4
dei film girati in pellicola ma post-prodotti in digitale? Ricordiamoci inoltre
che se è vero che vengono girati sempre più film digitali, è anche vero che
questi spesso vengono ancora poi riversati su pellicola, in quanto la maggior
parte degli esercenti di sale cinematografiche non è tuttora in possesso dei
proiettori appositi.
Sempre a proposito della distribuzione e della fruizione del film da parte
dello spettatore, dobbiamo tenere a mente la sempre più diffusa
circolazione dei film (analogici o digitali che siano) digitalizzati sui DVD o
sui server di internet.
La visione dei DVD infatti cambia radicalmente il ruolo dello spettatore
che da totale essere passivo può ora saltare da una sequenza all’altra del film
– seguendo un proprio ordine – con un semplice click del mouse, cosa
questa che lo avvicina di più allo spettatore televisivo e alla tecnica dello
zapping (per quanto vi siano comunque diversità sostanziali).
Ma lo stesso internet, con i programmi di condivisione di file chiamati
peer-to-peer, sta creando mutamenti radicali anche per quanto riguarda il
concetto di originalità autoriale. Su internet circolano infatti diverse versioni
dello stesso film (spesso si tratta di film clandestinamente ripresi nel buio
della sala cinematografica con una semplice videocamera, con quindi
interruzioni dovute - ad esempio - alla fine del nastro della cassetta), magari
rimontate a proprio piacimento (con programmi di montaggio ormai alla
portata di tutti, come Premiere, AVID o Final Cut) da anonimi fruitori che
poi caricano nuovamente il film rimontato sul server; una circolazione
digitale che s’avvicina quindi di molto a quella anarchica e selvaggia che
caratterizzava le visioni dei film del primo Novecento.
5
Per omettere di parlare della telefonia mobile, grazie a cui ora è
possibile scaricare sul proprio telefono cellulare racconti audiovisivi creati
apposta.
Il film digitale utilizza elementi concreti, esso stesso è concreto in
quanto si basa comunque su un supporto (come ad esempio il DVD). Ma
allo stesso tempo è immateriale, astratto poiché è composto da pixel, a loro
volta composti da bit, semplici numeri modificabili e potenzialmente
infiniti.
Oltre che sembrarci presuntuoso voler dare delle risposte definitive su
un tema tanto complesso quanto ondivago, ci sembra quindi anche
ontologicamente scorretto.
Come un’Arca fluttuante nel Diluvio Digitale abbiamo perciò cercato di
direzionare la nostra rotta ai singoli film di otto registi (Alexandr Sokurov,
Abbas Kiarostami, Miike Takashi, Mike Figgis, Lars von Trier, Robert
Rodriguez/Frank Miller, Pitof e Davide Ferrario) che a nostro avviso
hanno dato sguardi originali su questa nuova tecnologia.
Ben sapendo che il Diluvio Digitale è in eterno movimento, indefinito,
senza inizio e senza fine.
<<Il mito dell’eterno ritorno afferma per negazione che la
vita che scompare una volta per sempre, che non ritorna, è priva
di peso, è morta già in precedenza, e che sia stata terribile, bella o
splendida, quel terrore, quello splendore, quella bellezza non
significano nulla.>>1
1
MILAN KUNDERA, L’insostenibile leggerezza dell’essere, Adelphi, Milano, 1989, p. 11.
6
Capitolo primo
Alexandr Sokurov
ARCA RUSSA
L’Arca russa (Russkij kovcheg, 2001) di Alexandr Sokurov è un film girato
in un unico piano-sequenza. Utilizzando una telecamera Sony ad Alta
Definizione digitale della linea CineAlta, il regista russo ha dato l’unico ciack
alle 15.30 del 23 dicembre 2001 (dopo una posticipazione e due false
partenze) per poi chiudere le riprese un’ora e mezza dopo, cioè la durata
integrale del film. Le immagini non sono state registrate su cassetta, ma
direttamente su un hard disk esterno, per non avere alcuna compressione
del segnale e per evitare problemi di ogni tipo con un nastro che sarebbe
dovuto durare per novanta minuti consecutivi2.
Invisibile a tutti (spettatore compreso) un uomo (la cui voce,
nell’edizione originale russa, è dello stesso Alexandr Sokurov) si ritrova
all’interno dell’Hermitage, in uno spazio temporale che va dal Diciottesimo
al Ventesimo Secolo. Lì incontra un cinico diplomatico europeo (Sergej
2 Si veda a proposito [s.n.] Russian Ark: an interview with Alexandr Sokurov, su
http://www.sonybiz.net/cinealta^/templates/std_page.jsp&OID=74368, 2002.
7
Drejden) con il quale attraversa duecento anni di storia russa. Esplorando i
maestosi corridoi e saloni del Palazzo, i due assistono a scene risalenti al
periodo zarista. Vedono Pietro il Grande (Maksim Sergeyev) intento a
frustare e umiliare uno dei suoi generali, Caterina la Grande (Mariya
Kuznetsova) che si dirige verso la toilette poco prima dell’inizio delle prove
del suo spettacolo, un incontro tra lo Zar e il figlio dello Scià di Persia
(figura 1), la famiglia di Nicola II riunita attorno ad un tavolo, quasi ignara
della sorte che l’attende, e centinaia di ballerini che danzano al ritmo del
valzer durante l’ultimo ballo regale del 1913 mentre Valery Gergiev dirige
l’orchestra. In altre stanze visitatori contemporanei ammirano la raccolta di
quadri dello Zar Nicola I: Dolci, Cigoli, Van Dijk e tanti altri.
Il cinico diplomatico europeo intanto parla - guardando verso il
protagonista/macchina da presa - di poeti, di pittori, di musicisti, della
Rivoluzione Francese e della Convenzione, lanciando acide critiche nei
confronti del popolo russo che via via si trasformeranno in dolci
osservazioni, rappresentando in questo modo la visione occidentale nei
confronti della cultura russa.
La scelta della versatilità della ripresa digitale a scapito dell’artificiosità di
quella della pellicola è espressa implicitamente all’inizio del film.
L’immagine è nera e una voce fuori campo confessa di non vedere nulla,
nonostante gli occhi siano aperti. Siamo nel pre-cinema, quando ancora
l’uomo non aveva i mezzi tecnici per una riproduzione effettiva della realtà.
Poi un sipario viene alzato e il protagonista, il cui sguardo coincide sempre
con quello della macchina da presa, vede davanti a sé un cumulo di
commedianti che si dirige verso il palco di un teatro. Il protagonista li segue
(o per meglio dire vi si lascia trasportare) fino ad arrivare al teatro del
8
Palazzo, dove si sta allestendo una scena mitologica. Il protagonista va poi
dietro le quinte e scopre un complicato sistema di funi, carrucole,
ingranaggi, dispositivi scenici e un agitarsi di manovali: <<una macchina
tanto perfetta quanto eccessivamente artificiale>>3: è la macchina
cinematografica in 35 millimetri, perfetta e grandiosa, ma artificiosa e non
“naturale”.
Il protagonista/macchina da presa sorpassa quest’ambiente, per poi
giungere alla prima galleria di quadri. Bastano pochi minuti per capire che
non si sta raccontando una storia, ma un edificio e i frammenti della Storia
che qui vi si sono depositati.
Figura 1 Incontro di stato tra lo Zar e il figlio dello Scià: notare come il diplomatico
europeo, sulla sinistra, si muova e indichi tra la folla come se non stesse dentro
all’evento reale, ma lo stesse sezionando come chi analizza un quadro dentro ad un
museo.
Sfruttando la minima profondità di campo tipica del digitale, la
macchina da presa si muove sinuosa nel museo, posando il proprio sguardo
sui quadri e sulla gente che si incontra, quasi come se appartenessero tutti
ad una stessa superficie spaziale e temporale. Non vi è raccontata una storia,
3 ANGELO SIGNORELLI, Con la steadycam nel corso dei secoli, in <<Cineforum>>,
XLIII/421, 2003, p. 19.
9
in quanto sono i quadri e la gente stessa a raccontarsi. Quei quadri e quella
gente sono testi sui quali si sono posati milioni di sguardi.
Anche a proposito del diplomatico bisogna dire che non è un
personaggio inventato (così come non lo sono tutti gli altri che via via
incontreremo) ma un uomo in carne ed ossa vissuto nel Diciannovesimo
Secolo4.
Si tratta del Marchese Astolphe de Custine che con l’opera Lettere dalla
Russia aveva stigmatizzato il regno di Nicola I descrivendo i russi come un
popolo predestinato alla schiavitù e lo Zar un uomo grazie al quale si può
vedere cosa non può fare colui che può fare tutto.
<<DIPLOMATICO
In Asia hanno il culto per i tiranni. Più sono crudeli e
più li amano, più ne onorano la memoria. Alessandro
Magno, Tamerlano, e il vostro Pietro il Grande.
PROTAGONISTA
Su Pietro il Grande si sbaglia, in fondo è grazie a lui che
i russi hanno imparato a godersi la vita.
DIPLOMATICO
Sì, sì [con tono sarcastico]… […] Pietro, l’uomo che ha
fatto uccidere il proprio figlio. E’ lo stesso che ha
insegnato alla gente a godersi la vita, eh? Bel modo di
godersi la vita… Molto divertente…>>
4 GEOFFREY MACNAB, Palace in Wonderland, in <<Sight & Sound>>, XII/8, 2002, p.
21.
10
Tuttavia non è la prima volta che il Marchese de Custine viene preso
come esempio. Pensiamo allo scrittore e perseguitato politico russo Jurij
Druznikov e del suo romanzo Angeli sulla punta di uno spillo (1977).
Nel romanzo, ambientato nella redazione della Trudovaja Prava - il
quotidiano del Comitato Centrale del Partito Comunista - irrompe
all'improvviso il Marchese de Custine tramite il suo saggio La Russia nel
1839 che - trovato nella stanza del direttore Makarcev - procurerà
apprensioni e guai a Makarcev stesso, protagonista del romanzo in mezzo a
una folla di altri personaggi. Il “libro nel libro” (quello di de Custine)
descrive una Russia povera e opprimente, governata dallo Zar Nicola I
senza alcun rispetto per i sudditi, e ne prevede un’altra - quella del
Novecento - che riserverà al popolo il medesimo trattamento.
<<Questa è una nazione nata per la schiavitù, e che
fieramente si oppone a ogni segno di libertà; costoro sono
creature remissive quando vengono oppresse e non si ribellano
davanti al giogo.>>5
Il Marchese de Custine si trova quindi in una posizione superiore
rispetto agli altri personaggi in quanto, pur essendo presumibilmente anche
lui un abitatore dell’Hermitage, è un abitatore con una coscienza critica.
Gli altri abitatori (ad eccezione degli attori, dei servi e dei ciechi, come
vedremo) sono invece allo stesso livello dei quadri che riempiono il museo,
ossia oggetti tramite cui l’Hermitage racconta la propria storia.
Pensiamo alla sequenza in cui entriamo per sbaglio dentro uno
sgabuzzino dove ci sono tele vuote e polverose (il tutto ripreso con colori
5
JURIJ DRUNZIKOV, Angeli sulla punta di uno spillo, Barbera, Siena, 2006, p. 67.
11
freddi, a differenza dei colori caldi che accompagnano il resto del film) e
dove c’è un pazzo farneticante (Yuri Khomutyansky) ad accoglierci (figura
2): la tristezza nella voce del protagonista (che non voleva entrare) ci fa
sentire un profondo senso di vuoto, quasi vertiginoso, uguale a quello che ci
coglie alla fine di fronte al mare che circonda il Museo/Arca (ripreso quasi
in bianco-nero). Le tele vuote sono ciò che sta al di fuori del microcosmo
sinora visto, un “al di fuori” simbolo del vuoto che ci circonda, un vuoto su
cui il nostro sguardo non si è potuto soffermare.
Figura 2 Clima e colori freddi nella stanza delle tele vuote.
Il Museo diventa così la sede di un realismo che contiene il particolare e
l’universale e che contiene in sé il fluire del tempo, attraverso un presente
che costantemente si rinnova6. Non c’è uno scadimento cronologico,
perché siamo dentro ad un fluire temporale di cui non teniamo le redini:
<<Per me, nella storia, non esiste il concetto di tempo
passato, il tempo è un flusso continuo che non può essere
6
ANGELO SIGNORELLI, Con la steadycam nel corso dei secoli cit, p. 20.
12
suddiviso in presente e passato, io sono così, questa è la mia
forma mentale. […] Io sono stanco di montare. Non voglio fare
esperimenti col tempo. Voglio portare sullo schermo il tempo
reale, non si deve aver paura del fluire del tempo. […] Nel
cinema si è soliti porsi contro il tempo, nella pratica
cinematografica il regista tende a voler dimostrare d’esser più
forte del tempo, e di poterlo controllare, ma si dovrebbe prestare
attenzione al naturale fluire del tempo nel lavoro di uno scrittore,
di un artista, di un compositore. Nel cinema per molte ragioni è
diverso. […] Tutte le epoche sono simultanee. In questo film è
come se passassimo attraverso una torta con tanti strati, tutti gli
strati della Storia sono ineludibili, possiamo assistervi e possiamo
farne parte. Gli eventi che accadono non possono
scomparire.>>7
Questo fluire del tempo è ottenuto principalmente grazie all’assenza del
montaggio. Già Alfred Hitchcock aveva provato a girare un intero film in
piano-sequenza: si tratta di Nodo alla gola (Rope, 1948) conosciuto anche
come Cocktail per un delitto, trasposizione cinematografica di una pièce
teatrale del 1929 scritta da Patrick Hamilton.
All’interno di un appartamento due giovani uomini stanno strangolando
un loro amico. Gli assassini sono Brandon Shaw e Phillip Morgan: Brandon
è cinico e deciso, mentre Philip è fragile e titubante. La vittima, un vecchio
amico della coppia, viene nascosta in un baule del soggiorno poco prima
che lì venga organizzata una festa. Tra gli invitati, oltre ad alcuni parenti
della vittima, anche il professore dei due giovani, un fine pensatore amante
7
Alexandr Sokurov in GRAZIA PAGANELLI, ANDREA PASTOR, DANIELA
TURCO (a cura di), Lo spazio in un unico sguardo. Conversazione con Alexandr Sokurov, in
<<Filmcritica>>, LII/526-527, 2002, pp. 358-359.
13
dei giochi intellettuali. Il “delitto perfetto”, attuato per mettere in pratica le
teorie superomistiche di Friedrich Nietzsche, verrà poi smascherato in una
fine schermaglia di parole e pensieri.
Per ottenere il piano-sequenza di ottanta minuti il regista inglese aveva
camuffato gli stacchi (imprescindibili, in quanto i caricatori potevano
contenere sino a trecento metri di pellicola impressionabile, ossia poco
meno di dodici minuti di film) con virtuosistici movimenti della macchina
da presa, la cui visuale veniva di volta in volta oscurata da oggetti di scena o
personaggi che, al momento opportuno, si ponevano davanti all’obiettivo.
Un altro famoso (e presunto) piano-sequenza è Empire (idem, 1964) di
Andy Warhol.
Il film, muto e in bianco-nero, consiste in una ripresa continua di otto
ore e cinque minuti dell’Empire State Building, effettuata dalle 20.06 fino
alle 2.42 del 25/26 luglio 1964 dal quarantunesimo piano di un edificio di
fronte, il Time Life Building, dove avevano sede gli uffici della Rockfeller
Foundation (lo sfasamento tra tempo di ripresa e durata finale sta nel fatto
che il film, girato a 24 fotogrammi al secondo, viene poi proiettato a 16
fotogrammi).
Ma anche in quel caso l’impedimento fisico dei caricatori aveva
obbligato Warhol a mettere comunque degli stacchi, sebbene pur sempre
sulla stessa inquadratura. Sia Nodo alla gola che Empire avevano quindi
dovuto fare i conti con gli impedimenti tecnici della tecnologia utilizzata e si
può affermare che, pur apparendo ad un primo sguardo dei piano-sequenza,
14
in realtà abbiano numerosi stacchi al loro interno e quindi si possano
considerare solo dei piano-sequenza fittizi, illusori8.
Abbiamo visto all’inizio del capitolo come, grazie alla telecamera digitale
e ad un hard disk esterno, si sia ovviato all’impedimento tecnico. Ma
Sokurov non utilizza il digitale solo per un motivo tecnico. Come detto
nello stralcio d’intervista riportato, il regista russo ha voluto portare sullo
schermo il tempo reale, il suo naturale fluire.
La cinepresa, intrappolando il tempo filmato sulla pellicola, imprigiona
il tempo in un contesto meccanico. Il negativo impressionato, infatti, dovrà
essere poi portato in laboratorio e riversato in positivo per la “copia
lavoro”, su cui verranno decisi i tagli, le scene da tenere e quelle da buttare,
poi si tornerà al negativo che sarà tagliato secondo le decisioni prese in
precedenza, montato e riversato in positivo per le copie da distribuire nelle
sale cinematografiche. Anche se, paradossalmente, si potesse disporre di
caricatori infiniti (e di infinte risorse economiche, se pensiamo che per ogni
minuto di girato occorrono circa ventisette metri di pellicola) sarebbe l’idea
stessa della pellicola, fissaggio del tempo per eccellenza, a cozzare contro
ciò che per Sokurov è il fluire temporale.
Se andiamo ad analizzare la struttura della pellicola, vediamo infatti che
il discorso temporale è puramente teorico. Un nastro di pellicola è
composto da fotogrammi messi in successione, e per fotogramma
intendiamo delle vere e proprie fotografie, ossia degli attimi di immutabilità
rubati al tempo.
Uno dei primi esperimenti “cinematografici” risale al 1872: l’uomo
d’affari e Governatore della California Leland Stanford chiese al fotografo
8
Inoltre, a proposito di Empire, sarebbe più opportuno parlare di inquadratura fissa
piuttosto che di piano-sequenza, in quanto vi è una totale mancanza di movimenti di
macchina.
15
Eadweard Muybridge di confermare una sua ipotesi, ovvero che durante il
galoppo di un cavallo esistesse un istante in cui tutte le zampe erano
sollevate da terra. Nel 1878 Muybridge fotografò con successo un cavallo in
corsa utilizzando cinquanta macchine fotografiche sistemate parallelamente
lungo il tracciato. Ogni singola macchina veniva azionata da un filo colpito
dagli zoccoli del cavallo. La sequenza di fotografie, chiamata The Horse in
Motion, mostrò come gli zoccoli si sollevassero dal terreno
contemporaneamente, ma non nella posizione di completa estensione,
come era comunemente raffigurato.
Ma una volta scattate e messe in successione, si vide che le fotografie
davano l’effetto di un vero e proprio movimento e del rispettivo passaggio
temporale.
Ma di effetto, appunto, si trattava. Perché, di fatto, ciò che veniva
mostrato erano attimi cristallizzati che, messi in successione, davano sì
l’idea di movimento fisico e conseguentemente di movimento temporale ma
in realtà si trattava soltanto di parvenze, di ombre, di fantasmi del tempo.
Un secondo girato in pellicola significa ventiquattro
“fotografie”/cristallizzazioni temporali di un dato evento che, messe in fila,
danno l’impressione di uno scorrere temporale. Ma il tempo della pellicola,
come abbiamo visto, è un’illusione, né più né meno di quanto siano illusioni
le persone che vediamo proiettate davanti a noi nel buio della sala
cinematografica.
La macchina da presa digitale, così come quella elettronica, non
cristallizza il tempo, fotografandolo, ma lo transcodifica in linguaggio
numerico (elettromagnetico per il quanto riguarda il video elettronico). Se
nel cinema in pellicola dovevamo riversare il negativo in positivo per vedere
16
quello che avevamo ripreso, con la tecnologia video si può vedere
istantaneamente il tempo e lo spazio ripreso su di un monitor. La stessa
immagine che vediamo sul monitor è fisicamente e concettualmente diversa
da quella presente sullo schermo cinematografico. L’immagine è infatti il
prodotto di un’esplosione continua di pixel che transcodificano
costantemente il segnale video pervenuto.
Nel sistema europeo PAL, ad esempio, il monitor trasmette 25 frame al
secondo, composto ognuno da 625 pixel. Ma questi frame, a differenza dei
fotogrammi, sono immagini che, volendo, possono essere trasmesse in
diretta, senza bisogno di essere riversate su di un altro tipo di supporto.
Inoltre il concetto stesso di fermo-immagine non ha più senso nel cinema
digitale in quanto l’immagine che vediamo grazie al fermo-immagine è in
realtà un’immagine ricostruita in continuazione, uguale perché ricavata sulla
base degli stessi codici numerici ma in realtà temporalmente continua e non
fissata, cristallizzata temporalmente9.
Ma vi è ancora un’altra ragione che ha spinto Sokurov ad optare per il
digitale. Grazie infatti alla maggiore maneggevolezza, la macchina digitale
viene spesso utilizzata dall’utente medio come una sorta di terzo occhio, più
come documentazione audiovisiva di un fatto attuale e reale che come
narrazione di fiction.
Un aspetto visivo tipico della ripresa del videoamatore o del
documentarista è, ad esempio, la visione a trecentosessanta gradi10. Spesso
9
ALESSANDRO AMADUCCI, Il video digitale creativo, Nistri-Lischi Editore, Pisa, 2003, p.
14.
10 Nel cinema tradizionale l’angolo di rotazione della macchina da presa è di centottanta
gradi. Infatti, aumentando l’angolo, si correrebbe il rischio di inquadrare anche la “quarta
parete” dove generalmente sta la troupe con le relative attrezzature. Sokurov ha ovviato al
problema riducendo il personale della troupe a poche unità e facendolo vestire con abiti di
scena.
17
la steadycam di Sokurov gira su se stessa, per inquadrare l’intero ambiente,
o su un singolo oggetto, per coglierne tutte le sfumature (figure 3a, 3b, 3c).
Figura 3a
Figura 3b