F. Dell’Aquila – Come “costruire” una realtà inventata: psicoterapia e cinema a confronto 2
è riuscire a ritrovare sempre la via sicura, quella che riporta a casa, e non rischiare, così, di
cambiare direzione!
Proviamo ad immaginare: cosa sarebbe accaduto a Biancaneve se, dopo un anno di
matrimonio con il Principe Azzurro, si fosse accorta che il suo maritino era sì “principe”, ma
davvero poco “azzurro”? E che dire della Bella Addormentata nel Bosco che ha atteso ben
sedici lunghi anni l’incontro con il suo prode cavaliere? Una delusione da quest’uomo la
porterebbe nella migliore delle ipotesi al suicidio!
Insomma, a parte il fatto che non tutte le “addormentate” sono belle e non tutti i “principi”
sono impavidi e nobili d’animo, vivere per sempre felici e contenti non è il finale impossibile
di una bella favola, ma l’obiettivo concreto che ciascuno di noi (streghe e gnomi inclusi) può
provare a perseguire…
Come?!
Come futura terapeuta strategica non chiederò ai miei pazienti di scegliere tra una pillola rossa
e una blu, perché, a differenza di Morpheus, non ho nessuna Verità da offrire, ma di non
dimenticare che “la verità non è ciò che scopriamo, ma ciò che creiamo” (A. De Saint-
Exupéry).
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PRIMA PARTE
PRESUPPOSTI TEORICI
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PREMESSA: LA “RIVOLUZIONE” COSTRUTTIVISTA
Neo: ‘In questo momento siamo all’interno di un programma?’
Morpheus: ‘Abbastanza facile da capire: abiti diversi, spinotti nelle braccia e in testa
assenti… anche i tuoi capelli sono cambiati. Il tuo aspetto attuale è quello che chiamiamo
immagine residua di sé, la proiezione mentale del tuo io digitale ’
Neo: ‘Questo non è reale?’
Morpheus: ‘Che vuol dire reale? Dammi una definizione di reale… se ti riferisci a quello che
percepiamo, a quello che possiamo odorare, toccare e vedere… quel reale sono semplici
segnali elettrici interpretati dal cervello’1:
Per comprendere la contemporaneità è necessario avere la consapevolezza del vivere, come
scrive Heidegger, “nell’epoca dell’immagine del mondo”, cioè in un tempo in cui il mondo si
è fatto rappresentazione. E il cinema è uno dei territori privilegiati per interpretare la funzione
dell’immagine e della produzione del visibile nella costituzione di quella che ci ostiniamo a
chiamare realtà. Nel porre se stesso, l’uomo “non può che rappresentarsi, presentarsi, cioè
essere immagine”2.
La critica dell’idea di “mondo vero”, di “mondo in sé”, ampiamente sviluppata da Nietzsche,
secondo cui la realtà finisce per scomparire davanti all’apparenza, ha condizionato diverse
linee del pensiero del Novecento.
A partire dagli anni Ottanta, un gran numero di concetti filosofici, riuniti sotto il nome di
“costruttivismo”, hanno influenzato notevolmente la psicoterapia, non soltanto le scuole di
terapia più tradizionali, come il comportamentismo e la psicoanalisi, ma anche alcuni fra i
modelli terapeutici interazionisti, come il modello del Mental Research Institute3, il modello
strategico di Jay Haley4,5, il modello focalizzato sulla soluzione di de Shazer6,7, e il modello
strategico-costruttivista8,9,10.
Il costruttivismo è una teoria della conoscenza che propone una rottura radicale con
l’epistemologia tradizionale; pensare in modo costruttivista implica cambiare modalità e
contenuti di pensiero. Come sottolineato da Watzlawick e Nardone (in sorprendente analogia
con la meccanica quantistica): “il punto di vista costruttivista dice soltanto che non si può
conoscere una realtà indipendentemente dall’osservatore. Il costruttivismo non fa affermazioni
ontologiche. Non dice come è il mondo; suggerisce un modo di pensarlo, e fornisce un’analisi
delle opinioni che generano la realtà dall’esperienza [...]. Il costruttivismo afferma che la
conoscenza deve essere operativa per poter essere adattata ai nostri scopi, e che deve
armonizzarsi con il nostro mondo percettivo, poiché quello è l’unico mondo che ci
interessa”11.
1
“The Matrix”; USA 1999; durata: 136 min; regia: Andy e Larry Wachowski; produzione: Village Roadshow
Productions, Silver Pictures; distribuzione: Warner Bros; genere: azione/fantascienza; cast: Keanu Reeves,
Laurence Fishburne, Carrie -Anne Moss, Joe Pantoliano, Hugo Weaving
2
M. Heidegger; “Holzwege”; Frankfurt a/M; 1950; Klosterman; tr. it.; “Sentieri interrotti“; La Nuova Italia;
Firenze; 1968
3
J. H. Weakland et alii; “Terapia breve: una soluzione focalizzata dei problemi”; 1974; tr. it. in “La prospettiva
relazionale” a cura di P. Watzlawick, J. H. Weakland; Astrolabio; Roma; 1978
4
Jay Haley; “Terapie non comuni”; 1973; tr. it. Astrolabio; Roma; 1976
5
Jay Haley; “La terapia del problem solving”; 1976; tr. it. La Nuova Italia Scientifica; Roma; 1985
6
S. de Shazer; “Patterns of Brief Family Therapy”; Guilford; New York; 1982
7
S. de Shazer; “Clues: Investigations Solutions in Brief Therapy”; Norton; New York; 1988
8
G. Nardone, P. Watzlawick; “The Art of Change: Strategic Therapy and Hypnotherapy Without Trance”; tr. it.
“L'Arte del Cambiamento”; Ponte alle Grazie, Firenze; 1990
9
G. Nardone; “Suggestione → Ristrutturazione = Cambiamento; l'approccio strategico e costruttivista alla terapia
breve”; Giuffrè; Milano; 1991
10
G. Nardone; “Paura, Panico, Fobie”; Ponte alle Grazie; Firenze; 1993
11
P. Watzlawick, G. Nardone; “Terapia breve strategica”; Raffaello Cortina Editore; Milano; 1997
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Per il costruttivismo non esiste una realtà oggettiva al di fuori della nostra percezione, o, se
esiste, non possiamo conoscerla se non attraverso il nostro sistema percettivo/reattivo. Questo
altro non è che la nostra interfaccia con la realtà esterna. Non solo. È la modalità con cui ci
rapportiamo con noi stessi. Il sistema percettivo/reattivo, come suggeriscono le due parole che
lo costituiscono, racchiude la dimensione emotiva (fortemente interiore), e anche quella
comportamentale (esteriore). È, quindi, un concetto più complesso di quello della “persona”
junghiana, la “maschera” che nasconde il “vero sé”, poiché il nostro apparire è strettamente e
indissolubilmente legato al nostro essere e, quindi, al nostro agire. “Una maschera racconta
molto più di un volto” (O. Wilde). E, che ci piaccia o no, ciascuno di noi sceglie, più o meno
consapevolmente, la propria “maschera”. C’è un’attribuzione di responsabilità in questo. Non
è un caso che sotto una stessa definizione di sistema percettivo-reattivo troviamo un’ampia
varietà comportamentale.
Mi viene in mente il confronto Batman-Joker. Nel racconto “The Killing Joke”12 viene fornita
una spiegazione su chi era Joker prima di diventare Joker. È un uomo insicuro, sposato e
oppresso dalla moglie che gli rimprovera di aver abbandonato il lavoro per fare l’attore
comico, senza riuscire a far ridere nessuno. Cercherà di riscattarsi agli occhi della consorte
(del tutto inutilmente, visto che lei rimarrà vittima di un incidente), lasciando che dei gangster
lo usino. Da lì la caduta nell’acido. Il Joker è, quindi, all’origine, un perdente, sembrano
volerci dire Moore e Bolland, uno dei tanti che vengono tritati dal sogno americano, che
ammette solo vincitori, pena l’essere appunto schiacciati. È, insomma, un personaggio
derisorio. Dopo l’incidente, che lo sfigura dentro e fuori, si voterà quindi al crimine in una
continua rivalsa contro la società, una società bassa e meschina, che “va derisa”. Joker deride
tutto e tutti, anche se stesso. Di qui l’immagine, non a caso, clownesca con quel sorriso
beffardo impresso sul volto.
Qual è il sistema percettivo-reattivo di Joker? Probabilmente di tipo paranoico. Lo stesso, del
resto, di quel “fregnone paternale” di Batman, che, invece, sceglie l’immagine dark- fashion
dell’ uomo-pipistrello e veste i panni del giustiziere buono. Due personalità sicuramente
complesse (e diciamolo pure: disturbate!) che hanno creato la propria realtà: due facce della
stessa medaglia. Il primo ha costruito l’autoinganno di poter essere superiore persino alla
legge, disseminando morte, paura e terrore; il secondo quello di poter sconfiggere il Male, in
un’accanita corsa verso la vendetta. Scelte diverse che rivelano lo stesso delirio: quello di
onnipotenza!!
Watzlawick parla di “realtà inventata”, dove ognuno di noi crea la propria realtà con un
processo di autoinganno inevitabile. Questo concetto si riscontra sia nell’esperienza ordinaria,
quando persone diverse interpretano uno stesso episodio in modo del tutto diverso, sia nella
scienza più avanzata, quando la sola “esistenza” del ricercatore-sperimentatore condiziona i
dati stessi della ricerca. La soggettività della percezione porta fatalmente all’autoinganno : se
non vedo in modo obiettivo neanche ciò che sta fisicamente davanti a me, a maggior ragione le
mie convinzioni, a volte i miei pregiudizi, influenzano l’opinione che mi faccio di una certa
cosa, di un evento, di un messaggio. E allora, come sostiene Watzlawick, se l’autoinganno è
inevitabile, posso imparare ad autoingannarmi in modo utile. Posso convincermi che il
bicchiere mezzo vuoto sia invece mezzo pieno. Posso credere di essere antipatico, oppure
convincermi di essere simpatico. In tal modo, scatta una profezia che si autoavvera, perché se
entro in una stanza convinta di essere simpatica, guarderò tutti con un sorriso, gli altri mi
sorrideranno, rinforzando così la mia convinzione in un circolo virtuoso. Il “successo” sociale
dipende in gran parte dal nostro modo di porci, dall’immagine che offriamo all’altro di noi
stessi, piuttosto che da ciò che realmente siamo, sempre che una distinzione tra essere e
apparire sia ancora possibile. O. Wilde diceva: “soltanto i superficiali non giudicano
dall’apparenza ”.
12
Sceneggiato da Alan Moore e visualizzato da Brian Bolland è stato pubblicato nel 1988, un anno prima
dell’uscita del primo Batman di Tim Burton
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Il costruttivismo ha avuto il grande merito di spingere gli psicologi e gli psicoterapeuti allo
studio della “realtà”, intesa non più come entità a se stante, ma come dimensione soggettiva,
una conseguenza del nostro modo di percepire, piuttosto che la causa. Ogni realtà è diversa da
un’altra a seconda di come “appare” a ciascun individuo. Per Nietzsche, apparenza non è un
termine opposto che si contrappone a una realtà fatta di una sostanza in sé, ma è tutto quello
che “realizza e vive”. Fondamentale, in questa prospettiva, è il segmento del “Crepuscolo
degli idoli”, che ha un titolo folgorante: “Come il mondo vero finì per diventare favola”13.
Nietzsche delinea la “storia di un errore”, l’idea del “mondo vero, accessibile al saggio, al
religioso e al virtuoso” e ne rileva la progressiva disgregazione. “Abbiamo tolto di mezzo il
mondo vero: quale mondo ci è rimasto? Forse quello apparente? Ma no. Con il mondo vero
abbiamo eliminato anche quello apparente!”.
Nel saggio “Spirito e natura” Schrödinger afferma: “la visione del mondo di ciascuno è e
rimane sempre un costrutto della sua mente e non si può dimostrare che abbia nessun altra
esistenza”. E Heisenberg sullo stesso tema: “La realtà di cui noi parliamo non è mai una realtà
‘a priori’, ma una realtà conosciuta e creata da noi. Se, in riferimento a quest’ultima
formulazione, si obietta che, dopo tutto, esiste un mondo oggettivo, indipendente da noi e dal
nostro pensiero, che funziona o può funzionare indipendentemente dal nostro agire, e che è
quello che noi effettivamente intendiamo quando facciamo ricerca, a questa obiezione, così
convincente a prima vista, si deve ribattere sottolineando che anche l’espressione ‘esiste’ ha
origine nel linguaggio umano e non può quindi avere un significato non legato alla nostra
comprensione. Per noi ‘esiste’ solo il mondo in cui l’espressione ‘esiste’ ha un significato”14.
Il biologo cileno Francisco Varela15 scrive: “Nel percepire il mondo così come lo percepiamo
abbiamo dimenticato ciò che abbiamo fatto per percepirlo come tale; e quando questo ci viene
ricordato e percorriamo a ritroso il nostro cammino, quel che alla fine incontriamo è poco più
di un’immagine specchiante di noi stessi e del mondo”.
Ritorniamo al contesto terapeutico, in cui il concetto di “vero” ha lasciato il posto a quello di
“verosimile”. I terapeuti sono, o almeno dovrebbero essere, più interessati alla versione che il
paziente dà di un certo evento, piuttosto che all’evento stesso; non importa la veridicità del
racconto, ma il significato che il paziente vi attribuisce. Il lavoro terapeutico non consiste né
nel ricercare la verità né nell’indirizzare la terapia verso ciò che è “giusto”. Consiste
semplicemente nel creare quelle condizioni di apprendimento in cui qualcosa di dive rso e al
tempo stesso verosimile rispetto alla visione che il cliente ha del proprio problema possa
sostituire i suoi sintomi e la sua sofferenza.
Partendo dal presupposto che l’autoinganno è la realtà che noi percepiamo, appare evidente
che il cambiamento auspicato deve essere qualcosa di diverso da ciò che solitamente il
paziente pensa o mette in atto, anzi, spesso è proprio la reazione di sempre, che, perpetuata nel
tempo, diviene la soluzione disfunzionale che tiene in vita il problema, invece di risolverlo: le
tentate soluzioni fallimentari che intrappolano le persone in autoinganni ridondanti e
ricorrenti.
L’obiettivo terapeutico, allora, consiste nel portare la persona a scoprire punti di vista
alternativi, cioè modi diversi di “leggere” la “realtà”, ed aiutarla a costruire nuovi autoinganni.
La realtà che ciascuno di noi percepisce è in sé un autoinganno. La terapia non è altro che il
passaggio da autoinganni disfunzionali ad autoinganni funzionali. Cito ancora Nietzsche, il
quale sosteneva che, quando le persone non hanno una spiegazione relativa ad un certo
fenomeno o evento, ne trovano una che sanno essere falsa, ma si comportano come se fosse
vera perché le rassicura.
Esemplare rappresentante del potere dell’autoinganno è il personaggio letterario del “folle”
Don Chisciotte. La sua visionaria ostinazione lo spinge a leggere la realtà con altri occhi: i
13
F. W. Nietzsche; “Opere”; Adelphi; Milano
14
Werner Heisenberg; “Fisica e filosofia”; Il Saggiatore; Milano; 1966
15
Francisco Varela; “A calculus for Self-Reference”; International Journal of General System; n. 2; pp. 5÷24
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mulini a vento diventano giganti dalle braccia rotanti, i burattini demoni, i greggi di pecore
eserciti nemici. Combatterà questi avversari immaginari risultando sempre sonoramente
sconfitto.
Così commenta Battaglia a proposito della sua morte: “Sul suo letto nell’ora del trapasso
continuano ad accamparsi le grandi ombre della follia, che sono poi i bagliori della vita
[…]”16.
Il giorno in cui l’individuo tralascia di far disegni e si rassegna a restare nell’ambito della
natura e nel ritmo diurno della vita, egli potrà sì sentirsi immune dal contagio della follia, ma
al tempo stesso cessa di vivere ed è già sulla soglia della morte. Se l’uomo vive senza i suoi
ideali, sogni, ambizioni, chimere, probabilmente la vita per lui non ha più senso, tuttavia le
illusioni continuano ad essere ridicolizzate a favore di una affannosa, probabilmente sterile,
ricerca della “verità” delle cose. Mi chiedo: non è la normalità stessa che conferma l’uomo
nella sua dimora solitaria e lo espone ai venti gelidi del disinganno?
16
Felicita Dell’Aquila; “La diversità nei diversi modi della narrazione: dalla fiaba al cinema”; Collana
“Cinemastudies”; Editrice Cinetecnica; Milano; 2007