questi due “mondi” avrebbero comportato, a seconda delle circostanze, la guerra, la
cooperazione commerciale, la collaborazione in tema di sicurezza, l’isolamento e la
diffidenza reciproca, nonché il mutuo e vantaggioso scambio culturale. I regni
centroasiatici avrebbero in definitiva partecipato all’“ordine cinese” secondo quelle che
sarebbero state le loro priorità politiche, come sostanzialmente avverrebbe tutt’ora: in
quanto veicolo di distribuzione del potere tra vari centri organizzati in una sorta di
“primitivo sistema regionale”, la Via della Seta potrebbe ben riassumere, in una sola
espressione, queste complesse interazioni.
Per quanto riguarda le fonti, i limiti e gli ostacoli incontrati nella ricerca sono quelli noti
della ristrettezza dei tempi, soprattutto, e della difficoltà nella lettura di opere non
tradotte in lingua italiana. Da questo punto di vista, il capitolo quarto dovrebbe
costituire il capitolo più completo, per l’ampio utilizzo di fonti di natura specialistica,
soprattutto in lingua inglese: in tal senso, gli articoli del “Journal of China and Eurasia
Forum Quarterly”, che dovrebbe racchiudere i maggiori analisti in tema di relazioni
internazionali della Cina con l’Asia centrale, hanno reso possibile l’inserimento nel
lavoro di un punto di vista cinese, spesso ricostruito indirettamente negli altri capitoli
per mezzo di fonti occidentali. Il capitolo quarto è anche l’unico in cui si è fatto uso - in
verità piuttosto scarso - di documenti ufficiali, soprattutto pubblicati nel sito internet
della SCO.
In relazione ai capitoli “intermedi”, il primo e il terzo, si è necessariamente operata una
ristretta selezione, resa possibile grazie ai preziosi consigli ricevuti. Soprattutto, si è
cercato di fare affidamento su opere che contenessero un’interpretazione di ampio
respiro, poi rilevatesi indispensabili per portare a termine il lavoro e per dargli, si spera,
una certa organicità. Alcune di queste, che io non conoscevo affatto, si sono rilevate
fondamentali: è il caso di Storia della Cina moderna di Jurgen Osterhammel e,
soprattutto, di Storia della Cina contemporanea di J.K. Fairbank, entrambe utilizzate
ampiamente sia nel primo che nel terzo capitolo.
Infine, le fonti della parte seconda fanno ampio utilizzo di opere dedicate alla vicenda
della Via della Seta, utili soprattutto per la ricostruzione dei contatti nei primi secoli
della nostra era; a queste, vanno aggiunti, in generale, gli studi manualistici sulla storia
dell’impero cinese e quelli sulla storia dell’Asia centrale, nonché alcune opere e saggi
specificamente relativi all’epoca Yuan, Ming e Qing.
La tesi è dedicata alla mia famiglia: a mia madre, a mio padre, ai miei fratelli, a mia
sorella e alla mia dolcissima nipotina Asia.
4
Introduzione
L’Asia centrale post sovietica, oggi composta dalle repubbliche indipendenti del
Kazakistan, Tagikistan, Kirghizistan, Uzbekistan e Turkmenistan, ha avuto con la Cina
legami che affondano le loro radici in un passato piuttosto lontano. La contiguità
geografica, il problema della sicurezza alle frontiere nord-occidentali dell’Impero
cinese, e un certo grado di interdipendenza economica, hanno reso possibile, nel corso
di diversi secoli, rapporti e scambi reciproci di varia natura. Ad una prima
approssimazione, tali rapporti dovrebbero aver abbracciato l’intera gamma delle
possibili aree d’intervento e di contatto aventi ad oggetto la sfera delle relazioni
internazionali tra due paesi o due “parti” di mondo: così, esse sarebbero state
caratterizzate, di volta in volta, dalla rivalità bellica, dalla cooperazione commerciale,
dall’isolamento e dalla diffidenza reciproci, nonché dal mutuo scambio culturale e
religioso
1
.
La Cina, dunque, ebbe l’occasione di sviluppare i suoi rapporti con le popolazioni
centroasiatiche ben prima che il padre della moderna geopolitica, Halford Mackinder,
individuasse, in questa vasta area geografica, “la chiave per la supremazia globale del
mondo”
2
; una regione in cui, a causa delle impenetrabili barriere naturali – le steppe
gelate del nord e le formidabili catene montuose al meridione – non vi era
paradossalmente alcun impedimento per gli spostamenti delle cavallerie dalla steppa
alla foresta, le quali sarebbero state ulteriormente favorite dalla stagione invernale che,
facendo scendere in modo vertiginoso le temperature, avrebbe consentito ai fiumi di
tramutarsi in comode autostrade di ghiaccio sfruttabili da eventuali invasori
3
. Sempre a
giudizio del Mackinder, le potenzialità geopolitiche della regione avrebbero ricevuto
nuovo impulso grazie ai mezzi messi a disposizione dalla moderna tecnologia, con la
conseguenza che nulla, “fosse anche la costituzione scritta della Società delle Nazioni”,
avrebbe potuto offrire una qualche garanzia contro una potenza ostile che dominasse
quell’inespugnabile regione
4
; le conclusioni del geografo di Oxford, divenute oramai
delle riflessioni inevitabili su ogni lavoro che abbia ad oggetto le relazioni internazionali
dell’Asia centrale, suggeriscono l’idea che “una potenza militare in possesso della
regione centrale del continente eurasiatico e dell’Arabia si potrebbe facilmente
impadronire degli incroci del mondo”
5
.
A distanza di molti anni, il collasso improvviso dell’Unione Sovietica e la conseguente
nascita di cinque stati indipendenti, sembrano aver riattivato le teorie sulla centralità
geopolitica della regione, ricacciando così, dopo circa un secolo di completo isolamento
dal resto del mondo, “l’Asia centrale nel grande calderone della storia”
6
. Come
cercheremo di chiarire meglio in seguito, la categoria d’analisi maggiormente utilizzata
per spiegare le dinamiche internazionali in atto sulla regione, è quella di un “Nuovo
Grande Gioco”, moderna rivisitazione della competizione ottocentesca che vide
protagonisti impero zarista e britannico per la conquista dell’Asia centrale e il controllo
1
Ariel Cohen, After the G-8 Summit: China and the Shanghai Cooperation Organization, in CEF
QUARTERLY (The Journal Of China and Eurasia Forum Quarterly), Volume 4, NO. 3, August 2006, p.
58, http://www.chinaeurasia.org.
2
La concezione “centrale” dell’Asia interna da parte del “padre della geopolitica” è ripresa da Karl E.
Meyer, La Polvere dell’impero, il “Grande Gioco” in Asia Centrale – Come la corsa alla supremazia da
parte delle grandi potenze ha portato all’insorgere del terrorismo islamico e agli attuali conflitti.
Corbaccio, Milano, 2002, p. 65.
3
Ivi, p. 66-67.
4
Ibidem.
5
Ibidem.
6
Peter Hopkirk, IL Grande Gioco, i servizi segreti in Asia centrale, Adelphi, Milano, 2004, p. 17.
5
dell’India
7
: oggi, il nuovo “Great Game” avrebbe come posta in palio le ingenti risorse
energetiche di cui l’area in questione sarebbe ampiamente fornita, e vedrebbe tra i suoi
principali attori gli Stati Uniti, la Russia, alcuni tra i più importanti stati a cultura
islamica ed infine, la Repubblica Popolare cinese
8
, la cui politica estera verso l’Asia
centrale rappresenta il tema centrale di questo piccolo tentativo di ricostruzione.
Tuttavia, pur cercando di non perdere mai di vista le problematiche centroasiatiche di
natura geopolitica - alcune delle quali conserverebbero importanti elementi di novità nel
panorama internazionale odierno – e assumendo come dato di ovvia partenza che
qualsiasi politica internazionale in Asia centrale è oggi possibile grazie al crollo
dell’impero sovietico, le dinamiche del “Grande Gioco” non dovrebbero rappresentare il
tema dominante di questo lavoro.
Alcune riflessioni di carattere storico relative alla peculiarità propria delle relazioni
internazionali cinesi, infatti, potrebbero indurre l’osservatore a considerare la politica
estera di Pechino verso l’Asia centrale come parte integrante di un processo volto, dopo
decenni di non facile inserimento nel sistema politico mondiale, a “restituire” alla Cina
quel peso internazionale che la sua storia millenaria e le sue formidabili dimensioni
territoriali e demografiche sembrano averle tradizionalmente assegnato: non a caso,
l’Asia centrale fu parzialmente integrata, secondo uno schema che potrebbe
grossolanamente essere definito “ciclico”, e cioè soggetto ad intervalli periodici, nel
sistema tributario che, fino al XIX secolo, ha ispirato e guidato le relazioni esterne
dell’impero cinese con le regioni ed i popoli stranieri
9
.
Proprio nell’Ottocento, questo sistema di relazioni internazionali – così come l’ordine
politico-sociale interno alla Cina – sarebbe drammaticamente entrato in crisi in seguito
alle pressioni delle potenze europee che, grazie ad una sensazionale “sorpasso” in
termini di sviluppo ai danni dell’Oriente, poterono imporre sia il proprio dominio
coloniale, sia il proprio modo di intendere l’ordine internazionale. Ecco perché, allorché
si volessero prendere in considerazione “gli eventi della Cina del nostro secolo”, non
bisognerebbe “mai dimenticare che dalla metà del XIX secolo alla metà del nostro, la
Cina fu umiliata e rapinata dalla dominazione straniera, resa possibile da un
momentaneo rapporto di forza a vantaggio dei paesi dell’occidente rispetto alle società
dell’Asia Orientale che in precedenza avevano goduto di un sostanziale primato, dal
punto di vista della produzione materiale ma anche dell’equilibrio politico espresso in
lunghi periodi di pace e stabilità”
10
: con riguardo all’Impero cinese, tali processi
avrebbero comportato una sorta di vulnus, un parentesi oscura della propria storia, in
quanto in poco più di un secolo, “la Cina fu trasformata dalla società più ricca del
mondo in una delle più povere, attraverso la confisca forzosa del suo capitale
accumulato (imponendole di pagare indennità alle potenze straniere per le guerre che
queste le avevano fatto) e il drenaggio di ricchezza imposto con il traffico di droga”
11
.
Questo periodo di estrema debolezza, iniziato nella prima metà dell’Ottocento e
culminato con l’aggressione giapponese e la guerra civile all’interno del paese tra
nazionalisti e comunisti, avrebbe visto il principio della fine con la nascita della
Repubblica Popolare avvenuta nel 1949: al giorno d’oggi, attraverso un turbolento ma
inarrestabile processo di ricostruzione nazionale, la Cina sarebbe nuovamente in grado
di tradurre in pratica le sue enormi potenzialità, “ritrovando”, dopo averla smarrita, la
direttrice fondamentale della sua civiltà millenaria e, con essa, quel primato in qualche
7
Ivi, p. 16.
8
Ahmed Rashid, “The New Great Game – the battle for Central Asia’s oil”, in Far Eastern Economic
Review, 10 Aprile 1997.
9
Ariel Cohen, After the G-8 Summit: China and the Shanghai Cooperation Organization, op. cit., p. 59.
10
Enrica Collotti Pischel, Le avventure degli ideali nella Cina del nostro tempo, in, Enrica Collotti
Pischel, (a cura di), La democrazia degli altri, Franco Angeli, Milano, 1996, p. 114.
11
Ibidem.
6
modo sottrattole e rimasto per certi versi “latente”, certo anche in ragione di cause
endogene, durante il “secolo oscuro” al quale si è accennato in precedenza.
Da un punto di vista economico, il boom della crescita cinese - ovviamente non priva di
forti squilibri - non dovrebbe lasciare spazio ad equivoci, visto che “venticinque anni di
riforme hanno permesso al paese di raggiungere notevoli risultati economici e realizzare
un tasso medio di crescita annuale del 9 per cento per tutti gli anni ‘90”
12
; dal punto di
vista dello scenario internazionale, la Cina sarebbe oggi in grado di sviluppare una
politica estera di respiro globale, attivamente coinvolta, a volte anche in modo piuttosto
spregiudicato, dal Medio Oriente all’America Latina, dall’Africa all’Asia Orientale
13
.
Alla luce di tali, recentissimi sviluppi, il presente lavoro dovrebbe rappresentare un
tentativo di inserire, all’interno di questo più generale impegno diplomatico, la politica
estera della Repubblica Popolare in Asia centrale. In sostanza, la Cina, rivestendo con
abiti moderni il suo antichissimo ruolo di “Centro” della politica asiatica non potrebbe,
alla stessa stregua delle più grandi dinastie dell’epoca imperiale, disinteressarsi dei paesi
posti a nord-ovest dei suoi attuali confini: questo accadrebbe, inoltre, per motivi e
problematiche che, con i dovuti adattamenti allo stato di cose attuali, rileverebbero una
sostanziale continuità con quanto accaduto in passato.
Lo sforzo diplomatico della Repubblica Popolare verso l’Asia centrale, più che un mera
partecipazione al “Nuovo Grande Gioco”, potrebbe dunque essere inserito nel più
generale processo di “ritorno” cinese ad un ruolo di punta nel continente asiatico che, in
quanto tale, costituirebbe una sorta di “ritorno al passato”, dopo un secolo e mezzo
trascorso prima a subire le conseguenze della propria debolezza e, successivamente, ad
elaborarne gli insuccessi per la ricostruzione di un’antica grandezza.
Approssimativamente, queste dovrebbero essere parti delle tesi espresse in due opere,
entrambe di recentissima pubblicazione, le quali, pur partendo da prospettive e
angolature diverse, dovrebbero costituire il tessuto teorico cui si farà riferimento. La
prima è un’opera di due studiosi italiani, Franco Mazzei e Vittorio Volpi, titolata
significativamente Asia al Centro. Secondo i due autori, il crescente interessamento
dell’opinione pubblica internazionale circa le vicende asiatiche, sarebbe dovuto
principalmente a due ordini di ragioni; le prime riguardano il progressivo spostamento
del baricentro economico mondiale, il quale starebbe progressivamente facendo della
cosiddetta “Asia Dinamica”, il vertice più attivo del triangolo economico mondiale
14
; la
seconda, in qualche modo legata alla prima, andrebbe ricercata nel crescente peso
geopolitico che le grandi potenze asiatiche eserciterebbero nel contesto internazionale
contemporaneo
15
. Né la dinamicità dell’economica asiatica, né la nuova centralità
geopolitica della regione, dovrebbero, da un punto di vista storico, stupire più di tanto.
La Cina, in particolare, sarebbe stata la prima potenza economica mondiale per circa tre
secoli, dal 1500 agli inizi del XIX secolo: non solo i valori relativi al PIL nazionale, al
PIL pro-capite e alla produttività mostrano con sufficiente chiarezza questa realtà, ma
anche il livello di conoscenze scientifiche e tecnologiche avrebbero posto la Cina “in
una situazione dominante rispetto all’Europa prima e dopo il rinascimento”
16
, con la
conseguenza che, per tutto questo lasso di tempo, l’Europa premoderna si sarebbe
limitata, in modo prevalente, ad importare le conoscenze scientifiche e tecnologiche
12
Maria Weber, Introduzione, in Maria Weber (a cura di), La Cina non è per tutti, Rischi e opportunità
del più grande mercato del mondo, Olivares, Milano, 2005, p.11.
13
Sandro Sideri, La nuova geo-economia asiatica e le relzioni internazionali cinesi, in Maria Weber (a
cura di), La Cina non è per tutti, Rischi e opportunità del più grande mercato del mondo, op. cit., pp. 65-
102.
14
Franco Mazzei, Vittorio Volpi, Asia al Centro, Egea, Milano, 2006, p. XII.
15
Ivi, p. XIII.
16
Ivi, pp. 18-19.
7
cinesi
17
. Questa fase di predominio asiatico nei confronti dell’occidente si sarebbe
chiuso – come mostrano i fatti odierni non definitivamente - con l’intrusione delle
potenze europee in Cina: “in conclusione, ci sembra corretta la tesi secondo cui, il crollo
repentino dell’economica cinese, ma anche di quella indiana, a partire dagli inizi
dell’Ottocento, non fu dovuto a fattori endogeni o a qualche catastrofe naturale, bensì fu
un prodotto della colonizzazione occidentale, soprattutto britannica, anche se va subito
aggiunto che l’Impero del Centro mostrava già di per sé evidenti segni di una crisi
profonda”
18
.
Ancora più interessanti, ai fini del nostro discorso, i dati geopolitici della regione
dell’Estremo Oriente, i quali, secondo gli autori, non possono che partire da un’analisi
del ruolo cinese e dalla sua tradizionale autopercezione di Centralità. D’altronde, la
Cina è stata per secoli, ed è tutt’ora, il Zhongguo, il “paese del centro”, centro che
avrebbe due fondamentali funzioni, una politica e l’altra culturale. Sul primo versante,
esso implica, all’interno del paese, “tensione verso l’unità dello stato”, con la
conseguenza che “l’unità territoriale è considerata – anche oggi – il massimo valore
politico e quindi il fattore primo dell’interesse nazionale
19
; nei confronti del mondo
esterno, invece, “la centralità è percepita come un acuto senso di vulnerabilità”, entro il
quale vi sarebbero forti spinte alla percezione di “accerchiamento”, con il risultato che
le due “ossessioni geopolitiche” della Cina riguarderebbero da una parte la
frammentazione politica e, dall’altra, la minaccia straniera
20
.
Sul versante culturale, “la rappresentazione della centralità è associata alla nozione di
universalità e trova espressione nel concetto di Tianxia, letteralmente “ciò che sta sotto
il cielo”: un impero potenzialmente universale da cui si irradiano i valori della civiltà,
che i popoli vicini possono far propri per entrare nel Tianxia”
21
. Legittimo governante
di questo universo etico-morale era, in base al “mandato del cielo” (tianming),
l’imperatore dello “stato del centro”, il “Figlio del Cielo”, contro il quale i sudditi erano
tuttavia autorizzati alla “rivoluzione” in caso di gestione del potere moralmente
indegna: ciò era quanto avveniva allorché il cielo, attraverso dei segni ritenuti
convenzionali, quali le calamità naturali e le rivolte contadine che di norma
precedevano la fine del ciclo dinastico, revocava a sé il “mandato” (geming) per
trasferirlo ad una nuova dinastia
22
. Da quanto detto emergerebbe che, tutto ciò “che era
fuori dal controllo del “Figlio del Cielo”, cioè il resto del mondo, era caos, disordine
etico-culturale e quindi politico”. In conclusione, “la Cina è il “paese del Centro”
(Zhongguo) perché è il mondo della civiltà (Tianxia) da cui si irradiano i valori” e, in
quanto tale, “la Cina non è semplicemente uno stato ma è anche una Civiltà”
23
.
Caratteristica intrinseca di questa grande e antichissima civiltà, sarebbe una naturale
spinta all’espansione: dal bacino del Fiume Giallo, “culla della civiltà cinese”, essa si
sarebbe “estesa a macchia d’olio in tutta la Cina continentale, nelle sue marche e
propaggini marittime e, in tempi e modi diversi, nei paesi vicini, vale a dire nella
penisola coreana, nell’arcipelago giapponese e in un paese del sud-est asiatico, il
Vietnam, fortemente sinizzato”
24
.
17
Ivi, p. 19. “Tra le tante invenzioni che l’Europa direttamente o indirettamente deve alla Cina, e tra le
ancor più numerose tecniche tardivamente giunte in Occidente ricordiamo la balestra come arma
individuale, la trivellazione profonda, la porcellana, i mantici a pistoni, bussole magnetiche di vario tipo,
la sospensione cardanica, il timone diritto di poppa, la polvere pirica, la carta, la stampa xilografica, la
stampa a caratteri mobili”.
18
Franco Mazzei, Vittorio Volpi, Asia al Centro, op. cit., p. 19.
19
Ivi, p.36.
20
Ibidem.
21
Ivi, pp. 36-37.
22
Ivi, p.37.
23
Ibidem.
24
Ibidem.
8
Volgendo nuovamente lo sguardo ai giorni nostri, i due studiosi rilevano, su entrambi
gli aspetti esaminati (quello economico e quello geopolitico), la progressiva formazione
di una “area asiatica” incentrata sulla Cina, esattamente come quella le cui fondamenta
entrarono in crisi agli inizi dell’Ottocento. Utilizzando stime effettuate dalla Banca
Mondiale, per le quali le dimensioni dell’economia cinese sarebbero destinata a
superare, in poco meno di 40 anni, quelle dei paesi UE, del Giappone e, infine, degli
Stati Uniti, gli autori di Asia al centro rilevano che “queste previsioni non dovrebbero
meravigliare più di tanto lo storico che non sia accecato da eurocentrismo”, poiché
“infatti, nel 1500 le maggiori potenze del mondo per PIL erano per l’appunto la Cina, e
l’India, seguita dall’Europa”
25
.
Dal punto di vista della politica internazionale, la Repubblica Popolare avrebbe reagito
abbastanza efficacemente alle tendenze unilaterali dell’amministrazione Bush,
soprattutto in seguito alle scelte statunitensi sull’Iraq, ritrovando la sua centralità
regionale, anche attraverso l’elaborazione di una nuova diplomazia: in questo contesto,
“non manca chi, addirittura ha ipotizzato l’affermarsi nell’Asia orientale di un nuovo
sistema internazionale “gerarchico” avente al vertice la Cina”, il quale, non sarebbe
altro che “una variante moderna (cioè adattata al mondo globalizzato di oggi) del
tradizionale ordine sino-centrico, ordine che, come sappiamo, aveva caratterizzato i
rapporti internazionali cinesi in quella regione per molti secoli, fino all’intrusione del
capitalismo europeo”
26
.
In questo modo, con la creazione di una sorta di “ordine regionale cinese” anche in
termini geopopolitici, il vulnus prodottosi nella storia cinese in seguito alla dominazione
occidentale, sarebbe stato definitivamente debellato, chiudendo così un “ciclo” e
aprendone uno “nuovo”, il quale, paradossalmente, tenderebbe a ricreare – con i dovuti
accorgimenti - la situazione antecedente l’Ottocento.
Questo, in generale, il percorso che si vorrebbe qui seguire in relazione alla politica
estera della Cina. Entrando più nello specifico, la seconda opera che dovrebbe
“chiudere” il discorso introduttivo sin qui svolto, è costituita da un articolo dello
studioso Niklas Swanstrom, apparso sul Journal Of Contemporary China e titolato,
anche qui abbastanza significativamente, China and Central Asia: a new Great Game
or a traditional vassal relations?. Partendo dall’assunto che i legami tra la Cina e i
popoli centroasiatici trovano sostanzialmente nella storia la loro più forte ragion
d’essere, l’autore in questione sembrerebbe non condividere pienamente né le tesi del
“Grande Gioco” – le quali rappresenterebbero solo un aspetto delle problematiche oggi
sul tappeto – né le tesi che vedrebbero nell’Asia centrale una sorta di classico
“Lebensraum” (Dingwei) cinese
27
. La politica di mutua collaborazione instaurata
soprattutto a livello multilaterale tra la Cina e quattro dei cinque stati centroasiatici di
recente indipendenza non sarebbe, per Swanstrom, un’assoluta novità, in quanto
“historically similar relations were established during the tributary relations China had
with Central Asia, when China was very generous with money and gifts in exchange for
stability and trade”
28
. In estrema sintesi, l’Asia centrale sarebbe, al pari del sud-est
asiatico, una delle due regioni in cui la Cina “is attempting to establish political and
economic domination over, in a similar fashion to the American domination over South
and Latin America”, anche se, questi tentativi cinesi di egemonia nell’area non
dovrebbero, tuttavia, essere intesi “in a negative way, but rather to influence the states
25
Ivi, pp. 182-183.
26
Ivi, p. 298.
27
Niklas Swanstrom, China and Central Asia: a new Great Game or a traditional vassal relations?, in
Journal of Contemporary China, 14 (45), November 2005, p. 570.
28
Ivi, p. 576.
9
to the degree that they would, voluntaliry or by necessity, view China as the main actor
in the region once again”
29
.
Tale ruolo, verificatosi durante un lasso di tempo pressoché infinito, scomparve,
secondo l’autore, soltanto negli ultimi cento anni, allorché la regione fu oggetto
dell’espansione russa, anche in conseguenza della profonda crisi vissuta dall’impero
cinese: il crollo dell’Unione Sovietica avrebbe perciò favorito – anche qui - una sorta di
“ritorno al passato”, tanto che la politica centroasiatica odierna attuata da Pechino,
potrebbe perfino essere “compared to a classic vassal relations with Central Asia, where
Beijing invests and provides security and receives political stability and influence in the
region”
30
, con l’unica differenza che oggi “the traders have replaced jade, tea, silk and
rhubarb with oil, weapons and infrastructure”
31
.
In linea con quanto detto sinora e, soprattutto, con le tesi espresse dagli autori sulle due
opere sopra citate, il presente lavoro dovrebbe alternare una prospettiva estremamente
generale ad una più specifica riguardante le relazioni cinesi con l’Asia centrale.
Partendo dalla convinzione che, ai fini di una migliore comprensione e chiarezza dei
processi in corso in Asia centrale, non si possa prescindere da un’analisi – seppur
sbrigativa e superficiale – della peculiarità propria delle più complessive relazioni
internazionali della Cina moderna e dalle eredità che ancor oggi sopravvivono in esse, la
prima prospettiva cercherà di affrontare, come si è detto in generale, due grandi
momenti storici della storia cinese recente. Il primo periodo in esame corre grosso modo
dal 1839, anno dello scoppio della prima guerra dell’oppio, al 1949, anno della
proclamazione della Repubblica Popolare: sarebbe questo, il “momento storico” della
“perdita” del primato cinese nei confronti dell’occidente e della conseguente messa in
crisi dell’ordine internazionale sino-centrico fino a quel punto vigente in Asia orientale;
si tratterebbe perciò di uno dei periodi più drammatici della storia cinese, foriero di
sconvolgimenti epocali, quali la dominazione straniera e la perdita dell’integrità
territoriale nonché di ampie quote di sovranità – comprese quelle derivanti
dall’atteggiamento di una potenza asiatica considerata fino ad allora vassalla - e ,
soprattutto, la fine di un impero bimillenario e la presa d’atto traumatica dell’esistenza
di una civiltà, quella europea, differente da quella cinese eppure in grado di ottenere
livelli di sviluppo materiale e saperi comparabili, se non superiori, a quelli prodotti dalla
“civiltà del centro”.
Il secondo periodo storico, affrontato in questo lavoro da una prospettiva generale, è
quello che dal 1949 arriva sino ai giorni nostri. Intento di questo breve riepilogo
dovrebbe essere quello di evidenziare, attraverso l’ausilio di una periodizzazione per
tappe o fasi, il processo evolutivo d’integrazione della politica estera cinese nel contesto
internazionale moderno: essenzialmente, attraverso tale processo evolutivo, la
Repubblica Popolare cinese sarebbe passata, da paese arretrato e pericolosamente
isolatosi dal resto del mondo, a superpotenza regionale in procinto di giocare un ruolo di
primaria importanza nel sistema internazionale complessivo, riaffermando, in chiave
moderna ma sostanzialmente simile al passato, quel “primato” geopolitico ed
economico perso con l’inizio della guerra dell’oppio del 1839 e con gli sviluppi
successivi.
Più semplice il discorso sulla prospettiva specificamente rivolta ai rapporti tra la Cina e
l’Asia centrale, anch’esso dedicato all’esame di due periodi storici distinti. Il primo
periodo, che non ha per ovvie considerazioni alcuna pretesa di completezza, copre
all’incirca duemila anni, dall’instaurazione dei primi contatti alla definitiva
“cristallizzazione” dei confini avvenuta nell’Ottocento e con la quale la Cina, anche a
causa dell’espansione russa, avrebbe visto il suo antico “primato” nella regione
29
Ivi, p. 584.
30
Ibidem.
31
Ivi, p. 577.
10
fortemente ridimensionato, in linea con quanto sarebbe accaduto più in generale in altre
regioni asiatiche soggette all’influenza cinese: la famosa Via della Seta, che rappresenta
una pagina straordinaria di storia umana ma che qui – come si specificherà in seguito –
è vista soprattutto in un’ottica di relazione tra Cina e Asia centrale, dovrebbe costituire
il principale “mezzo” attraverso cui l’impero cinese avrebbe costruito quello che, con un
linguaggio forse moderno, potrebbe essere definito come un ruolo di primaria
importanza nei confronti dell’area centroasiatica.
Il secondo periodo, infine, si apre con il 1991, anno dell’indipendenza per gli stati
centroasiatici, e si chiude in linea di massima nel 2005, anno che, seppur costellato da
eventi sin qui di fondamentale importanza, rappresenta una scelta arbitraria dovuta
all’esigenza di individuare comunque, tra processi che sono ancora caratterizzati da un
elevato grado di fluidità e suscettibili di variazioni anche notevoli, un punto di approdo
ragionevolmente sicuro: negli ultimi quindici anni, la Repubblica Popolare ha potuto
ristabilire dei contatti diplomatici diretti con la regione dell’Asia centrale, ripristinando
metaforicamente l’antica Via della Seta e impostando delle relazioni che, come abbiamo
visto, alcuni studiosi giudicano non troppo dissimili da quelle esistenti in passato.
L’ultima precisazione, di carattere metodologico, riguarda la scelta, ripresa anche in
questo caso da Swanstrom, di guardare alla politica estera della Cina in Asia centrale
come ad una politica sostanzialmente rivolta ad una singola unità, nonostante le
differenze di natura geografica, politica, etnica, ecc., che possono esistere tra i vari stati
centroasiatici e a cui si farà comunque breve riferimento in appositi paragrafi inseriti
nella sezione conclusiva. Da una parte, una scelta simile permetterebbe di cogliere il
tratto più saliente dell’attuale politica centroasiatica cinese, la quale, non senza alcune
forzature, potrebbe essere sommariamente definita come una “politica regionale”,
essendo in via di principio attuata mediante l’utilizzo di canali multilaterali
istituzionalmente consolidati
32
. Dall’altra, essa non sarebbe ovviamente priva di limiti e
lacune: l’”approccio regionale”, infatti, esclude dalla trattazione il Turkmenistan, con il
quale la Cina avrebbe avuto sin qui rapporti poco significativi e, soprattutto, non
permetterebbe di cogliere la rilevanza della relazioni bilaterali, di natura rispettivamente
economica e militare, con il Kazakistan e il Kirghizistan
33
.
Il sistema di trascrizione utilizzato per i nomi e i toponimi cinesi – ad eccezione di
quelli maggiormente conosciuti in occidente con altra grafia – è il pinyin; per i nomi
centroasiatici, la cui grafia può far riferimento a diversi alfabeti (arabo, cirillico, cinese,
latino, ecc.), si è scelto un criterio di riconoscibilità, adottando la grafia normalmente
utilizzata nelle fonti scritte o tradotte in italiano.
32
Ivi, p. 569.
33
Ibidem.
11
Parte Prima
Una parentesi della storia
1.1.1 L’Impero cinese: centro geopolitico dell’Asia orientale
I cento anni che vanno dal 1839 al 1949 sono conosciuti in Cina come il “secolo delle
umiliazioni”. Tale denominazione dovrebbe rendere abbastanza chiaramente l’idea delle
drammatiche vicissitudini cui sarebbe andato incontro l’impero cinese in questi decenni.
Con essi, la Cina non solo avrebbe perso il suo primato mondiale in termini economici,
ma, divenendo una sorta di semicolonia, sarebbe stata di fatto privata di una politica
estera autonoma, vedendo il suo ruolo di “centro” della politica asiatica fortemente
ridimensionato. Tralasciando i dati di natura economica, che ai fini del discorso
generale interessano relativamente, questa prima parte sarà dedicata principalmente al
tentativo di riassumere brevemente le fasi attraverso le quali l’”Impero di Mezzo”
avrebbe perso la sua centralità geopolitica nei confronti della regione asiatica e, come
conseguenza di ciò, il suo ruolo tradizionalmente rilevante in Asia centrale.
Per l’Impero di Mezzo dunque, questo sarebbe stato un secolo di drammatici
sconvolgimenti e di assolute novità: tra quest’ultime, tuttavia, quasi certamente non
andrebbero annoverate la conquista e la dominazione straniera. Da tempo
immemorabile, infatti, la Cina sarebbe stata soggetta a quelle che, lo studioso Owen
Lattimore, definiva le “pressioni” della frontiera settentrionale dell’Impero, operate da
popolazioni nomadi e seminomadi che vivevano al di là del confine tracciato dalla
Grande Muraglia: “Dal tempo dell’unificazione dell’impero sotto Ch’in e per tutti i
secoli che seguirono con le varie, alterne fortune delle dinastie, ritengo sia necessario
tener conto di questa spinta della frontiera non meno che della pressione sulla frontiera
delle tribù barbare, pressione che andava dalle piccole incursioni all’invasione e alla
conquista”
34
.
La dinastia mancese Qing, che dal XVII secolo regnava sulla Cina, potrebbe a grandi
linee essere definita, in quanto dinastia d’origine straniera, come l’ennesimo prodotto di
tali pressioni.
Sennonché, essendo distinti dall’etnia cinese propriamente detta, l’etnia Han, i nuovi
conquistatori mancesi non rappresentavano che una delle tante minoranze nazionali
all’interno del più vasto territorio statale: tuttavia, aspetto ulteriormente paradossale di
tale conquista, i Qing governavano secondo le stesse regole delle dinastie precedenti e,
in conseguenza del loro assorbimento entro il sistema poltico-ideologico cinese, il loro
potere imperiale era fondato sui medesimi principi derivanti in primo luogo dai testi
classici confuciani
35
.
In cosa consisterebbero tali regole e principi? Il sistema politico cinese si fonderebbe,
secondo lo studioso francese Jean Chesneaux, su “un insieme di concezioni filosofiche e
morali di estrema coerenza, progressivamente elaborate nel corso dei secoli, che per
semplicità possiamo chiamare confucianesimo”: tale sistema, sarebbe inoltre
caratterizzato da una visione che accomuna regno della natura e regno dell’uomo, i quali
34
Owen Lattimore, La frontiera, Popoli e imperialismi alla frontiera tra Cina e Russia, Einaudi, Torino,
1970, p.65.
35
Jean Chesneaux, Marianne Bastid, La Cina, Dalle guerre dell’oppio al conflitto franco-cinese 1840-
1885, Volume Primo, Einaudi, Torino, 1969, pp. 24-25.
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non solo sarebbero “retti da leggi comuni”, ma costituirebbero “addirittura un insieme
organico integrato”
36
.
Ogni fenomeno naturale e sociale, inoltre, sarebbe contraddistinto da una dialettica
costante tra segni opposti e complementari, rappresentati simbolicamente dallo yin e
dallo yang (molto approssimatamene elemento maschile e elemento femminile), il cui
gioco alterno e reciproco darebbe il dao (la “via”, il movimento) al mondo
37
. Pertanto,
benché mondo naturale e mondo sociale posseggano una loro, intrinseca dinamicità, essi
necessiterebbero nondimeno di un’entità intermediatrice: sarebbe in questo senso che
dovrebbe inquadrarsi la figura del “Figlio del Cielo” - “garante” e responsabile
dell’adeguamento dell’ordine sociale al mondo - e tutto il corredo filosofico ad esso
connesso del “mandato” e della “revoca del mandato” del Cielo visti precedentemente
sulla premessa d’apertura e sui quali non indugeremo oltre.
Posto al vertice del potere assoluto in quanto destinatario del “mandato celeste”, il
“figlio del cielo” era inoltre coadiuvato da una vasta burocrazia reclutata attraverso
concorsi letterali, la quale avrebbe dovuto vegliare sul normale funzionamento degli
ingranaggi dello stato e della società, incoraggiando il bene e punendo il male: in altre
parole, autorità e stabilità sarebbero stati i cardini di questo sistema politico, nozioni
quasi agli antipodi di quelle di democrazia e progresso che animavano i circoli
intellettuali dell’Europa dell’epoca
38
.
Ma la struttura tradizionale e i principi dello stato confuciano sarebbero stati estesi a
tutta la società, parte integrane dell’ordine cosmico: ordinata secondo un principio
gerarchico, la società cinese avrebbe teso a rispecchiare i valori politici e morali del
confucianesimo, per cui, gli stessi rapporti di sottomissione e solidarietà che legavano
l’imperatore ai suoi sudditi, venivano riprodotti ad esempio nelle relazioni tra il padre e
i membri della sua famiglia, tra il padrone e suoi apprendisti, tra il professore e suoi
allievi
39
.
Dato il tema del presente capitolo, sorge il problema di stabilire approssimativamente in
che modo questo stato multinazionale poggiante su regole filosofico-morali basasse i
suoi rapporti con l’esterno. In linea generale, la posizione dell’Impero cinese nel
contesto dell’area estremo-orientale sarebbe stata contraddistinta da una certa
peculiarità, derivante dal suo enorme prestigio, dalla complessità della sua struttura
statale nonché dal suo enorme patrimonio storico
40
. Tale peculiarità sarebbe d’altronde
insita nel nome scelto dal popolo cinese per identificare il proprio paese: Zhongguo,
“Impero del Centro”
41
. La centralità cinese, come si ricorderà da quanto detto nella
premessa d’apertura, contiene una forte connotazione culturale che trova espressione nel
concetto di Tianxia, un impero potenzialmente universale in grado di irradiare i valori
della civiltà all’esterno dei propri confini: in Asia orientale, la Corea, il Vietnam, il
Giappone e le piccole isole Ryukyu rappresenterebbero esempi di paesi sviluppatisi
all’interno dell’area culturale cinese in conseguenza dell’esempio “civilizzatore”
dell’antica Cina. Nel caso vietnamita (e giapponese), ad esempio, la studiosa Enrica
Collotti Pischel rileva un’identità nazionale specifica, la quale tuttavia “rientrava poi nel
più complesso quadro della civiltà dell’Asia orientale, che aveva il suo centro e motore
36
Ivi, pp. 4-5.
37
Ivi, p. 6.
38
Jean Chesneaux, L’Asia orientale nell’età degli imperialismi, Einaudi, Torino, 1969, p. 40.
39
Ibidem.
40
Ibidem.
41
Le traduzioni del termine Zhongguo sono soggette a leggere variazioni a seconda della fonte utilizzata,
variazioni che non sembrano incidere sul concetto espresso dal nome: per cui, invece di “Impero” (Guo),
si potrebbe trovare la traduzione “Stato” oppure “Paese”, così come Zhong viene spesso tradotto in
“Centro” o “Mezzo”, senza sostanziali modifiche del significato insito nel termine. In questo caso, si è
usata l’espressione “Impero del Centro”, ripresa da J. Chesneaux, M. Bastid, La Cina, op. cit., p. 3,
parzialmente diversa da “Paese del Centro” utilizzata in premessa e ripresa da Mazzei-Volpi.
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nel mondo cinese, con tutte le sue componenti”
42
: i segnali di questa più generale
appartenenza, sarebbero dati dall’utilizzo, mutuato dall’antico centro cinese, della
cerealicoltura intensiva, di istituzioni politiche forti e della scrittura in caratteri
43
.
Tutto ciò sarebbe d’altronde in linea con la teoria confuciana, secondo la quale il mondo
intero sarebbe raffigurato da un quadrato, mentre il cielo rappresenterebbe un cerchio: la
proiezione del cielo inscriverebbe appunto un cerchio sulla superficie della terra che
dovrebbe equivalere al Tianxia, dimora dell’Impero cinese, il solo “centro”, in tutto il
mondo, a poter godere degli influssi celesti
44
; i quattro settori esterni, i “quattro mari”,
privi di tali influssi, sarebbero dimora dei barbari (yi), dei demoni e dei mostri marini.
In conseguenza di tutto ciò, “ai capi politici di tali popoli esterni non è possibile, per
motivi di principio, di entrare in contatto, su un piano di parità, con l’imperatore cinese”
e, proprio a causa di questo motivo, “la nozione stessa di “rapporti internazionali” è
priva di senso”
45
.
Tuttavia, lo studioso John King Fairbank, ci autorizza a pensare tali relazioni come ad
una sorta di proiezione “esteriorizzata” dell’ordine politico-sociale di stampo
confuciano vigente all’interno della Cina: in estrema sintesi, ad un livello puramente
teorico, sino-centrismo, struttura gerarchica e ineguaglianza nei rapporti sarebbero stati i
principi attraverso i quali l’Impero cinese avrebbe impostato i suoi contatti con
l’ambiente esterno circostante
46
. Tra le società dell’Asia orientale, si sarebbe dunque
formato un “network” di relazioni così caratterizzate, un sistema, una sorta di “ordine
internazionale” incentrato sulla Cina che, sebbene “international and even interstate do
not seem appropriate terms for it”, potrebbe definirsi in conclusione un “Chinese world
order”, la cui stessa esistenza presupponeva un assunzione preliminare circa la
superiorità cinese nei confronti dei popoli vicini
47
.
Questa proiezione esteriorizzata dell’ordine interno all’Impero cinese, avrebbe
configurato una serie di relazioni con tre distinti gruppi di popoli e paesi stranieri. Il
primo gruppo, sarebbe costituito dalla cosiddetta “area sinica”, formata dai paesi
fortemente influenzati dalla cultura cinese come quelli sopra citati; il secondo gruppo,
entro il quale dovrebbe rientrare parte della regione definita in precedenza Asia centrale
post-sovietica, era composto dalle “tributary tribes and states of the nomadic or
seminomadic peoples of Inner Asia”, popolazioni con caratteristiche etniche e culturali
proprie e distinte da quelle cinesi, e situate dunque all’esterno o ai margini dell’area
culturale cinese; in quanto impero di portata universale, infine, il sistema del Tianxia
poteva estendere le sue relazione verso “the Outer Zone, consisting of the “outer
barbarians” (wai-yi) generally, at a further distance over land or sea, includining
eventually Japan and other states of Southeast and South Asia and Europe that were
supposed to send tribute when trading”
48
.
In teoria, dunque, tutte queste relazioni erano considerate dall’”Impero di Mezzo”
relazioni di tipo tributario, con l’ovvia conseguenza di ridurre tutti i partner della Cina a
meri vassalli; ma solo in teoria, poiché bisognerebbe tenere a mente che “the concept of
the “tribute system” is a Western invention for descriptive purposes”
49
.
42
Enrica Collotti Pischel, Contraddizione della liberazione nazionale: l’Indocina, in Enrica Collotti
Pisshel, La democrazia degli altri, op. cit., p.156.
43
Ibidem.
44
J. Chesneaux, M. Bastid, La Cina, op. cit., p. 11.
45
Ibidem.
46
John King Fairbank, A preliminary framework, in John King Fairbank (edited by), The Chinese World
Order, Traditional China’s foreign relations, Cambridge, 1968, p. 2.
47
Ibidem.
48
Ibidem.
49
Mark Mancall, The Ch’ing tribute system: a interpretive essay, in John King Fairbank (edited by), The
Chinese World Order, Traditional China’s foreign relations, op. cit., p. 63.
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