talvolta inavvertibili, nella percezione della realtà internazionale da parte degli attori
del sistema, cioè gli stati, gli organismi sopranazionali, e alcuni attori collettivi
rappresentanti insiemi di individui che si riconoscono in una comune identità o
ideologia.
I conflitti in esame si riducono a quelli che comportarono: il coinvolgimento della
potenza leader del sistema, gli Stati Uniti d’America; il coinvolgimento della
comunità internazionale, sia dal punto di vista diplomatico sia da quello militare; una
forte attivazione dell’opinione pubblica mondiale, mediata dai mezzi di
comunicazione.
Essi sono facilmente identificabili e sono:
• la seconda Guerra del Golfo (1990 - 1991);
• la Somalia (1992 - 1994);
• la crisi balcanica e il suo epilogo Kosovo (1998 - 1999);
• l’Afghanistan (2001 - );
• l’Iraq (2003 - ).
In ognuno di questi conflitti gli Stati Uniti sono intervenuti per la somma di varie
motivazioni riguardanti sia gli specifici interessi economici degli USA, sia il ruolo di
potenza leader del sistema. Ma sono le motivazioni legate a quest’ultimo punto ad
avere costituito attraverso il ricorso al conflitto delle tappe di un percorso di
trasformazione del sistema internazionale.
Un dato significativo si rileva andando a indagare la partecipazione di alcuni paesi,
all’infuori degli Stati Uniti, nelle fasi di gestazione, scoppio, e conclusione di questi
conflitti. Per taluni paesi la partecipazione si era limitata alla dimensione politica e
non aveva incluso quella militare. Ma successivamente gli stessi paesi potevano aver
tenuto comportamenti includenti la partecipazione militare in occasione degli altri
conflitti considerati.
Un paese in particolare in ogni occasione aveva legato la sua presenza alla
dimensione militare, a volte, ma non sempre, preceduto o seguito dalla
partecipazione nelle attività più propriamente politiche e diplomatiche: questo paese
era l’Italia.
Non in solitudine, l’Italia ha offerto in ognuno di questi conflitti un contributo
militare, più o meno significativo, al fianco della potenza leader del sistema, gli Stati
Uniti, talvolta guidata da interessi coincidenti con l’alleato americano e talvolta da
3
interessi differenti, ma sempre indotta a partecipare in adempimento al principio
esserci per poter contare vera stella polare della politica estera dell’Italia
repubblicana.
Nel presente lavoro si vuole descrivere quali sono le motivazioni e le azioni
discendenti degli Stati Uniti e dell’Italia in queste guerre, gli interessi dei rispettivi
governi, il modo con cui era stato dipinto il quadro della crisi all’opinione pubblica,
le giustificazioni addotte per giustificare agli occhi dell’opinione pubblica interna
italiana la partecipazione alla guerra, e infine il dispositivo militare impiegato
dall’Italia.
Nel corso di questo travagliato periodo si sono verificati gli eventi dell’11 settembre
che sembrano aver imposto una periodizzazione degli anni post bipolari ponendo
come perno gli attentati alle Twin Towers e al Pentagono. Esisteva un mondo prima
dell’11 settembre 2001, ed esiste un mondo diverso dopo.
Questa convinzione risulta essere fallace poiché i fenomeni e le serie di eventi
presenti nel prima, sono gli stessi del dopo, o comunque frutto delle stesse matrici
comportamentali degli attori del sistema e delle società umane della globalizzazione
pre 11/9 e post bipolari.
Se esiste una differenza tra il prima e il dopo undici settembre questa si riscontra
nell’accelerazione dei processi gia in atto prima degli attentati.
Le iniziative americane in particolare, saranno rese operative in tempi brevissimi,
tenuto conto dell’alto numero di fronti di intervento aperti dell’amministrazione
americana nel corso di due soli mandati.
Questa accelerazione imposta dagli Stati Uniti ha avuto come corollario la
mobilitazione di un gruppo di governi di stati alleati.
Questo ha comportato l’accettazione di uno schema interpretativo amico/nemico
molto rigido per i governi che, mobilitatisi e non, erano da poco usciti dalla logica
dei blocchi propria della Guerra Fredda.
Sia per l’Italia che per altri paesi questo ha determinato una modifica di determinati
aspetti ed espressioni della politica estera, che rende particolarmente evidenti i
comportamenti tra il prima e il dopo 11/9.
In particolare per l’Italia si è trattato di una modifica significativa nella
partecipazione a quei conflitti oggetto di osservazione.
4
La partecipazione alle operazioni militari in ognuno di questi conflitti, così
importanti per il futuro, offre la possibilità di poter andare ad indagare le differenze
esistenti tra la fase precedente e la fase successiva agli eventi dell’undici settembre.
Analizzando il quadro globale risulta difficile avvalorare la tesi dell’esistenza di
differenze qualitative tra i due periodi, ma analizzando singolarmente l’esperienza
italiana è possibile rintracciare una gruppo di differenze legate al coinvolgimento
internazionale dell’Italia nei conflitti esaminati.
5
Premessa
L’8 dicembre 1987 venne firmato a Washington il trattato INF (acronimo di
Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty ) che prevedeva il ritiro reciproco dai
paesi europei dei missili di teatro americani e sovietici, e l’accettazione da parte
sovietica di un sistema di ispezioni internazionali sui propri armamenti nucleari nel
proprio territorio. Questo momento coincise con la dichiarazione di resa dell’URSS
agli Stati Uniti d’America e la fine del confronto bipolare.
A partire da questo momento gli Stati Uniti si trovarono di fronte a un mondo
differente in cui gli stati, e gli altri attori internazionali, potevano agire con una
libertà inconcepibile per le strette logiche dell’era precedente. Tutti gli attori della
scena internazionale avrebbero dovuto comportarsi secondo logiche alternative
rispetto a quelle tenute fino ad allora, e la stessa superpotenza americana che usciva
vincitrice dal confronto si trovava nella necessità di scegliere il proprio ruolo per il
futuro.
La criticità della nuova realtà fu determinata dall’improvvisa vittoria, resasi evidente
con la dissoluzione dell’Unione Sovietica, che poneva la necessità di agire senza
però prima aver avuto la possibilità di metabolizzare la nuova situazione creatasi, in
una situazione di forte incertezza sulla strada da intraprendere.
In particolare erano gli Stati Uniti a dover decidere quale percorso percorrere, quale
ruolo assumere sulla scena internazionale, e quali oneri essere disposti a pagare per
mantenere il primato conquistato.
Durante la guerra fredda il blocco di paesi alleati guidato dagli Stati Uniti aveva
accettato la condizione di sovranità limitata in cambio della tutela della potenza
nucleare. Per molti paesi questo assunto si era ampliato fino al punto di includere la
delega della propria difesa alla potenza americana. Questo aveva comportato
reciproci vantaggi in particolare per una serie di paesi in cui il ruolo guida e la
pervasività della presenza americana avevano permesso il raggiungimento di più
ampi obiettivi propri. Oneri di cui nella realtà della guerra fredda gli Stati Uniti erano
stati disposti a farsi carico ritenendolo vantaggioso.
6
La fine del confronto bipolare alterò profondamente la bilancia costi benefici anche
là dove l’interesse americano avrebbe potuto continuare a sussistere, perché gli
interessi americani si erano inevitabilmente trasformati.
La prima conseguenza fu la trasformazione dei rapporti con gli alleati storici che
avvenne nel corso degli anni novanta.
In Europa occidentale questa trasformazione si accompagnò al ridimensionamento
della presenza militare americana sul continente.
Quando il trattato INF venne ratificato, le dimensioni della politica estera della
Repubblica Italiana, nascenti nel sistema bipolare, rimasero sostanzialmente
immutate anche se questo non impedì di percepire l’apertura di nuovi spazi entro cui
costruire dei percorsi nuovi. Questo significò tra l’altro la realizzazione di progetti
rivolti a stati dell’Europa orientale come ad esempio l’INCE, acronimo di Iniziativa
Centro Europea (novembre 1989), costituita inizialmente dalla Jugoslavia,
dall’Austria e dall’Ungheria. Arrivando al riconoscimento di interessi coincidenti
con paesi neutrali, o appartenenti all’ex patto di Varsavia, quindi interessi
sicuramente autonomi rispetto agli Stati Uniti
4
.
La politica estera della Repubblica Italiana si era sempre avvalsa della favorevole
posizione geografica, avanzata rispetto alla cortina della guerra fredda; condizione
che le permetteva di costituire una cerniera con l’Europa centrale e balcanica.
La geografia politica garantiva una posizione geostrategica da offrire agli Stati Uniti
in cambio di benefici consistenti per la neo nata repubblica.
In questa ottica si potrebbe notare come le servitù militari americane in Italia fossero
utili al dispositivo militare americano di contenimento, ma anche un impegno a
garantire alla classe dirigente italiana la difesa territoriale liberando risorse politiche
ed economiche. Inoltre la presenza militare americana comportava implicitamente il
coinvolgimento degli Stati Uniti nel caso di una rivoluzione di stampo comunista.
Ipotesi sempre presente nella realtà politica italiana ma irrealizzabile per la presenza
di truppe americane, dimostrandosi queste un efficace deterrente.
Dal 1945 l’Italia scelse deliberatamente di assumere un basso profilo nella vita
internazionale avendo come asse di riferimento e guida della sua politica estera
l’appartenenza al blocco occidentale, e come sostegno gli Stati Uniti. Gli interessi
italiani generalmente andarono a sovrapporsi agli interessi americani anche nelle aree
4
Cfr. Liliana Saiu, La politica estera italiana dall’unità a oggi, Editori Laterza,2005 , Bari, (pag.134-
135-136)
7
coincidenti alle tradizionali direttrici di interesse geopolitico italiano, cioè la
direttrice atlantica, quella europea, e quella mediterranea. L’unica rilevante
eccezione fu la politica di integrazione europea
5
.
L’improvviso mutamento internazionale verificatosi a partire dal 1987 influenzò
profondamente la realtà politica e istituzionale italiana.
In primo luogo perché la trasformazione del sistema internazionale impose un
cambiamento alle istituzioni italiane per meglio operare nel nuovo sistema
internazionale, e perché questa trasformazione internazionale aveva comportato il
venir meno della griglia ideologica in cui si incasellavano le contrapposte forze
politiche italiane. La sconfitta del comunismo aveva annullato il paradigma nel quale
le forze politiche, e in particolare i partiti politici italiani, avevano fino ad allora
trovato i principi guida e la legittimità del loro agire politico: il comunismo e
l’anticomunismo.
Motivata dà fattori di origine internazionale combinati ad altri di natura interna il
sistemo politico italiano, inteso nel più ampio significato, entrò in crisi e si avviò
lungo un percorso di trasformazione a partire dai primi anni novanta. A partire da
questo momento la debolezza del sistema istituzionale concentrò l’attenzione dei
governi e della classe dirigente italiana su questioni di ordine interno, lasciando in
secondo piano la politica internazionale. Con le uniche eccezioni dei momenti più
acuti di alcune crisi internazionali, o dei conflitti in cui l’Italia partecipò in modo
attivo, perchè maggiormente sentiti dall’opinione pubblica. Questo ingenerò una
debolezza nella proiezione esterna del paese lungo il corso degli anni novanta
particolarmente significativa anche nei momenti sopradetti.
Le incertezze delle politica estera italiana non vennero superate negli anni duemila,
poiché le scelte di politica estera continuarono ad essere strumentalizzate per
obiettivi di natura interna da parte delle forze politiche. Gli eventi dell’undici
settembre 2001 non modificarono la cronica debolezza delle decisioni della politica
estera italiana in quanto le decisioni prese di dimostrarono compiute con poca
lungimiranza e poca pianificazione, con l’attenzione rivolta più all’interno che alla
realtà internazionale.
5
Sui motivi che portano la classe dirigente italiana a scegliere orientamenti preconfezionati da altri e a
internazionalizzare le responsabilità internazionali del paese si veda il saggio: T. Ammendola, P.
Isernia, Continuità e mutamento nella politica estera italiana, in G. Di Palma, S. Fabbrini, G. Freddi
(a cura di), Condannata al successo? L’Italia nell’Europa integrata, Il Mulino, Bologna, 2000
8
La seconda Guerra del Golfo
Il 2 agosto del 1990 l’Iraq del dittatore Saddam Hussein invase l’emirato del
Kuwait. Una “ragionevole ritorsione” nei confronti del vicino stato kuwaitiano reo
del furto di petrolio dai giacimenti a cavallo del confine: questa la motivazione
addotta per giustificare l’invasione.
La motivazione si inseriva in quella serie di “diritti storici” rivendicati dall’Iraq sul
Kuwait, i quali nascevano in un passato precedente l’indipendenza dei due stati
quando la provincia irachena meridionale era unita con il Kuwait nell’antico vilayat
ottomano di Bassora.
I britannici per meglio controllare la regione spinsero il governo ottomano a
concedere una forma di autonomia al territorio dell’odierno Kuwait, poi con il crollo
dell’impero ottomano e il regime dei mandati della Società delle Nazioni agirono
perché si costituissero due stati indipendenti al momento della fine del regime
mandatario.
La scelta di un’influenza inglese che operasse su due stati anziché uno diventava
comprensibile alla luce dei dati sulle prospezioni dei giacimenti dei due paesi.
Il Kuwait possedeva fino all’anno 2000 più del 9% delle riserve di petrolio in
percentuale sulle riserve mondiali a fronte di una riserva di petrolio dell’Iraq in
percentuale alle riserve mondiali di quasi l’ 11%
6
. Quindi una divisione a metà delle
riserve che permetteva di evitare una eccessiva concentrazione di potere derivante
dal controllo delle stesse, nelle mani di un solo stato. Insomma una sorta di
applicazione del principio latino divide et impera.
Da qui la rivendicazione dell’appartenenza del Kuwait al territorio dell’Iraq, la quale
portò il dittatore iracheno a dichiarare lo stesso una provincia irachena. Ma più della
rivendicazione territoriale, quello che preoccupò la comunità internazionale era che a
seguito dell’invasione dell’emirato l’Iraq raddoppiava le sue riserve petrolifere, con
l’evidente aumento della potenza e delle capacità di influenzare il prezzo del petrolio
sul mercato internazionale.
6
Cfr. Augusto e Claudia Biancotti, Geopolitica del petrolio,Bem, 2004, Torino.
9
L’Iraq dal 1980 al 1988 era stato coinvolto in un conflitto con la confinante
Repubblica Islamica dell’Iran (la prima Guerra del Golfo), che nel 1979 aveva
modificato il suo assetto istituzionale mediante una rivoluzione instaurante una
repubblica islamica, una espressione di cesaro-papismo moderna che poneva alla
guida del paese un gruppo di religiosi fautori di un’interpretazione “anomala” dello
sciismo, che legava il personalismo tipico di un regime populista sudamericano alla
tradizione messianica e misterica del ritorno del Mahdi.
La Rivoluzione preoccupava ambedue le potenze reggitrici dell’ordine mondiale:
l’Unione Sovietica per l’effetto destabilizzante di uno stato con connotazione
religiosa in un area in cui le sue repubbliche avevano una popolazione in cui era
presente o una maggioranza, o una consistente minoranza mussulmana; per gli Stati
Uniti invece, il mutamento politico in Iran aveva determinato la perdita di un
importante alleato che garantiva importanti guadagni dalle attività di estrazione
petrolifera per le società americane ed inglesi, giocava un ruolo favorevole per la
determinazione del prezzo del greggio sul mercato internazionale, favorevole ai paesi
industrializzati (le scelte dell’OPEC come nel 1973 erano un ricordo presente nella
memoria dei paesi industrializzati); e infine la forza militare dell’Iran pre-rivoluzione
costituiva uno dei più importanti baluardi del sistema di contenimento sovietico.
In questo contesto si inserì la scelta di Saddam Hussein di trasformare l’Iraq nella
potenza regionale del Golfo (per potersi confrontare alla pari con l’Arabia Saudita),
che lo spinse ad affrontare l’Iran rivoluzionario in una guerra per accaparrarsi le
riserve petrolifere iraniane che si concentravano sui confini occidentali del paese.
Il progetto piacque alle due superpotenze, che scelsero di sostenere lo sforzo
iracheno, perché lo ritennero utile strumento per contenere la probabile espansione,
quantomeno ideologica, della rivoluzione sciita iraniana.
Inoltre agli Stati Uniti la prima Guerra del Golfo offriva l’ulteriore vantaggio di
vedere impegnato in un conflitto estenuante uno degli alleati dell’Unione Sovietica,
l’Iraq.
Quando il dittatore scelse di violare i confini dell’emirato nell’estate del 1990
apparve ai più che egli volesse sostenere l’argomentazione per cui il sanguinoso
onere sopportato dal suo paese nella guerra contro l’Iran, in sostegno alla volontà
americana e russa dovesse essere ripagato attraverso l’invasione e l’annessione del
piccolo Kuwait.
10
A indurre il presidente iracheno a compiere questa scelta fu prevalentemente la
disastrosa situazione economica e finanziaria in cui versava lo stato iracheno, il quale
era indebitato con molti paesi del Golfo tra cui lo stesso Kuwait.
Alla fallacità della valutazione del leader iracheno aveva contribuito il disinteresse
per la crisi politica nel Golfo, che si era dimostrato a seguito delle richieste irachene
da parte dei paesi della Lega Araba e da parte degli Stati Uniti. Inoltre la scarsa
attenzione, o ambiguità, da parte di Washington venne interpretato dalla dirigenza
irachena come un sostanziale assenso all’invasione militare
7
.
Ma la preoccupazione dei paesi industrializzati, degli Stati Uniti, oltre naturalmente
agli stati arabi confinanti, di vedere alterati gli equilibri geopolitici della regione
trovandosi improvvisamente di fronte a un attore in grado di influenzare in modo
determinante il prezzo del petrolio, e forse di espandere ulteriormente i propri
confini, condussero a una reazione di condanna che isolò l’Iraq.
La risposta, che non si fece attendere, spinse gli Stati Uniti a privilegiare una
impostazione diplomatica rigida condivisa da più parti. Molti paesi come ad esempio
il Regno Unito, sostenevano l’opportunità di eliminare la dirigenza irachena, poiché
poteva contare su un esercito con più di un milione di effettivi e con un
equipaggiamento che ne sanciva la superiorità militare sui paesi della regione.
La violazione del diritto internazionale che prevede l’inviolabilità delle frontiere
non poteva non provocare lo sdegno dell’opinione pubblica occidentale e mondiale,
esclusione fatta per le masse arabe del Medio Oriente.
Saddam, infatti era riuscito a collegare (“linkato”) la crisi sia al problema palestinese
che a problemi generali del mondo arabo
8
riuscendo in questo modo a ottenerne il
consenso dell’opinione pubblica araba, che si paleserà in dimostrazioni di piazza e in
alcune azioni violente contro i governi degli stati arabi.
Il petrolio e il suo controllo potrebbero essere ritenuti la causa dell’intervento degli
Stati Uniti nella crisi, ma questo non è l’unica causa anche se occupa una posizione
prevalente.
7
Cfr. Pierre Salinger, Eric Laurent, Guerra del Golfo. Il dossier segreto, Mursia,1991, Milano.
8
Le accuse sono di apostasia dei governi arabi, di sfruttamento delle ricchezze del popolo arabo, la
presenza di infedeli nei luoghi santi, di non combattere Israele, e altre accuse che trovarono terreno
fertile nelle “frustrate” masse arabe. Ha dell’incredibile come i palestinesi profughi nei paesi della
regione sostennero in manifestazioni di piazza Saddam Hussein quando molti palestinesi presenti in
Kuwait a causa dell’invasione persero i propri averi e furono di nuovo ridotti a profughi.
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