rappresentazioni, mostra quanto fluttuanti siano le identità delle
letterature nazionali, e quanto provvisoria appaia la stessa nozione di letteratura
europea (come ha ben dimostrato Franca Sinopoli
4
in un suo recente saggio). Le
rifrangenze di un'esperienza letteraria in un'altra, le traduzioni e riscritture così come
le imitazioni o riprese fanno della letteratura un immenso paese dove le rispondenze
e i dialoghi, non solo scavalcando i confini delle singole lingue ma congiungendole,
dimostrano di poter sovrapporre tradizioni diverse tra di loro.
L'orientalismo, l'attenzione alle culture latino-americane e africane, la critica
dell'esotismo - così come prende forma all'interno di esperienze che mettono in
questione il punto di vista occidentale (basti pensare ai contributi di Said
5
) - le
vicende di artisti e scrittori sradicati dalle culture e dalle lingue d'origine, le scritture
dell'emigrazione e dell'esilio, il “nomadismo” intellettuale, l'affermarsi delle
letterature postcoloniali o la stessa critica del concetto di postcoloniale, sono
fenomeni che impongono alla tradizionale e, forse, manichea “geografia della
letteratura” di ripensare l'idea stessa di confine geografico (come già avevano cercato
di dimostrare i contributi di uno studioso come Dionisotti). O almeno di ripensare la
storia letteraria sotto un altro aspetto: in una relazione - aperta e mobile - tra una
singola area geografica e il gioco di tradizioni, fonti, presenze e rispondenze che
altrove rinviano e altrove hanno radice.
4
F. SINOPOLI, Mito e nozione della letteratura europea in F. SINOPOLI (a cura di) Il mito della letteratura europea,
Roma, Meltemi, 1999, pp. 9-66.
5
Il riferimento è naturalmente al suo saggio di capitale importanza Orientalismo, trad. it., Torino, Bollati Boringhieri,
1991 (e successive ristampe).
10
In un’epoca come la nostra, caratterizzata dall’estrema “mobilità” di eventi e
di conoscenze, migrazioni ed esperienze di esilio hanno portato uomini e scritture,
avventure di vita e di saperi, verso confronti attivi. Le esperienze di scrittura,
trasmigrando tra lingue e culture diverse, hanno messo indubitabilmente sotto accusa
rigide centralità. E hanno dato rilievo alla questione dell'altro, della lingua di cui
questi si fa portatore e tramite, della sua identità: punto d'osservazione da cui
muovere verso una definizione delle conoscenze. Di conseguenza, l’attenzione
rivolta dalla critica letteraria a tali esperienze è il segno più tangibile di una volontà
serena e veritiera di mettere in discussione un’idea centripeta (eurocentrica?) e
monolitica della letteratura, con annessi confini, parametri, periodizzazioni, canoni e
anti-canoni
La scelta operata, anche da me, nei confronti del termine “migrazione”,
riferendoci a tale produzione letteraria, rispetto ad “emigrazione” ed
“immigrazione”, si dimostra in linea con l’orientamento di alcuni studiosi, in
particolare di Armando Gnisci e Franca Sinopoli. La scelta sembra giustificata,
innanzitutto, dal fatto che dei tre autori che affronteremo, due (Corrado Alvaro e
Saverio Strati) s’inseriscono in un filone tradizionale quale quello della letteratura
italiana d’emigrazione ma l’ultimo, anche in senso cronologico, (Carmine Abate)
oltre a rappresentare un unicum nel nostro panorama letterario contemporaneo si
contraddistingue per l’appartenenza ibrida alla letteratura d’emigrazione (considerata
la sua appartenenza ad una comunità arbëresh del crotonese ed i rapporti, conflittuali
e tenerissimi con una lingua madre che non corrisponde a quella istituzionale ed
utilizzata, grosso modo, con unitarietà nella propria produzione narrativa (l’italiano)
né tanto meno a quella acquisita, per necessità, in terra straniera (il tedesco).
Come spiega bene Franca Sinopoli, tuttavia, l’attenzione ad un termine come
migrazione si motiva sottolineando che con migrazione si fa piuttosto riferimento
già ad un secondo livello rispetto a quello primario dell'esperienza effettiva, storica,
del viaggio migratorio e del successivo accasamento altrove o del ritorno alla terra di
origine, tappe principali e le più evidenti di un vissuto che chiamiamo emigrazione e
immigrazione.
Proprio perché sono due facce dello stesso vissuto, infatti, quella emigratoria
che fa riferimento al distacco doloroso (per quanto speranzoso) del soggetto
“sradicato” e quella immigratoria che allude, invece, alle complesse modalità di
avvicinamento/accasamento/assimilazione messe in atto da questi nel territorio di
11
destinazione, emigrazione ed immigrazione possono essere ri-comprese - ad un
livello non più descrittivo, bensì, critico ed interpretativo - sotto il tema della
“migrazione”. «Sia esso un tema letterario, ma anche storico, sociologico, filosofico,
antropologico che dir si voglia, caratterizzante cioè un complesso interdisciplinare
che va ormai sotto il nome di migrant studies.»
6
Altro termine significativo ed utilizzato dalla critica impegnata nella
demarcazione dei confini terminologici e di metodo circa questi temi, è quello di
diaspora. Parola che evoca istintivamente l’idea della dispersione e della perdita
identitaria, nell’immaginario legato soprattutto all’esperienza ebraica, la diaspora
come tema degli studi letterari e culturali, in generale, ha ottenuto nel corso della
seconda metà del Novecento un’ampia considerazione tanto da arrivare a delineare
dei veri e propri specialismi o studi di area, a cominciare ovviamente dal caso dei
Jewish Studies
7
. Ma gli stessi Diaspora Studies costituiscono un campo ben più vasto
del solo già sterminato territorio di studi dedicati alla diaspora ebraica nel mondo.
A partire dalla seconda metà degli anni Novanta, infatti, dopo il noto volume di
Robin Cohen Global Diasporas
8
, il termine “diaspora” è passato ad indicare in
maniera più ampia la condizione delle comunità costrette ad espatriare e che,
pertanto, vivono al di fuori del paese d’origine, per motivi molto diversi:
segregazione razziale, colonialismo, povertà, guerre. Recentemente, ad esempio, una
storica americana, di origini italiane, Donna Gabaccia ha pubblicato un volume in cui
suggerisce la possibilità di interpretare anche la migrazione italiana nel mondo come
una vera e propria serie di diaspore:
Lo scopo di questo volume è determinare il significato che le reti di relazioni create
dai molti emigranti italiani ebbero per la storia d’Italia e dei paesi dove essi lavorarono
e si stabilirono. Queste reti rassomigliano senza dubbio alle diaspore, ma pochi
studiosi le hanno chiamate in questo modo. Sosterrò che le emigrazioni hanno
raramente creato una diaspora italiana nazionale o unita, ma hanno invece creato molte
diaspore temporanee e mutevoli, diaspore di persone con un’identità e un senso della
fedeltà difficilmente qualificabili come “italiane”. [...] Definire “diaspore” la maggior
parte delle reti migratorie italiane ci costringe ad accettare una definizione in certo
qual modo minimalista del termine, e a staccare tale definizione dalla sua associazione
con il senso d’appartenenza a una nazione.
9
6
F. SINOPOLI, Migrazione in R. CESERANI, M DOMENICHELLI, G. FASANO (a cura di) Dizionario dei temi letterari - 3
volumi, Torino, Utet, 2006.
7
Per una presentazione sintetica di tale campo di studi, si veda L. QUERCIOLI MINCER (a cura di) Jewish Studies in M.
COMETA, R. COGLITORE, F. MAZZARA (a cura di) Dizionario degli studi culturali, Roma, Meltemi, 2004, pp.239-247.
8
R. COHEN, Global Diasporas. An introduction, Seattle (Wash.), University of Washington Press, 1997
9
D. GABACCIA, Emigranti. Le diaspore degli italiani dal Medioevo ad oggi, tr. italiana, Torino, Einaudi, 2003, pp.
XIX-XX.
12
Coerentemente, quindi, alla familiare scarsa consapevolezza di appartenenza
nazionale corrisponderebbe sul piano delle varie e diverse dispersioni migratorie
degli italiani un senso di “diaspora”, non a caso, dalla Gabaccia definita
“minimalista”; affrancata , cioè, dalla sua accezione più comune che rimanda alla
compattezza, persistenza e uniformità della comunità diasporica che normalmente si
riconosce in un’origine più ampia e condivisa delle limitate dimensioni del paese
nativo: ciò spiegherebbe, secondo la stessa, la molteplicità e atipicità delle diaspore
italiane. L’uso minimalista della diaspora è, perciò, rilevante sul piano del suo
svincolamento , come si diceva, dalla consuetudine etimologico - culturale a cui tale
parola è stata abitualmente ricondotta.
Sempre in tale direzione si pensi anche ad un altro storico, il russo-americano
di origini ebraiche Yuri Slezkine il quale nel suo ampio studio The Jewish Century
10
,
allarga, viceversa, per via metaforica il concetto di diaspora, sul modello di quella
ebraica, comprendendo, così, diversi movimenti migratori che hanno interessato
tradizionalmente altre comunità, come gli armeni, i siriani, i libanesi, i palestinesi, o i
cinesi e diversi gruppi di popolazioni africane o asiatiche, naturalmente con
opportuni distinguo.
Lo studioso sottolinea, infatti, quanto la molteplicità delle diaspore nel corso
del Novecento abbia fatto di questo il secolo diasporico per eccellenza, al punto da
renderne ipotizzabile una categorizzazione storiografica generale che prende il nome
da una diaspora particolare, quella ebraica, per comprendere tutte quelle comunità
caratterizzate da nomadismo e da attività professionali temporanee che Slezkine
chiama “mercuriali” (artigiani, commercianti, medici, interpreti, artisti) ma non solo.
Credo risulti evidente, a questo punto, quanto un tale tipo di approccio possa
rivelarsi utile per affrontare la produzione narrativa di autori come Saverio Strati o
Carmine Abate, testimonianze significative di aspetti e momenti diversi di una stessa
diaspora, particolarissima e tuttora ininterrotta, quale quella meridionale, avendo
questi, infatti, vissuto in area germanofona da Gastarbeiter (lavoratori con contratto
a termine) e provato sulla loro stessa pelle tutte le sfaccettature, nel bene e nel male,
dell’emigrazione.
Ancora, un approccio di tal fatta indicherebbe, come cercherò di dimostrare,
una soluzione possibile a questioni antiche quanto dannose che hanno riguardato, nel
panorama critico italiano, la cosiddetta “letteratura meridionalista” ma non
10
Y. SLEZKINE, The Jewish Century, Princeton/Oxford, Princeton University Press, 2004
13
abbastanza, forse, quella meridionale, affibbiandole, così, categorie storico-critiche
soffocanti e semplicistiche, come si vedrà meglio quando ci si occuperà del dibattito
sorto intorno al “meridionalismo”.
Non solo, arrivati a questo punto, può essere presa in considerazione un’altra
parola-chiave che in qualche modo riassume, insieme a migrazione, il fulcro delle
riflessioni fin qui fatte. Tale parola è frontiera. Delimitazione non solo geografica ma
anche culturale, conoscitiva, emotiva ed istintiva, perché propria del senso più
autentico appartenente all’uomo di rapportarsi ai luoghi ed alle esperienze possibili
in questi, grazie a questi.
Frontiera come categoria superiore necessaria, al limite dell’immanenza, sorta
di demiurgo cui l’uomo sembra appellarsi per riconoscersi in un posto, in una
possibilità di esistenza, per disporsi nel mondo. Sforzo di auto-determinazione,
allora, ma anche tentativo di fuggire l’illimitato, respingere la non conoscenza delle
dimensioni, la vertigine derivante dall’assenza di limiti. Il luogo è tale, infatti, in
quanto abitato, agito, fatto proprio, inevitabilmente, in virtù di quello che non è:
conosciuto, perciò, attraverso il suo non essere altro luogo ed il suo essere qualcosa,
un posto ben preciso rispetto alla sterminata serialità costituita dalla possibilità “di
tutti i luoghi possibili”. Come spiega bene Fabio Natali che propone un’analisi
puntale delle implicazioni antropologiche del concetto di frontiera:
Occupare uno spazio significa distinguere ciò che e abitato da ciò che non lo è,
[…]fondando l’ordine a partire dal caos. In altre parole abitare non significa solo
creare luoghi, ma anche non-luoghi, spazi altri. Il delimitare - atto di fondazione del
luogo e dunque dell’abitare - implica l’istituzione di una dualità,qualunque essa sia -
interno/esterno, ordine/disordine, limitato/illimitato,luogo/spazio, identità/alterità-
ovvero significa concepire l’esistenza non solo del se ma anche di qualcosa di altro-da-
sé, un qualcosa certamente più incerto, sfumato, indeterminato, difficilmente
qualificabile, ma altrettanto “reale”. D’altronde ogni opposizione vive di entrambi i
termini che la costituiscono, in quanto non solo implica l’esistenza di due anime, ma
anche l’idea che, in fondo, tra queste due anime esiste un “legame di parentela
11
.
La crisi spaziale, ovvero, la contrapposizione tra spazi propri e spazi altri, é
uno dei fenomeni sociali e culturali che più hanno segnato il XX secolo. Michel
Foucault, ad esempio, afferma: «La grande angoscia che ha ossessionato il XIX
secolo è stata la storia, la nostra epoca sembra invece essere l’epoca dello spazio.
11
F. NATALI, L’ambigua natura della frontiera. Antropologia di uno spazio “terzo”, Urbino, Ed. Quattroventi, 2007, p.
51.
14
Siamo nell’età del simultaneo, della giustapposizione, del vicino e del lontano, del
fianco a fianco e del disperso».
12
Un’epoca, dunque, affamata di ridefinizioni spaziali. Ma se a livello culturale
e di geografia umana le cose cambiano notevolmente, non molto varia a livello
mitico. Il mito della frontiera ha mantenuto intatta la sua essenza: mentre molte
frontiere si assottigliavano e altre crescevano, molte scomparivano e ne nascevano
delle nuove che spesso non avevano una vera e propria dimensione geografica. La
dimensione mitica della frontiera ritrova tutta la sua forza allegorica, grazie
soprattutto all’introduzione di nuove categorie gnoseologiche come il conscio e
l’inconscio, l’unheimlich o, in campo antropologico, le “logiche meticcie”.
In un tale contesto, dunque, bisognerebbe sfuggire alla tentazione di
ridenominare gli scrittori “meridionalisti” o accoglierla con altri occhi? Quanta
distanza, effettivamente, intercorre, tra la produzione narrativa da loro messa in atto e
che già un cinquantennio fa rivendicava a gran voce una denominazione netta, una
nomenclatura priva di ambiguità, dai contorni nuovi e netti che rendessero possibile
preservare le sue istanze, come vedremo meglio, ed una nuova “letteratura
transculturale”? Narrativa meridionale, dunque, o scrittori meridionali, narrativa
della frontiera o narrativa di “ogni Sud”? Meridionali, italiani, germanesi, ‘mericani,
europei?
La letteratura meridionale verrebbe allora, forse, a costituire la possibilità di
testimoniare non pochi aspetti della vita sociale e culturale italiana che, finiti gli
ardori neorealisti, si sono ridotti a cenere di ciò che ancora costituisce uno dei più
grandi tabù storici italiani? E tali ceneri, probabilmente, alla luce della
trasformazione, avvenuta negli ultimi vent’anni, dell’Italia in paese d’immigrazione
aiuterebbero a non scivolare in facili, quanto cancerose, sovrimpressioni storicizzanti
ed a dar fine al perpetrare un silenzio memoriale annichilente e bugiardo? Tutto ciò
non sarebbe in assonanza, inoltre, con l’attenzione che, parimenti, inizia a essere
dimostrata nei confronti della produzione narrativa di autori dell’area sub-sahariana o
dell’Est Europa che, trasferitisi in Italia, hanno eletto la lingua “ospitante” per
narrare le proprie esperienze di viaggio e di vita? Letteratura d’emigrazione e
d’immigrazione per costituire un unico sguardo “di mezzo”, capace di una coscienza
sociale maggiore e di un “meticciamento” consapevole quanto necessario.
12
M. FOUCAULT, Spazi altri. I principi dell’eterotropia, «Lotus International», (1985-1986), n. 48-49, p. 9.