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dell’infanzia”. Mi riferisco sia al bambino come elemento dimensionatore rispetto al
quale definire una serie di criteri per la progettazione degli spazi e delle attrezzature (i
servizi educativi, le aree verdi, le aree per il gioco, gli impianti sportivi ecc.), ma an-
che a quel momento spazio-temporale che ruota intorno ai primi anni di vita del bam-
bino e alla sua famiglia, fatto di relazioni tra la propria abitazione e lo spazio di pros-
simità interposto tra la scuola e gli altri servizi di cui il bambino fruisce.
La ricerca di esperienze e buone pratiche in materia di politiche per l’infanzia adot-
tate dalle principali città europee ha portato alla scoperta di interessanti approcci in
materia di programmazione. In alcuni casi documentati (Monaco e Stoccarda)
l’inscindibile binomio bambino-famiglia costituisce un nuovo soggetto della pianifica-
zione, cui sono indirizzate specifiche politiche trasversali tra i settori: dall’housing ai
servizi di tipo innovativo, dalle questioni della sicurezza e la mobilità alla partecipa-
zione attiva dei cittadini. Per chi amministra il timore per i bassi tassi di crescita de-
mografica (reggono perlopiù gli immigrati) e il progressivo allontanamento delle fa-
miglie dalla città storica sono alla base di dispositivi e incentivi per rendere ancora at-
trattive le città.
Accertato che le città non sono adatte ad accogliere i bambini (Dichiarazione di
Rio 1992, Carta di Aalborg 1994, Dichiarazione di Instanbul 1996), paradossalmente –
oltre alla questione problematica della loro presenza - è sempre più la loro assenza nel-
le grandi città del mondo occidentale a preoccupare. La crescente urbanizzazione pro-
duce giornaliere migrazioni delle popolazioni più povere verso le aree urbane. E se i
tassi di natalità sono ovunque in crescita nei paesi del cosiddetto Terzo Mondo, non si
può dire lo stesso per le nostre città che registrano lievi incrementi grazie soprattutto
alla presenza degli stranieri.
In una logica competitiva sulla scala locale, in cui il benessere dei cittadini assume
priorità nell’agenda politica, si cerca dunque di mettere in campo una serie di misure e
azioni - altrimenti non ordinarie nella prassi delle politiche urbane tradizionali - orien-
tate proprio alle famiglie con figli piccoli. Con un duplice obiettivo dichiarato, cioè
soddisfare le esigenze più immediate lavorando sulle strutture degli spazi nella città
consolidata in capo alle istanze della sicurezza e della mobilità (potremmo chiamare
questa la dimensione spaziale), ma soprattutto con un occhio al futuro per cercare di
migliorare i tempi e la fruizione della città nel suo complesso, in una prospettiva pro-
gettuale di medio lungo periodo (una dimensione temporale).
Iniziano così a delinearsi i primi temi di un “progetto urbano per l’infanzia”. Una
serie di possibili azioni e strumenti che potrebbero costituire un punto di partenza per
chi volesse cominciare a trattare le questioni dell’infanzia urbana. Non più solo da un
punto di vista assistenziale o dei servizi sociali, ma un approccio integrato con una vi-
sione di sviluppo e crescita dell’intera comunità e radicato sul territorio a partire dalle
dimensioni della città fisica più prossime a ciascuno di noi.
Mettendo, infatti, a confronto tra loro queste esperienze si osserva un comune de-
nominatore che fa da riferimento alla scala di applicazione di ogni progetto ovvero il
vicinato. Per tradizione urbanistica infatti il bambino è legato alla dimensione del vi-
cinato, in cui la famiglia trova i servizi di base di cui necessita e all’interno della quale
il bambino compie le prime esplorazioni dell’ambiente che lo circonda. Tuttavia gli
spazi tra le residenze, nei pressi della scuola, i percorsi di collegamento e di accesso ai
servizi, spesso non sono adatti ad accogliere il bambino oppure non tengono conto del-
le sue esigenze. La motorizzazione e la percezione di pericolo del traffico da parte dei
genitori hanno progressivamente allontanato i bambini dalla strada. Anche per tale
motivo sono sempre più numerose le iniziative volte a promuovere e restituire auto-
nomia ai bambini nelle città (attraverso le iniziative tipo “pedibus” e “percorsi sicuri
casa-scuola”).
Se ha ancora qualche senso parlare di prossimità oggi, siamo in grado di valutare la
prestazione dei nostri quartieri per verificare quale livello di accoglienza garantiscono
ai bisogni di famiglie e bambini? A questo proposito risulta di un certo interesse
l’approccio introdotto da Carlo Socco (2003) il quale ha proposto una metodologia per
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misurare la qualità dello spazio pubblico residenziale prodotto dai servizi esistenti. La
scelta di partire dalla dimensione del vicinato, come luogo privilegiato in cui ancora si
riconoscono i caratteri dei legami comunitari e delle relazioni spaziali tra i nodi (servi-
zi) di una rete che abitualmente percorriamo, punta il dito proprio sulla necessità di
ripensare i percorsi come appendici dei servizi stessi. Questa riflessione si intreccia
senza dubbio con i temi di un progetto urbano per l’infanzia e sottolinea il carattere di
urgenza nel ridisegnare la rete dei percorsi soprattutto se tra gli obiettivi poniamo
quello di restituire una certa autonomia ai bambini.
Il percorso di ricerca prende avvio da un inquadramento della figura del bambino e
ripercorre l’evoluzione di una dialettica sul rapporto tra città e bambino. La raccolta di
buone pratiche costituisce una rassegna di politiche e strumenti trasferibili, pur nei li-
miti delle applicazioni consentite nel nostro paese in cui ancora si è lontani
dall’accogliere come legittime certe istanze (seppure urgenti). La proposta di un meto-
do per valutare la qualità dello spazio pubblico residenziale suggerisce una possibile
forma di legittimazione degli strumenti di misurazione che ben si inserisce in stagione
pianificatoria che inizia a ricorre all’uso degli indicatori per registrare prestazioni am-
bientali, di qualità dei servizi ecc. In prospettiva di una maggiore integrazione tra i sa-
peri, in cui le informazioni circolino libere tra i settori, il ricorso agli indicatori è un
primo passo per poter trattare questioni speciali e renderle confrontabili per migliorare
le prestazioni individuali. In secondo luogo un tale strumento può aiutare anche nel
compilare una agenda di priorità di intervento sulla città costruita, fornendo indicazio-
ni puntuali sulle parti da ridisegnare.
Più in generale, l’obiettivo di questa lunga riflessione sulla questione dell’infanzia
urbana è quello di suggerire possibili piani e politiche per iniziare a compilare una a-
genda di punti da dove partire per ripensare il ruolo delle città come luogo accogliente
per un bambino e per le famiglie.
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13
1 Qualità urbana e città a misura di bambino
La conquista di migliori condizioni di qualità della vita nelle città si gioca oggi-
giorno su più strati che si intrecciano nell’esperienza del vivere urbano e che contem-
plano le dimensioni dell’abitare, del lavoro e dello studio, del movimento e del gioco,
del respirare. Conciliare tra loro queste componenti significa realizzare città più “ami-
chevoli” che garantiscano una dimensione del vivere quotidiano meno faticosa e più
ricca.
Alle percezioni di disagio, degrado e insicurezza - ormai diffuse e comuni soprat-
tutto nelle grandi città - si contrappongono oggi i concetti di benessere, qualità della
vita e abitabilità. Questi termini fanno parte di un glossario di “parole della città” (Sal-
zano; Boniburini) che si è fatto strada nella disciplina urbanistica per contrassegnare
scenari desiderabili. Il concetto di benessere ha una gamma di significati molto ampi.
Tra questi, il benessere come qualità della vita che apre la strada verso il concetto di
qualità urbana.
La nuova idea di abitabilità1 non può prescindere dal passare anche attraverso un
progetto per l’infanzia, cioè la messa a punto di un insieme di azioni che si concretiz-
zano in una migliore fruibilità dei servizi e dello spazio pubblico da parte dei bambini
(e delle famiglie). In questa direzione si sono già mosse altre città europee, poiché
hanno capito che su questo fronte devono innovarsi per attrarre in futuro una popola-
zione giovane e qualificata in grado di accrescere la loro competitività territoriale.
Ma c’è molto di più. È innanzitutto l’amore per i bambini, quella speciale attenzio-
ne che ogni comunità dovrebbe avere nei confronti delle sue generazioni più giovani, a
guidare verso la realizzazione di città child friendly.
Per lungo tempo il bambino è stato tratteggiato dalla letteratura specializzata solo
come soggetto debole, bisognoso di protezione e tutela da parte della società. Sebbene
la tutela fisica e psicologica del bambino siano ora in primo piano nelle azioni intra-
prese a sostegno dell’infanzia, tuttavia ancora troppo spesso si dimenticano - o sono
messi in secondo piano - gli altri fondamentali “diritti del fanciullo”. Se ad esempio il
diritto all’istruzione è oramai garantito, si parla invece poco del diritto al gioco e a vi-
vere in ambienti salubri.
Una svolta decisiva si è avuta quando il bambino è diventato il soggetto di riferi-
mento per la progettazione della città sostenibile, per una città democratica, per una
“città a misura d’uomo” (recuperando il buon senso di questa figura popolare). Il
bambino è stato anche assunto a indicatore di salute e qualità di un ambiente urbano;
di accessibilità e sicurezza; di fruizione e libertà.
È questo un tema recente ed emergente nel dibattito. L’esperienza italiana più nota
si riferisce al Progetto Città Sostenibili delle Bambine e dei Bambini promosso da Mi-
nistero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio nel 1998. Il carattere innovativo del
tema ha aperto anche un filone di ricerca dedicato all’interno del CRN di Roma, con
l’esperienza di Francesco Tonucci che aveva guidato la nascita del Laboratorio di
progettazione con i bambini a Fano (PU) nei primi anni 90. Contestualmente, proprio
a partire da questa esperienza pilota, le Associazioni nazionali e locali impegnate sul
tema infanzia-territorio-partecipazione hanno contribuito alla realizzazione di un nuo-
vo approccio all'infanzia e alla città. Ad esse convergono forme di progettualità urbana
L’introduzione nel lessico disciplinare di una nuova definizione del termine vivibilità, che si
allontana dal tradizionale significato appeso alle tabelle di parametri e standard urbanistici, si
deve anche agli studi prodotti dal gruppo di ricerca Ce.S.C.Am. (Centro Studi Città Amica)
dell’Università di Brescia. Più di recente, il termine abitabilità è stato adottato per promuovere
la visione strategica di sviluppo dell’area metropolitana milanese nei prossimi anni (cfr. Do-
cumento di Pianificazione Strategica dell’area metropolitana milanese. Cfr. Provincia di Mila-
no e Diap-Politecnico di Milano, Progetto strategico “Città di Città”, Milano 2006).
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e di policy diverse: forum di Agenda 21, sperimentazioni locali, attivazione di consigli
comunali dei ragazzi, laboratori di progettazione partecipata ecc. Infine, le esperienze
di progettazione partecipata con i bambini, che oggi molte realtà locali sperimentano
sul loro territorio, esprimono un segnale positivo nei confronti dei temi della relazione
tra il bambino e la città suggerendo nuove idee per ripensare e progettare parti della
città più a misura delle esigenze anche dei “minori”.
Porre il bambino al centro delle politiche urbane – non quindi solo urbanistiche, ma
anche temporali, della mobilità ecc. - ha ora come primo obiettivo la generazione di
ambienti per loro più sicuri e accessibili; diventa inoltre condizione per far emergere
le istanze dell’utenza debole in città (di cui i bambini sono la componente più rappre-
sentativa e sensibile) e dare una risposta ai problemi comuni legati alla mobilità, alla
sicurezza e all’accessibilità attraverso gli strumenti operativi/tecnici di cui una ammi-
nistrazione dispone.
L’urgenza di trattare questi temi emerge, innanzitutto, dalla considerazione per un
clima etico e culturale che in questi anni ha favorito il maturare di una certa attenzione
al mondo dell’infanzia e dell’adolescenza. È in corso infatti un processo di attribuzio-
ne di diritti di cittadinanza più articolati rispetto al passato. Ciononostante permane la
constatazione che ancora oggi, a circa 20 anni dalla Convenzione ONU per i Diritti del
Fanciullo, l’infanzia sia in molte circostanze negata, mentre è evidente che siamo an-
cora in presenza di una categoria sociale a cui corrisponde una “condizione di cittadi-
nanza differita”. E proprio da questa prospettiva sono state avviate in Italia e all’estero
indagini, azioni e dispositivi tecnici e normativi per (meglio) includere le esigenze del
bambino in ogni sfera dell’organizzazione urbana. La sfera del benessere del bambino
all’interno dell’ambiente in cui vive (nell’ambito dello spazio costruito) ha assunto un
particolare rilievo di interesse.
In seconda istanza, la constatazione che la città sia in misura più o meno evidente,
vietata ai bambini. Infatti, sebbene il suo ruolo educante - nello sviluppo fisico, psico-
sociale e culturale del bambino - sia stato finora ampiamente riconosciuto e sviluppato
negli ambiti disciplinari della sociologia e psicologia ambientale dell’ecologia urbana,
la compromissione della qualità dell’aria e dell’ambiente di vita quotidiano - prodotto
dell’attuale condizione delle nostre città e periferie – resta altamente nociva per i
bambini, soprattutto nelle prime fasce di età2.
Un ulteriore motivo di interesse nasce dall’interrogativo sulla validità dei termini in
cui si è andato sostenendo che il bambino, in qualità di referente sociale (Lorenzo,
1995) o indicatore della città sostenibile, possa essere un mezzo per ripensare la città
nel suo complesso. Un tema, quest’ultimo, che come già osservato è recente ed emer-
gente nel dibattito in quanto le generazioni passate non se lo sono mai posto. Difatti il
motto che ha accompagnato la nascita delle “città dei bambini” sosteneva che la pro-
gettazione per i bambini fosse un buon mezzo per progettare la città di tutti. Tuttavia
ciò non è più sufficiente. È necessario ora ragionare in termini più ampi e introdurre
l’idea di una vera e propria “pianificazione per i bambini”, riconoscendo cioè che la
fascia più giovane della popolazione esprime un proprio fabbisogno di servizi, diverso
per fasce di età, che richiede una adeguata programmazione. Attenzione, però, non si
tratta dell’imposizione di una visione “puerocentrica” né tanto meno della creazione di
luoghi separati. L’esito deve invece essere una “città per tutti”, in cui sia leggibile una
continuità della figura del bambino e con l’anziano, in cui però i conflitti (Forni, 2005)
sono numerosi e mai scontati.
L’attualità del tema rientra inoltre in quel filone della ricerca che si colloca nella
sfera delle politiche e della sostenibilità.
2
Si veda l’approfondimento nel Capitolo seguente sui fattori di rischio dell’ambiente costruito
sulla salute dei bambini.
15
«Ripensare la città significa avere un progetto di futuro, preparare uno sviluppo
sostenibile. Il bambino è il garante naturale dello sviluppo sostenibile: lui deve
diventare grande, capace di risolvere problemi e non potrà mai farlo se non gli
garantiremo autonomia, possibilità di rischio e di crescita, possibilità di relazioni
spontanee e di gioco. Ripensare la città vuol dire preparare un futuro nel quale ci
sai voglia e possibilità di pensare al benessere e alla qualità della vita» (Tonucci,
1996).
Deve preoccupare lo scenario che si prospetta già nel breve periodo, cioè di un (si-
lenzioso) adeguamento ad ambienti nocivi che sappiamo essere inadatti ai bambini,
ma anche agli adulti. Siamo vittime di una violenza invisibile - e per questo più insi-
diosa - di tipo strutturale che si manifesta in disuguali opportunità di vita3. E sono i
bambini a subire i danni più gravi di una organizzazione della città che non ha finora
tenuto conto delle loro esigenze ambientali e temporali, di sicurezza e di mobilità.
Includere i bambini nei processi di pianificazione urbana è una sfida che ogni città
dovrebbe accogliere per perseguire uno sviluppo armonioso tra la crescita della città
fisica (urbs) e l’arricchimento della vita dei suoi cittadini (civitas), soprattutto dei più
giovani.
1.1 L’approccio alla questione bambini-città
Il rapporto tra città e bambini non è un tema nuovo, ha costituito uno dei topoi del
pensiero occidentale a partire dal ‘700, da quando cioè è nato il “bambino moderno”,
come sostenne lo storico francese Philippe Ariés (1973). L’attenzione alla dimensione
del bambino – che ebbe in seguito il suo apice nella Convenzione delle Nazioni Unite
sui Diritti dell’Infanzia del 1989 - non a caso vide la luce in concomitanza
dell’affermarsi di un importante passaggio culturale della società moderna, in cui ma-
tura una nuova “cultura dell’infanzia”4. In quel momento, ridotti i rischi di mortalità e
resosi meno necessario il disinvestimento affettivo da parte dei genitori, si comincia a
riflettere sul futuro del bambino e, quindi, esplicitamente sulla sua formazione. Un
ruolo assolutamente centrale era assegnato alla città e la letteratura inglese
dell’Ottocento offrì molti esempi di “romanzo urbano” in cui i giovani protagonisti e-
rano i primi a sperimentare l’odissea urbana, il viaggio educativo per eccellenza. Così
annota Amendola5:
«David Copperfield, novello Telemaco, viaggia nella sua città, la Londra vitto-
riana, molto prima dell’Ulisse di Joyce. È qui, nelle strade della città, che – in
maniera non dissimile da Oliver Twist – diventa uomo. Qui cresce incontrando
attraverso una folla di personaggi tutta la società del proprio tempo compresa
quella sotterranea (la seconda nazione descritta da Disraeli in Sybil) dei margina-
li, delle periferie. Il bambino della città dell’ ‘800 diventa uomo nella stimolante
e imprevedibile promiscuità delle strade delle periferie industriali vittoriane di
Dickens, Engels e Doré o in quelle francesi rivoluzionarie di Hugo».
Il fatto che ci si riferisca alla Gran Bretagna non è un caso, dice Amendola: da una
parte, infatti, quella inglese è una società nella quale è centrale il problema della for-
3
Per una articolata definizione del concetto di violenza si veda il lavoro del sociologo norvege-
se Johan Galtung (1990) ripreso recentemente in Forni E. (2002), La città di Batman, Bollati
Boringhieri, Torino, e applicato alla realtà dell’infanzia urbana.
4
Si rimanda per un approfondimento ai Paragrafi successivi.
5
Riflessioni di Giandomenico Amendola (Università di Firenze), presentate durante il Conve-
gno “Vivere la città di oggi. Progettare la città di domani”, Modena il 18-19 Novembre 2005,
per la celebrazione della giornata dei diritti dell’infanzia.
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mazione della classe dirigente e dall’altra il processo di urbanizzazione è stato qui più
intenso e rapido, e per tanti aspetti più traumatico, di ogni altro paese.
Quando nel 1907 l’Ungherese Ferenc Molnàr scrisse I ragazzi della via Pál6, una
storia a puntate destinata agli adulti, denunciava già la mancanza di spazi per il gioco
dei ragazzi nella Budapest di inizio secolo. Cominciava a farsi strada la consapevolez-
za che le trasformazioni fisiche della città stavano progressivamente allontanando il
bambino dalla città.
Tuttavia, per gran parte della pedagogia del ‘900 il riconoscimento della città come
insostituibile maestra e la relativa esigenza di rendere questo ruolo possibile ha fatto sì
che, in progressione, la città del bambino o la città a misura di bambino sia diventata
un’idea 'prima pedagogica che architettonica o urbanistica (Amendola).
La novità nell’approccio alla questione dell’infanzia in chiave moderna risiede nel
fatto che, per la prima volta, si adottò uno sguardo critico sull’ambiente in cui i bam-
bini vivono. I rapidi processi di urbanizzazione trasferirono successivamente la sfera
della tutela dei diritti dei bambini alle aree urbane che man mano vanno allargandosi e
i cui effetti negativi - sia sociali sia ambientali - sono sotto gli occhi di tutti: margina-
lizzazione, nuove forme di povertà, inquinamento, degrado (Unicef, 2005).
Nelle nostre città si vedono sempre meno bambini, non solo perché la percentuale
di anziani sta crescendo rapidamente e i tassi di natalità restano bassi, ma anche per-
ché (soprattutto nelle grandi realtà urbane) si sono ritirati in casa oppure in altri luoghi
chiusi. Le ansie e le paure dei genitori nei confronti dei pericoli del traffico, ad esem-
pio, costringono i bambini a “trascorrere la vita passando da una scatola all'altra” sen-
za avere più tempo per osservare il mondo che li circonda7. Dice Amendola:
«Esiste ormai una sorta di città protetta fatta di isole sicure e di corridoi blindati
che le collegano. Il bambino viene sempre più spesso trasportato da casa a scuo-
la, da scuola alla palestra, da questa al cinema, alla piscina, dagli amici, in mac-
chine (altre scatole in movimento) che evocano insieme “insicurezza ed aggres-
sività”».
Il bambino è stato a lungo escluso dal mondo degli adulti che progetta la città (Lo-
renzo, 2000); per lungo tempo è stato vittima silenziosa di piani urbanistici che non lo
hanno ascoltato e hanno ignorato le sue esigenze (Unicef, 2005), portando alla costru-
zione di spazi, soprattutto negli ambiti periferici delle nostre città, in cui anche i requi-
siti minimi della vivibilità sono stati disattesi (carenza di servizi, difficoltà
nell’accessibilità pedonale). Ciò va in contrasto con le istanze di sostenibilità e di eco-
logia e con uno sviluppo individuale e sociale corretto. In tal senso il bambino deve
essere incluso nei processi di progettazione partecipata.
Le città – sostiene l’Unicef - diventano il nuovo terreno in cui giocare una sfida
particolare nell’ambito della difesa dei diritti umani, perché se «sono generalmente de-
scritte come luoghi in cui avviene la rinascita culturale e si offrono grandi opportunità,
tuttavia non ne beneficia la totalità della popolazione urbana, tanto nei paesi in via di
sviluppo, quanto in quelli industrializzati. In entrambi i casi, i bambini costituiscono la
fascia maggiormente a rischio».
L’odierna scommessa è allora quella di riportare il bambino in una città da cui è
stato progressivamente allontanato. Sebbene, a distanza di quasi venti anni dalla ratifi-
ca della Convenzione, i temi legati alla dimensione urbana del bambino facciano anco-
ra fatica ad attecchire nelle agende politiche delle nostre città (in Italia sono stati fatti
solo pochi e timidi passi in avanti rispetto all’esperienza in altri paesi europei).
6
Ferenc M., (1907), A Pál utcai fiúk.
7
Negli anni Sessanta dello scorso secolo il fumettista Bruno Bozzetto raffigurò una città fatta
di scatole di diverse dimensioni - dall’ospedale alla propria abitazione, dalla scuola all’ufficio -
tra le quali ci muoviamo stando dentro a una ulteriore scatola: l’automobile. Cfr. Bruno Boz-
zetto, Vita in scatola, cortometraggio, 1967.