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PREMESSA, METODOLOGIA E
STRUTTURA DELL’ELABORATO
Il termine “creatività”, pur essendo ampiamente usato e abusato da policy-maker,
politici e studiosi vari, si presenta come estremamente ambiguo. Esso infatti nasce nella
cultura, identificandosi come bene pubblico e meritorio, ma può giungere anche ad
assumere connotati di carattere più spiccatamente economico e for-profit, abbracciando
così i settori e le dinamiche più disparate. Con creatività si può intendere, di volta in
volta, genio creativo, ispirazione, innovazione, arte cultura, abilità di problem-solving e
molto altro. A secondo dell‟interpretazione che le si dà può essere associata ai musei, ai
teatri e alle gallerie, oppure a industrie di design, studi di architettura, aziende di
computer games, o addirittura manager, medici e avvocati. È quindi estremamente
rischioso, per un policy maker, proporre iniziative generiche a sostegno della creatività,
perché, in una disciplina così vasta e multi-sfaccettata, ciò che favorisce un settore può,
molto facilmente, danneggiarne un altro. Eppure negli ultimi anni sono fioriti centinaia
di studi a dimostrazione degli effetti positivi di una società permeata dalla creatività.
Essa favorirebbe non solo obiettivi più “umanistici” come la diffusione della cultura e
l‟inclusione sociale, ma sarebbe direttamente responsabile dell‟andamento della crescita
economica e della riqualificazione urbana. Nelle strategie di urban-planning la creatività
è divenuta elemento imprescindibile, e si sprecano le teorie dedicate alle migliori
pratiche per la creazione di una città creativa. L‟intrinseca multiformità del settore
creativo rende, però, quasi impossibile la formulazione di una strategia unica e
infallibile.
Il ruolo del settore pubblico diventa così estremamente complesso. Egli ha infatti il
compito di garantire un‟economia e una società stabile per i propri cittadini, e ciò
include, ovviamente, il settore creativo. Alcuni autori, tra i più noti Richard Florida e
Charles Landry, sono da anni in prima linea nel tentativo di fornire ai governi la
migliore “ricetta universale per la Città Creativa”. Città come Londra, Berlino,
Singapore, Barcellona, già da anni si distinguono come Città della Creatività;
analizzando le loro policy ci si rende però conto di come esse si siano guadagnate
questo appellativo tramite strategie estremamente differenti. Barcellona ha puntato sulla
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propria cultura e le proprie caratteristiche tradizioni; Londra si è dimostrata
all‟avanguardia nella creazione di veri e propri quartieri creativi, basati principalmente
sulle industrie creative, e quindi sul business; Singapore presenta una crescita creativa
fortemente guidata e controllata dal governo, mentre, al contrario, Berlino ha preferito
adottare un approccio più bottom-up, lasciando ai creativi grande libertà di
sperimentazione. È evidente quindi come non possa esistere un‟unica strada per la
creazione della Città Creativa, ma come ogni luogo debba essere in grado di sviluppare
la propria strategia, tenendo conto e valorizzando le proprie specificità geografiche,
storiche, antropologiche ed economiche.
In questa tesi si è voluto analizzare un caso di città creativa, dal duplice punto di vista
dell‟attore pubblico e del settore privato. È stata scelta Copenhagen in quanto realtà
abbastanza sconosciuta nei settori di ricerca sulla creatività in Italia. Copenhagen è una
città che, pur essendo capitale, è di dimensioni contenute, e quindi si presentava come
più agevole da esaminare rispetto a metropoli come Berlino o Londra. Essa presenta un
settore creativo particolarmente vivace e intraprendente, le cui problematiche sono state
affrontate dagli attori governativi in maniera alquanto differente ed eclettica negli ultimi
20 anni.
L‟obiettivo generale di questo elaborato è quindi analizzare come la città di Copenhagen
ha approcciato il problema della creatività, quali sono stati gli sviluppi nelle policy a
sostegno del settore creativo e come si stanno delineando gli sviluppi futuri del settore.
Ci si soffermerà sulle evoluzioni delle strategie governative negli ultimi due decenni e
sulle esigenze sempre più pressanti del settore imprenditoriale privato. Nel fare ciò,
verranno posti alcuni interrogativi di carattere generico, sulle modalità in cui una città
può far leva sul proprio settore creativo per rafforzare la propria competitività
internazionale, sull‟opportunità di adottare delle strategie di policy-making top-down o
bottom-up, sul rapporto spesso conflittuale tra attore pubblico e settore privato. Questo
lavoro non si pone l‟obiettivo di delineare il modello di ideale Città Creativa. Al
contrario, il caso di Copenhagen deve servire come monito sulla necessità di realizzare
delle policy che si adattino alle peculiari caratteristiche di ogni singola realtà.
Copenhagen viene presentata in questa sede come caso di best-practice nel settore del
policy-making a sostegno del settore creativo, grazie alla straordinaria abilità di dialogo
che l‟amministrazione pubblica ha dimostrato nei confronti delle esigenze delle
industrie creative.
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Questo elaborato si suddivide in tre parti. La prima parte, di carattere teorico, affronta il
problema della definizione della creatività e come essa viene interpretata dagli studi di
economia dell‟arte e da quelli di economia aziendale. Si affronteranno i nuovi sviluppi
della creatività all‟interno dell‟experience economy. Infine, si esamineranno poi gli
studi in merito alle problematiche delle Città Creative, partendo dagli studi di Richard
Florida, mettendone in evidenza alcuni punti deboli e proponendo alcune teorie
alternative e, a giudizio dell‟autore, più funzionali. Questa prima parte si struttura
quindi come una revisione critica di testi teorici.
La seconda parte serve come inquadramento generale e premessa alla trattazione del
caso Copenhagen. Viene presentata una revisione delle principali politiche statali danesi
nei confronti del settore creativo e culturale, insieme ad alcune analisi statistiche sul
settore. Infine vengono presentati alcuni casi-studio esemplari di iniziative di successo a
sostegno della creative economy. In questa seconda parte verranno analizzati
criticamente documenti governativi di policy, unitamente a dati statistici e a
testimonianze aziendali.
Nella terza parte verrà invece affrontato il caso Copenhagen. Innanzitutto verranno
analizzate le strategie della Municipalità di Copenhagen a sostegno del settore creativo,
osservando come esse siano mutate considerevolmente negli ultimi 20 anni, passando
da apertamente top-down, a più tendenti a forme bottom-up. Per fare ciò, sono stati
prevalentemente utilizzati documenti governativi, unitamente a testimonianze orali
(interviste) con alcuni studiosi del settore. In seguito verranno presentati i risultati di
alcune interviste qualitative sottoposte a una decina di rappresentanti dell‟imprenditoria
creativa della città, nelle quali è stato richiesto agli intervistati di esprimere un giudizio
sull‟operato della Municipalità e suggerire alcune strategie che, a loro giudizio, possano
favorire la crescita del settore creativo. Le interviste, solo in parte strutturate e con
domande adattate allo specifico imprenditore intervistato, sono state raccolte a voce e
registrate. Infine si analizzeranno gli sviluppi recentissimi delle strategie
amministrative, evidenziando la maggiore apertura al dialogo della Municipalità con il
settore privato. In conclusione verranno presentate alcune possibili iniziative che
possono essere adottate dall‟amministrazione pubblica, in accordo con le esigenze del
settore creativo.
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CAPITOLO I.
CREATIVITA’, EXPERIENCE ECONOMY E
CREATIVE CITY
1.1 Definizione di creatività
Identificata spesso come genio creativo o forza ispiratrice, per lungo tempo la creatività
e gli interrogativi sulla sua natura sono stati prerogativa unica del dibattito artistico.
Essa era indicata come quella componente più inafferrabile e indefinibile del fare arte,
che permetteva all‟artista di giungere a soluzioni formali nuove e irripetibili.
Estrapolare un sintetico ed efficace excursus della saggistica sulla creatività è
praticamente impossibile. Essa è infatti sterminata, e comprende materie diverse e
disparate quali le neuroscienze, la filosofia, la sociologia, la linguistica, le scienze
tecniche e le scienze economiche; ne consegue un elevatissimo numero di metodologie
e definizioni. Per le finalità di questo studio, ci si limiterà a fornire un breve quadro
introduttivo, citando alcuni autori tratti dalla filosofia e dalla psicologia; dopodiché ci si
addentrerà più nello specifico delle trattazioni artistico-letterarie ed economiche
Da una prima e molto rapida revisione dei maggiori tra questi studi, una caratteristica
comune sembra emergere, pur nella diversità delle argomentazioni: qualsiasi definizione
specifica venga data alla creatività, essa viene comunemente intesa come la capacità di
creare qualcosa di “nuovo”, e per questo viene spesso connessa con l‟abilità di innovare.
Questa posizione, tutto sommato molto intuitiva, ricorre sia negli studi filosofici-
psicologici, sia nei testi di teorie dell‟arte, sia nei teorici economici. L‟etichetta di
“approccio creativo” viene associata a tutti quegli individui o processi che si dimostrano
capaci di risolvere una situazione problematica rompendo con la tradizione e
proponendo soluzioni alternative e vincenti. Questo processo non è quasi mai frutto di
una decisione pienamente conscia, e i suoi sviluppi difficilmente sono pienamente e
coscientemente controllabili. Sia negli studi artistici che in quelli economici, la
“situazione zero” del processo creativo è identificata come un momento problematico o
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di stallo: l‟individuo trova la propria routine bloccata da una difficoltà (un momento di
crisi economica , una commissione artistica particolarmente difficile), alla quale i mezzi
tradizionali sembrano non riuscire a rispondere. Ciò che fa emergere la creatività è
appunto l‟abilità di superare questa “situazione zero”, dimostrando flessibilità nel saper
andare oltre la tradizione per introdurre processi di risposta innovativi.
1.1.1 La creatività artistica come bene pubblico
Una prima, fondamentale differenza tra gli approcci artistici e tutti gli altri è il fatto che,
nell‟arte, l‟atto creativo è, il più delle volte, qualcosa di assolutamente inspiegabile. Nel
mondo artistico, la creatività è sì connessa all‟innovazione, ma è anche
imprescindibilmente legata all‟ispirazione. Per sua definizione, l‟ispirazione è un
processo mentale che non ha spiegazioni, semplicemente accade. Frutto di una
tradizione occidentale consolidatissima, che affonda le sue radici nella cultura Greca e
Latina, l‟ispirazione creativa nel passato era considerata dono divino. Si rendevano,
infatti, necessari agli artisti e ai poeti complicati cerimoniali per invocare l‟assistenza
delle Muse (si ricordano i proemi dei grandi componimenti epico-lirici dell‟antichità,
dove i primi versi erano riservati all‟invocazione ispiratrice della divinità)
1
. Al giorno
d‟oggi questo tipo di concezione rimane (ovviamente svuotata da riferimenti a
qualsivoglia divinità) e l‟artista/creativo viene considerato come un soggetto dotato di
una conoscenza profonda della natura, in grado di svelarne e interpretarne i legami più
reconditi, dotato di una sensibilità e capacità di espressione unica, non condivisibili
dalla maggior parte del genere umano. Una concezione piuttosto elitaria, che prevede
l‟impossibilità di potersi impadronire di queste altissime capacità tramite
l‟insegnamento o per mezzo di procedimenti tecnici consolidati; l‟artista è invece un
“illuminato”, dotato per nascita –o per elezione- di quel genio inafferrabile e
indefinibile che nel mondo dell‟arte moderna viene, appunto, definito “genio creativo”.
Questa non volontà di far scendere la creatività dal piedistallo, unita all‟apparente
incapacità di dare una spiegazione chiara dei processi che la sottendono, influenza
1
Per una revisione abbastanza esauriente sulla storia degli studi sulla creatività, si veda Albert, R. S.;
Runco, M. A. ":A History of Research on Creativity". In Sternberg, R. J.. Handbook of Creativity. 1999,
Cambridge University Press
11
profondamente anche gran parte degli studi di economia dell‟arte: come si evidenzierà
in seguito, spesso accade che, analizzando l‟impatto economico della creatività
artisticamente intesa, non si riesca a specificare i legami causali che collegano
l‟implementazione di un progetto artistico alla sua capacità di generare output
quantitativamente misurabili. Anche in un settore così rigoroso come gli studi
economici, l‟indeterminatezza che spesso contraddistingue il mondo dell‟arte impedisce
di definire con chiarezza i processi e i legami, le cause e gli effetti dei fenomeni.
L‟impressione è che spesso, molti studiosi di economia dei beni culturali utilizzino
l‟arte come una formula magica, convinti che il suo intrinseco valore alimenterà
naturalmente processi positivi, senza rendersi pienamente conto che anche un evento
artistico è fatto di persone e relazioni, e in quanto tali orientabili, pianificabili,
modificabili. Gli studi che affrontano la creatività dal punto di vista artistico sembrano
quindi scontrarsi con l‟impossibilità –o la non volontà- di spiegare il processo creativo
con un approccio scientifico, ovvero di indicare compiutamente quali siano i processi
mentali, consci o meno, che stanno dietro ad un‟intuizione creativa.
Di tutt‟altra impostazione sono gli studi di psicologia e scienze cognitive: essi infatti si
prefiggono il compito di analizzare compiutamente i meccanismi mentali che
sottendono la genesi del pensiero creativo. In particolare si distingue tra essi lo studio di
Arthur Koestler (Koestler, 1964). Egli identifica tre tipologie di individuo creativo:
l‟artista, il giullare e il saggio. Per le finalità di questa indagine, particolarmente
interessante è la fenomenologia del saggio. Per Koestler, la chiave dell‟atto creativo sta
nella capacità dell‟individuo di cogliere nella realtà un‟analogia che a tutti era sfuggita.
Egli introduce il concetto di “bisociazione”, ovvero la capacità di distruggere i rigidi
schemi dell‟organizzazione mentale, decostruendo due matrici di pensiero e di
conoscenze implicite apparentemente scollegate, per trovarne un collegamento che
diviene la chiave dell‟atto creativo. Quando un individuo si trova ad operare in un
ambiente monotono, le sue risposte alle sollecitazioni esterne sono stereotipate,
meccaniche e quasi automatiche; al contrario, in un ambiente variabile, mutevole e,
quindi, problematico, egli si troverà a creare modelli di comportamento flessibili con
un alto grado di adattabilità alle circostanze. Tuttavia, nelle situazioni di stallo, dove i
tentativi tradizionali si rivelano fallimentari, la frustrazione per il fallimento occupa a tal
punto la mente del soggetto, che esso si ritrova concentrato con tutto il suo essere sul
problema, anche a livello inconscio. È a questo punto che scatta un‟intuizione,
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assolutamente incontrollabile, scatenata spesso da osservazioni banali, che permette di
collegare due forme di pensiero apparentemente incompatibili, che Koestler chiama
“matrici”. Caratteristica imprescindibile affinché la bisociazione abbia luogo è una
condizione di “maturità”. La creatività è quindi un‟intuizione “geniale”, composta da
una base fondamentale di studio, preparazione e applicazione personali e da una buona
dose di casualità, che permette a idee prima scollegate, di riunirsi in un‟intuizione
innovativa.
Similmente quindi agli approcci di tipo artistico-letterario, anche la letteratura
psicologica arriva ad un punto in cui non riesce a spiegare concretamente se esistano
processi formali espliciti che sottendono alla genesi di un processo creativo. Anche la
trattazione di Koestler, per quanto dettagliata e approfondita, arriva ad un punto in cui
sembra invocare un‟entità simile all‟”ispirazione”, un‟intuizione mentale istintiva e
assolutamente inspiegabile, per la quale non sembrano esistere né regole né definizioni;
tantomeno quindi sembra essere possibile fornire una descrizione chiara di “processo
creativo” o di “soggetto creativo”.
In tutti questi studi emerge come la creatività sia strettamente legata al termine “cultura”
e sia quindi caratterizzata dagli attributi tipici dei beni pubblici. La creatività
umanisticamente intesa riveste un importantissimo ruolo sociale e antropologico, in
quanto si fa portatrice di valori, identità, norme, eredità culturale, che hanno come
principale e unico scopo il miglioramento della società umana. Si può facilmente
affermare, quindi, come per buona parte degli studiosi, la creatività possa essere
considerata come un sinonimo di cultura, e, pertanto, goda di quell‟insieme di
caratteristiche positive che connotano tutto ciò che ha a che fare con il sistema culturale
di una società. Le attività che si definiscono “creative” con questa particolare accezione,
devono essere quindi oggetto di un particolare rispetto e tutela, in quanto espressioni dei
valori e dell‟identità di una collettività. Nello svolgimento dei loro compiti, queste
realtà non hanno fini utilitaristici né monetari di alcun genere. Esse vengono considerate
a tutti gli effetti dei beni pubblici –caratterizzate da non escludibilità e non rivalità nel
consumo- e meritori –beni cui la collettività attribuisce un particolare valore funzionale
allo sviluppo morale e sociale della collettività stessa. Collocandosi completamente al di
fuori delle consuete leggi della domanda e dell‟offerta, è impossibile determinare il loro
valore monetario, e risultano così soggette a fallimenti del mercato. Proprio per
l‟intrinseco valore collettivo che esse incarnano, lo Stato è quindi tenuto a predisporre
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adeguati supporti, in forma di finanziamenti e agevolazioni, senza aspettarsi alcun
genere di ritorno economico. Le attività creative culturalmente intese sono quindi
considerate a tutti gli effetti delle non profit.
CREATIVITA‟ = CULTURA
Valore etico e morale
Nessun valore economico apprezzabile
La creatività è il servizio che viene gratuitamente offerto
Bene pubblico e meritorio
Attività “non profit”
Necessità del supporto pubblico
Ricadute positive sulla collettività in termini di arricchimento etico, integrazione sociale e
coesione territoriale
1.2 La creatività nell’economia dell’arte
Negli ultimi decenni si è assistito ad un crescente interesse nei confronti della creatività
applicata alle attività più propriamente economiche ed industriali. Per tutti gli anni ‟80,
tuttavia, la discussione sulla creatività ha interessato quasi unicamente le tematiche della
cultura, delle industrie culturali e delle risorse culturali, ed ha interessato tematiche
quali l‟ispirazione e l‟evoluzione artistica, le proposte dei nuovi movimenti artistici
contemporanei, il valore sociale delle performance artistiche, il rapporto tra arte
innovativa e arte della tradizione . Raramente il termine creatività veniva associato alla
ricerca scientifica, tecnologica e imprenditoriale. In particolare, nell‟economia aziendale
e negli studi di gestione urbana, alcuni autori, già dagli anni ‟70, studiando i
meccanismi all‟origine dei vantaggi competitivi, hanno individuato una risorsa chiave,
non tanto nella creatività, quanto nella capacità di produrre innovazione; le
caratteristiche di questi due fenomeni, tuttavia, ad un‟analisi accurata li rendono
praticamente sinonimi. Tuttavia, si nota come difficilmente il termine “creatività”
ricorra negli autori di economia aziendale. L‟avversione degli ambienti economici
all‟uso del termine “creatività” è dovuta al fatto che tale termine era icona di un mondo,
come quello dell‟arte che, con le sue caratteristiche di soggettività e interpretabilità, era
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apparentemente agli antipodi rispetto alla rigorosa misurabilità e controllabilità dei
fenomeni numerici. Dagli anni ‟90, tuttavia, si assiste ad un cambiamento nella
terminologia. Con i primi studi sull‟economia dell‟arte, le industrie culturali diventano
industrie creative e acquisiscono progressivamente un importanza rispettabile all‟interno
del dibattito economico.
Sottolineando la capacità della cultura di mobilitare risorse e generare utili, il dibattito si
sposta sulla necessità di utilizzarla in modo efficace ed efficiente; le attività culturali
vengono sempre più spesso proposte come driver del rinnovamento urbano, in primo
luogo in progetti di riqualificazione edilizia di quartieri periferici o in declino.
1.2.1 Il contributo di David Throsby: ―The Economics of the Performing
Arts‖
La letteratura sull‟economia dell‟arte è sterminata. Viene considerato come padre
fondatore di questa disciplina David Throsby; con il suo libro The economics of the
performing arts, pubblicato nel 1979, ha per primo definito chiaramente l‟importanza
economica del settore culturale (Throsby, 1979). Questo l‟assunto di fondo di Throsby:
i beni culturali generano output economici, e quindi, se ben gestiti, sono in grado di
produrre effetti positivi nell‟economia e nella società. I beni culturali definiti da
Throsby, tuttavia, sono caratterizzati da alta impossibilità nel determinare il loro valore,
infinita varietà, ciclo di vita breve, alti costi fissi. Traspare inoltre l‟incapacità da parte
dell‟autore di distinguere chiaramente quei settori della cultura che possono essere
definiti heritage, da quelli che invece assumono connotazioni “industriali”. I primi
hanno le caratteristiche della creatività culturalmente intesa evidenziate nel paragrafo
precedente. Sono infatti enti puramente non-profit (musei, teatri lirici, gallerie d‟arte,
edifici storici, biblioteche), la cui mission è essenzialmente sociale, ovvero creare
benefici alla collettività tramite la conservazione e la promozione di oggetti che
incarnano sistemi di valori e significati condivisi e apprezzati dalla collettività stessa.
Per queste realtà culturali l‟obiettivo economico è secondario, e per questo devono
affidarsi a sostanziosi finanziamenti esterni, o pubblici (come in Europa) o privati
(come negli Stati Uniti). I secondi invece (industria discografica, libri, industria
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cinematografica, design, moda) sono sempre considerati “cultura”, ma in quanto
caratterizzati da riproducibilità, possono essere replicati e possono generare un profitto
economico. La loro mission è quindi duplice: non soltanto convogliare e promuovere un
valore intangibile, ma anche ricavare un utile. Questi settori hanno caratteristiche e
processi simili a quelli delle industrie “tradizionali” e, almeno in linea teorica, non
richiederebbero finanziamenti esterni. Throsby non evidenzia questa differenza, e tutto
il suo libro sembra concentrarsi maggiormente sulle realtà culturali non-profit; ignora
quasi completamente settori come il design, l‟industria musicale, l‟industria dei media, i
computer games, che oggi sono invece considerati i settori core delle creative industry.
In certi passaggi, quindi, applicando discorsi di reddito e turnover economici a settori
che sono in buona percentuale non profit, il libro di Throsby rischia di apparire come
una contraddizione in termini. Tuttavia bisogna attribuirgli il necessario merito di essere
stato un libro-pioniere (si ricorda che la prima edizione è del ‟79) e di essere stato tra i
primi ad aver avuto il coraggio di attribuire alla creatività qualità economiche e non
unicamente artistiche o sociali.
1.3. Le industrie creative
Gli studi sull‟economia dell‟arte sono fioriti negli anni ‟90, caratterizzati dalla tendenza
ad ampliare sempre di più il settore preso in esame, includendovi aree di attività che
fino a pochi anni prima difficilmente sarebbero state incluse nel novero del settore
culturale. Progressivamente, al termine “cultura” si è sostituito quello di “industrie
creative”, e in esse hanno confluito i settori più disparati: dai più tradizionali musei e
teatri, fino a attività di design, TV e computer. Nonostante le caratteristiche e le
dinamiche completamente differenti, questi settori vengono trattati come un tutt‟uno e
l‟incertezza definitoria rimane.
Due tra i maggiori autori che hanno affrontato questa questione sono David
Hesmondhalgh e John Hawkins (Hesmondhalgh, 2002) (Howkins, 2001). Essi hanno
identificato come industrie culturali tutte quelle attività economiche connesse con la
generazione e la fruizione di conoscenza e informazione: quindi non soltanto attività
culturali “tradizionali” come arte, architettura, performing arts, musica, cinema,