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Introduzione Introduzione Introduzione Introduzione
Questo lavoro nasce dall’incontro di due passioni: il cinema e la letteratura, due forme
d’arte che hanno avuto da sempre un legame, che forse sottintende ad un rapporto
antico molto più profondo di verosimiglianza, dal momento in cui anche la vocazione del
cinematografo è quella di “raccontare storie”, seppur con metodi diversi. All’origine,
compito di questa “straordinaria invenzione” era quello di riprodurre fedelmente (al pari
di una fotografia illustrata) la realtà fenomenica. Tuttavia, già i fratelli Lumière alla fine
dell’Ottocento, quando il cinematografo era ancora una novità, mettevano in scena
quello che può essere non a torto definito il “primo film a soggetto” della storia,
L’Arroseur arrose (L’innaffiatore annaffiato, 1895), con un conseguente cambio di
atteggiamento da parte degli spettatori nei confronti di questa nuova arte. Non più
un’arte che coglie l’immediatezza della realtà tramite la macchina da presa, ma una
realtà ricostruita, appositamente adattata per essere mostrata ad un pubblico su uno
schermo. Adesso il pubblico è consapevole che quello che vede è “finzione” e non ha
più motivo di sobbalzare sulla poltrona e fuggire alla vista di un treno che sferraglia
verso di lui. L’innaffiatore annaffiato, pur mettendo in scena una storia a tutti gli effetti
con tanto di esordio (il giardiniere che innaffia), peripezie (il bambino che schiaccia la
pompa, il giardiniere che si bagna e poi rincorre il monello), scioglimento (il giardiniere
che punisce il bambino) ed epilogo (il giardiniere riprende il suo lavoro indisturbato),
non racconta propriamente gli eventi, li mette semplicemente in scena. Sono necessari
alcuni anni e l’avvento di una nuova tecnica narrativa, ovvero il montaggio, perché la
vocazione del cinema a raccontare storie trasformi lo spazio e il tempo “reali” in spazio
e tempo “narrativi”. Sono il reale e l’immaginario che si intrecciano e si fondono in un
unico spazio che è il racconto, grazie al montaggio che permette a chi racconta di
passare in un attimo da un luogo all’altro o da un punto della linea del tempo all’altro,
raccontando luoghi e tempi reali, immaginari, frutto di sogni, incubi o allucinazioni.
Trattare il rapporto tra cinema e letteratura significa anzitutto compiere un’analisi che
prima che tecnologica è soprattutto sociologica. Il cinema, infatti, ha abbattuto le
barriere culturali create dalla letteratura fin dai tempi in cui “saper leggere” era
attitudine di pochi, mentre l’uso di immaginari permette una fruizione immediata da
parte di tutti, indistintamente dallo status sociale. Questo spiega il grande successo di
questa “straordinaria invenzione” fin dai suoi esordi e la sua capacità di influenzare
l’immaginario collettivo. «Che il cinema potesse diventare prima di ogni altra cosa una
macchina adatta a raccontare delle storie, ecco qualcosa che non era stato davvero
5
previsto
1
», osserva Christian Metz, inserendo nell’insieme dei “preveggenti” proprio gli
inventori di quel “cinematografo” –i Lumière e Edison- che a tutto pensavano, fuorché
al fatto che sarebbe diventato, come fa notare Lucilla Albano
2
, «il più diretto erede del
grande romanzo dell’Ottocento». Il cinema ha mostrato, nel corso degli anni,
innumerevoli vicende e presentato innumerevoli personaggi che sono entrati
nell’immaginario collettivo, risvegliando mostri o destando desideri nascosti. Grandi eroi
si sono susseguiti sul grande schermo, dopo essere nati dalla penna di uno scrittore,
dando un volto a personaggi che fino a quel momento potevano essere solo
immaginati. Il cinema ha tratto un numero sostanziale di film da grandissimi romanzi,
creando anche un incredibile numero di varianti. Tanti cineasti hanno dato vita a
personaggi dei romanzi, che siano inventati o reali e Scorsese non è stato da meno, nel
corso della sua decennale carriera. In trentadue film da regista, dal 1969 ad oggi,
almeno dieci sono stati tratti da opere letterarie o ispirate da esse. Ma, mentre ad
esempio, Raging Bull (Toro scatenato, 1980) è tratto da un memoriale di Jake la Motta,
Raging Bull, my story, The color of Money (Il colore dei soldi, 1986) è stato tratto
dall’omonimo romanzo di Walter Tevis. Così come Goodfellas (Quei bravi ragazzi, 1990)
nasce dal romanzo Wiseguy (Il delitto paga bene) di Nicholas Pileggi, interamente
basato sulla vita di Henry Hill e la stessa sceneggiatura è stata scritta a quattro mani
con lo scrittore. Stesso discorso vale per The Age of Innocence (L’età dell’innocenza)
del 1993, dall’omonimo romando di Edith Wharton del 1920 e Kundun (1997), dal libro
autobiografico del quattordicesimo Dalai Lama, Freedom in Exile –The Autobiography of
the Dalai Lama (La libertà nell’esilio). Poi, dopo una serie di film: Bringing out the Dead
(Al di là della vita), Gangs of New York (bande di New York), The Aviator (L’aviatore),
The Departed (La dipartita?); una serie di film-documentari: Il mio viaggio in Italia,
Shine a Light (Brilla una luce), American Boy (Ragazzo americano) e una serie di sette
documentari nel 2003, intitolata The Blues (Il Blues), Scorsese inaugura gli anni Dieci
del nuovo millennio all’insegna della letteratura, con tre film tratti da tre opere
letterarie: Shutter Island (Isola sicura o Isola isolata?), uscito nelle sale americane nel
2010 (in Italia nel 2011), dal thriller Shutter Island di Dennis Lehane, edito nel 2003;
Hugo (Hugo Cabret) del 2011, dal romanzo The Invention of Hugo Cabret di Brian
Selznick, del 2007 e infine, ultima grande fatica, The Wolf of Wall Street (IL lupo di
Wall Street), uscito nel Dicembre del 2013 nelle sale USA e tratto dall’omonima
autobiografia di Jordan Belfort del 2008.
1
Christian Metz, Semiologia del cinema, Garzanti, Milano 1989, p. 133
2
Lucilla Albano, Dalla letteratura al cinema: le possibili istruzioni per l’uso, in AA.VV., il racconto tra
letteratura e cinema, a cura di Lucilla Albano, Bulzoni, Roma 1997, p. 68
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Nelle pagine che seguono, l’obiettivo della tesi è proprio quello di analizzare queste
ultime tre opere del regista italoamericano, sia da un punto di vista letterario che di
analisi filmica, oltre che mettere a confronto, ovviamente, l’opera scritta con quella
cinematografica.
Il primo capitolo racchiude in breve la vita, ma non le opere di Martin Scorsese. Data la
lunga bibliografia del regista e le innumerevoli tesi che sono state già scritte nel corso
degli anni in suo nome, ci è sembrato superfluo, oltre che inutile, creare una biografia
dettagliata contenente anche un tracciato delle sue opere. Abbiamo preferito
soffermarci non sul “cineasta”, bensì “sull’uomo innamorato del cinema”, partendo dalla
sua infanzia, durante la quale questo amore è germogliato ricercando anche, nel suo
modo di fare cinema, dei riferimenti con alcuni grandi autori sia del passato che a lui
contemporanei.
Nel secondo capitolo la biografia dell’autore lascia il posto alla prima opera che apre gli
anni Dieci secondo millennio, Shutter Island. Nel corso della nostra analisi abbiamo
cercato di mettere a confronto l’opera cinematografica con il romanzo da cui è tratta e
di creare una sorta di collegamento con altre opere del cineasta -e non solo- che
quest’opera o il modo di metterla in scena, richiama alla mente e alla memoria. Quella
che è emersa è anche un’analisi psicologica del personaggio, dato che il film, oltre ad
essere un thriller indaga, alla maniera di Scorsese, la violenza ma nel profondo della
psiche umana, in cui essa origina e le conseguenze che scaturiscono dal trauma di chi
l’ha vissuta sulla propria pelle.
Nel terzo capitolo discutiamo di come, nel 2011, Martin Scorsese, da sempre conosciuto
come “autore di film di un certo stile”, cambi improvvisamente rotta, mettendo in scena
una favola degna del più grande Stephen Spielberg, ma che si allontana solo
tematicamente dal suo modo di fare cinema. Quello che fa Scorsese è infatti raccontare
la favola di un bambino, dentro una grande “Lezione di Storia del cinema”, illustrando e
raccontando le origini del cinema stesso, attraverso (e non solo) gli occhi di un suo
illustre precursore, Georges Méliès.
Nel quarto è ultimo capitolo analizzeremo un film, trasposizione cinematografica di
un’autobiografia che, per certi versi, sembra riportare il cinema di Martin Scorsese a
prima di Shutter Island e, ancora meglio, al cinema dei suoi esordi.
The Wolf of Wall Street (Il lupo di Wall Street, 2013) è in effetti la storia di un criminale
non tanto diversa da quella che raccontava negli anni Novanta, ai tempi di Goodfellas
(Quei bravi ragazzi) o Casinò. L’unica differenza, a parer nostro, tra quel modo di
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filmare e quest’ultimo è proprio di stile (anche se non mancano, come sempre, dei
chiari riferimenti alla Nouvelle Vague, in particolare a Godard, delle cui innovazioni
Scorsese è figlio e sperimentatore. In quest’ultima pellicola lo stile, il ritmo si sono fatti
più coraggiosi, più sfrenati. Il vecchio pudore che gli impediva di filmare scene di sesso
esplicito (o quasi), reminiscenza di una filosofia dei valori che proviene dalla Sicilia di
un secolo fa, sembra scomparso e al suo posto non possiamo non notare un nuovo
Martin, che tuttavia non si smentisce mai. Nel suo caro tradizionale modo di raccontare
la violenza e gli eccessi dell’animo umano, nel suo essere onesto riconosciamo sempre
e comunque quel ragazzo che si emozionava da bambino davanti allo schermo, lo
stesso uomo che, pur raccontando tre storie diverse, ci trasmette un amore e una
passione per il cinema impareggiabili.
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MAR MAR MAR MARTIN SCORSESE: UN UOMO NEL NOME DEL CINEMA TIN SCORSESE: UN UOMO NEL NOME DEL CINEMA TIN SCORSESE: UN UOMO NEL NOME DEL CINEMA TIN SCORSESE: UN UOMO NEL NOME DEL CINEMA
“Mio padre mi portava al cinema di continuo. Mi ha raccontato del primo film che ha visto. È
entrato in una sala buia e su uno schermo bianco ha visto un razzo volare nell'occhio dell'uomo
nella Luna. Gli si è conficcato dentro. Ha detto che è stato come vedere i suoi sogni in pieno
giorno” (cit. Hugo Cabret).
1.1 Il cinema: un mondo magico
New York: un luogo immaginario, un intreccio di quartieri dove musiche, classi ed etnie
si intrecciano, dove persino strade adiacenti sono mondi distanti gli uni agli altri. Grandi
viali affollati tra gli enormi grattacieli dei businessman -simbolo di progresso
tecnologico- e vicoli dall’aria densa di povertà, dove la sopravvivenza è un’abitudine e
dove la sensazione è quella di vivere ai margini, in bilico tra fallimento e successo. Un
grande bluff, la città di tutti e di nessuno, ed è questo che fa di New York una
leggenda, dove la storia di chiunque diventa la storia di tutti. Considerata insieme a
Tokio e Londra fra le principali capitali mondiali dell’economia, ha sempre offerto
infinite possibilità di spunti narrativi, sia in ambito letterale, musicale che
cinematografico. Assieme alle metropoli californiane di Los Angeles e San Francisco,
alle luci sfavillanti di Las Vegas e alle spiagge assolate della Florida, si può con certezza
affermare che la Grande Mela sia una delle scenografie più gettonate per vicende che
attraversano tutta la storia del cinema. E tra vari cineasti, accomunati anche dalle
radici italo-americane, è proprio nella New York degli anni Sessanta che si rintraccia il
genio di Martin Scorsese.
Nasce a Long Island, a Flushing, il 17 Novembre 1942. I suoi genitori sono figli di
emigranti siciliani, della provincia di Catania, trasferitisi oltre oceano agli inizi del
ventesimo secolo. Intorno al 1950 va a vivere con i genitori e il fratello Frank a Little
Italy, nella Lower East Side di Manhattan, quartiere che prende il nome dai residenti
italiani, per lo più operai, in Elizabeth Street, dove i coniugi Scorsese sono nati e
cresciuti e dove hanno trascorso i primi anni del matrimonio prima della Guerra.
L’educazione del giovane Marty -così veniva chiamato da familiari e coetanei- riflette fin
da subito l’influenza, tipicamente italiana, data ai concetti di famiglia e sentimento
religioso, mentre dall’altra parte risente della criminalità brulicante nelle strade dei
quartieri cittadini. Vive dunque un’infanzia turbolenta, tra pratiche religiose e risse tra
compagni.
Dice Scorsese di quel periodo: «Da ragazzo fui coinvolto nella religione cattolica; i miei
genitori erano emigranti italiani, credenti, praticanti convinti come molti che vedono
nella religione una soluzione ai loro problemi […] andavano in chiesa ogni mattina e la
domenica a messa. Per abitudine –perché non vi è altra spiegazione- divenni devoto
9
anch’io»
3
. Fisico gracilino e malaticcio, infastidito dall’asma dall’età di tre anni, Marty
non può vantare grandi doti atletiche, ragion per cui, anni dopo, decide di votarsi al
sacerdozio. L’asma lo tiene lontano da tutti e, non potendo praticare nessuno sport,
l’unica “evasione” è tra le pareti delle sale cinematografiche. E’ il padre che lo
accompagna, due o anche tre volte a settimana, nelle sale popolari da quindici cent, a
vedere ogni tipo di film, dai western di serie B agli horror-film di seppia, dai kolossal
biblici ai musical.
Dice Scorsese: «Entravamo sempre a metà film. Anche lì c’era un senso di pace. Avevo
la fede quando andavo in chiesa e avevo la fede anche quando andavo al cinema. Era
come partire per un viaggio. Fuori dalla sala i manifesti vendono sogni, si sa. E quando
si entra in un cinema, il sogno è reale, o quasi. E poi, condividere queste emozioni forti
con un padre con cui non parlavo molto, diventò il principale terreno di comunicazione
tra noi»
4
.
Da piccolo guarda un po’ di tutto, ma il genere che lo attira maggiormente è lo
“spectacle”, il kolossal biblico in senso lato, in cui il fascino di scenari fastosi, costumi e
musica roboante, agisce come una calamita. «Quando vidi per la prima volta da
ragazzo Land of the Pharaohs (La regina delle Piramidi 1955, di Howard Hawks),
divenne il mio film preferito. Ero già da tempo abituato agli “epics” storici, ma questo
era diverso: dava la sensazione di essere realmente lì presenti»
5
. Altri titoli spiccano tra
gli eletti da Scorsese. Prima ancora de The silver Chalice (Il calice d’argento, 1954) e di
The ten commandments (I Dieci comandamenti, 1956), aveva apprezzato molto The
robe (La tunica) del 1953, aveva sognato con Quo vadis? (1951), ma il film-rivelazione,
quello che già all’età di nove anni introduce il giovane Scorsese alla settima arte, è The
Magic Box (Stupenda conquista, 1951, di John Boulting). Il film è la storia romanzata
della vita di William Friese Greene (1855-1923), uno degli uomini-chiave nella storia del
cinematografo, un geniale precursore del cinematografo dei Lumière, realizzatore dei
primissimi rudimentali film a colori, nel 1921.
«C’è una scena nella quale Friese Green spiega il concetto di persistenza delle
immagini retiniche che è proprio l’essenza del cinema. Lo descrive alla sua fidanzata,
facendole scorrere rapidamente davanti una serie di disegni che ha abbozzato sul
margine di un libro: tutte queste immagini sono separate, statiche ma, mentre
scorrono, si muovono, come per miracolo. Quella è stata la prima volta che ho capito
che cos’erano i film e a un tratto ho capito come si faceva a fabbricarli»
6
.
Il cineasta di Taxi driver viene investito da una ventata di magia che lo relega per
sempre nel mondo incantato del cinema. Così, mentre sotto casa i compagni di scuola
continuano a suonarsele di santa ragione, lui guarda tranquillo i vecchi film alla
televisione. Rimane estasiato davanti a Roma città aperta (1945) e Paisà (1946) di
Rossellini, ma vuole andare oltre. Guardare non gli basta più. Inventa lui stesso un
altro modo di vedere film: i fotogrammi disegnati. Era bravo nel disegno e aveva tempo
3
Giancarlo Bertolina, Scorsese, Il castoro cinema, La nuova Italia, Firenze 1981, p. 16
4
Martin Scorsese con Richard Schickel, Conversazioni su di me e tutto il resto, Bompiani, Milano 2011, p. 23
5
Giancarlo Bertolina, op. cit., p. 17
6
Scorsese, Il bello del mio mestiere, Minimum Fax, Roma 2009, pp. 68-69