• Premessa
Questo percorso di ricerca nasce dal presupposto di indagare le possibili modificazioni che il
fenomeno turistico può apportare alla produzione ed al consumo di cibo in una realtà locale e
quindi, al suo interno, all’universo socio-culturale in cui essi si inscrivono.
Le pratiche alimentari, infatti, sono tanto il risultato dell’adattamento culturale di una società al
suo contesto, quanto l’espressione degli interscambi in cui essa è stata coinvolta nel corso
della sua storia e, pertanto, si prestano in maniera efficace ad un’analisi di questo tipo.
Oggi, la crescente globalizzazione del sistema economico, sociale e culturale, sta
intensificando l’interdipendenza di tutte le società del pianeta e i suoi effetti, sia in termini
positivi che negativi, si stanno rendendo ovunque manifesti.
Il settore alimentare allora, che nella sua attuale complessità rispecchia l’interpretazione
moderna di una necessità umana primaria, diventa in questo contesto rappresentativo dei
cambiamenti in atto e delle conseguenze che essi possono generare. E il fenomeno turistico,
dal canto suo, è un elemento chiave per la diffusione di quelle idee, conoscenze, abitudini ed
attitudini comportamentali proprie della società industriale e globalizzata, matrice di questo
sistema, perché da essa prende forma.
Il turismo, dunque, è uno dei fattori che per primi hanno avuto modo di incidere sui
tradizionali sistemi di produzione e consumo del cibo nelle comunità ospitanti, sia perché
queste si sono trovate a dover rispondere a nuove esigenze alimentari, sia perché la ricezione
turistica è spesso subentrata alle loro consuete occupazioni rurali, potendo fornire maggiori
introiti economici a costi (il tempo e la fatica, ad esempio) apparentemente inferiori.
Il Ladakh, territorio indiano al confine con Cina (Tibet) e Pakistan, per ragioni ambientali,
geografiche, storiche, economiche, politiche e soprattutto, dunque, culturali, si è rivelato
particolarmente adatto ad approfondire tali tematiche. Prima di affrontare la sua peculiare
situazione, però, ho ritenuto opportuno soffermarmi su ciò che ha comportato l’adozione di un
sistema “globale ed industrializzato” di produzione e consumo del cibo nella nostra stessa
società occidentale, quella che ha assistito al suo esordio.
Qui, infatti, il crescente distacco tra la produzione ed il consumo di alimenti ha indotto
conseguenze rilevanti nella dieta e nella salute dei singoli individui, come pure nell’ambiente
nel quale essi risiedono, conseguenze alle quali si è tentato di rispondere attraverso molteplici
iniziative.
La situazione affrontata nel corso del XX secolo dai territori alpini, ad esempio, la regione
montuosa che per prima si è inserita nel processo di industrializzazione, è risultata
emblematica sotto questo profilo, e mi ha fornito di alcune considerazioni che si sono poi
III
rivelate assolutamente applicabili al contesto del Ladakh, regione che si trova oggi a riflettere
su tematiche affini.
E’ però in questa realtà apparentemente marginale, in cui il concetto occidentale di sviluppo
ha fatto il suo ingresso di recente (in parallelo alla comparsa del fenomeno turistico), che il
cambiamento in atto si rende manifesto e che, tramite l’analisi delle pratiche alimentari e delle
conoscenze tradizionali ad esse connesse, diventa ancora più percepibile.
La popolazione del Ladakh, in ogni caso, lungi dall’aver assistito passivamente all’ingresso del
proprio territorio nei meccanismi della globalizzazione, si è dimostrata ospitale ma accorta e,
nonostante in una prima fase si sia lasciata attrarre dalla modernità, nel bene e nel male, si è
poi rivelata in grado di accogliere e reinterpretare, in suo favore, idee esterne.
E’ il caso della valorizzazione delle coltivazioni biologiche, ad esempio, del cibo locale
tradizionale, delle proprie capacità di sfruttare al meglio limitate risorse ambientali e ridurre al
minimo gli sprechi, oppure, di curarsi con metodi naturali in simbiosi col territorio. Anche la
creazione di un circuito per incentivare alcune forme di turismo “sostenibile” o “responsabile”
in Ladakh, rientra tra queste iniziative.
Ta l i tematiche, tuttavia, riflettono tendenze oggi particolarmente sentite in occidente e il
turista stesso, oltre a contribuire alla modernizzazione in senso occidentale dei territori che
visita, può dunque favorirvi la circolazione di iniziative volte alla tutela dell’ambiente, delle
pratiche consuete della comunità e dei suoi saperi tradizionali.
Dal punto di vista dell’ospite, poi, l’esperienza in Ladakh ha permesso anche a me di
accogliere e reinterpretare alcune idee di cui sono venuta a conoscenza e, pertanto, certe mie
osservazioni diventano spesso riflessioni politico-ecologiche sulle attuali pratiche alimentari,
scaturite proprio dalla valutazione dell’impatto del turismo nella produzione e nel consumo di
cibo di questa comunità.
Comunque sia, dato il crescente fatturato annuo del fenomeno turistico e nell’ottica di una
generale presa di coscienza dei limiti del modello di sviluppo vigente, sono certa che la
possibile conversione tanto dell’offerta delle strutture ricettive, quanto della domanda da parte
dei viaggiatori in direzione di un consumo alimentare più responsabile, imprimerebbe un
cambiamento economico, ecologico e sociale fondamentale per l’istituzione di un sistema
globale più “sostenibile”.
IV
• I. PARTE PRIMA: Una realtà vicina
«We still (sometimes) remember that we cannot be free if our minds and voices are controlled
by someone else. But we have neglected to understand that we cannot be free
if our food and its sources are controlled by someone else.
The condition of the passive consumer of food is not a democratic condition.
One reason to eat responsable, is to live free».
Wendell Berry, The Pleasures of Eating
Novembre 2007
Non appena rientrata dal Ladakh e dal tour nella zona himalayana dell’India, mi trovai ad
occuparmi con la mia famiglia di quello che sarebbe diventato un ristorante, ormai
decisamente prossimo all’apertura.
Venni cortesemente invitata a supervisionare l’operato dei cuochi nella stesura del “primo
menù”, quello con il quale avremmo dovuto far conoscere ai turisti di passaggio
1
e agli
abitanti della zona la nostra offerta e le nostre idee: quello attraverso il quale avremmo forse
iniziato a farci “un nome”.
Nonostante fossi ancora emotivamente provata dall’esperienza recentemente vissuta, tanto
da far ricorso a letture che potessero presentarmi la nostra società dei consumi in una nuova
luce, più critica e meno mitica (come gli scritti di Petrini, Harris, Zanzi e Latouche), provai ad
affrontare le proposte avanzatemi dagli chef.
Si trattava di mutuare i loro intenti sulla gestione della cucina e dei suoi ingredienti, con i
nostri imprescindibili criteri: drastica riduzione dei congelati, dei prefabbricati, degli
inscatolati, degli impacchettati, in favore di: prodotti stagionali, che fossero il più possibile
locali, la cui produzione avvenisse il più possibile vicino a noi e la cui provenienza fosse il più
nota possibile.
Ovvero: niente di più impossibile.
1
Il ristorante è situato in un edificio storico del Borgo medievale del comune di Bard, che conta poco più di
150 abitanti. Il paesino ha recentemente assistito ad una grande rivalutazione, soprattutto grazie
all’investimento apportato dai fondi europei per la ristrutturazione della fortezza che lo domina, risalente al X
secolo d.C., ed alla creazione al suo interno del Museo europeo delle Alpi, inaugurato nel gennaio 2006.
1
La prima diatriba sorse già sul secondo antipasto, appena dopo il Flan di zucca con fonduta.
La voce seguente, infatti, recitava: “Terrina di cinghiale alle noci con mousse di castagne
locali”. Apparentemente innocuo, se non degno della più sentita approvazione, il piatto
nascondeva invece un piccolo inghippo.
Me ne accorsi quando colsi l’occasione per far notare ai due collaboratori come fosse
giustamente iniziata da poco la stagione della caccia e quanto i boschi circostanti
abbondassero di cinghiali... Una squadra di cacciatori del paese ne aveva presi ben cinque
proprio la notte prima!
..Ma con un ristorante ciò non potrebbe avere niente a che vedere, mi fanno notare i due; i
prodotti commerciabili, trattandosi di animali selvatici a maggior ragione, devono essere
certificati.
Eh, già. In questo caso, devono cioè essere portati all’ASL, sottoposti ad una visita
veterinaria, approvati, marchiati. E se dopo tutta la trafila (con il veterinario bisogna
prendere appuntamento) la carne può ancora ritenersi fresca, vengono venduti. Inutile
notarlo: a prezzi sicuramente troppo elevati per un ristorante, che li acquisterebbe come
“materia prima”, da elaborare; magari per offrirla sotto forma di terrina con noci e castagne
locali...
Chiesi allora una spiegazione sull’antipasto proposto, a quel punto forse decisamente fuori
dal budget di qualsiasi eventuale cliente. Eppure la soluzione, mi fecero notare i cuochi
porgendomi il listino del rifornitore sul quale facevano affidamento, ci sarebbe eccome: «la
carne di cinghiale, qui, costa meno di quella del manzo italiano! ...Viene dalla Nuova
Zelanda... ».
Esterrefatta e decisamente incredula, cercando di fare mente locale sulla questione, proposi
di cambiare portata. Uno dei due ragazzi, capendo solo in parte il mio profondo sconforto e
provando a scherzarci su, ipotizzò allora di inserire un Prosciutto di renna nel menù.
Divertita, gli chiesi da dove potesse provenire, confidando almeno in un ambito interno ai
confini continentali (avevo sentito dire che Babbo Natale risiedesse in Finlandia...), ma:
«sempre dalla Nuova Zelanda!», mi rispose Diego, «...però è ottimo e fa un figurone,
dovresti provarlo».
• 1.1 Pietanze e distanze
Non nego che quel discorso possa apparire provvisto di una certa logica. Anzi, magari in
Nuova Zelanda ci sono più renne che abitanti, quindi vale la pena prenderne un po’ di là per
portarle qua; magari salvando quelle finlandesi, se ce ne sono ancora, tenendo occupati gli
2
irrequieti Maori nell’allevamento e degustando nel contempo un cibo prodotto dall’altra parte
del mondo, ma rivisitato da appetibili tradizioni culinarie nostrane (forse).
O meglio, il discorso può, sì, apparire pienamente logico, ma all’interno di un sistema
occidentale e mondializzato di produzione e consumo degli alimenti, dove si guarda più alla
sostanza che alla distanza, più al gusto che al costo (ambientale), più al globale che al
locale, meno al diverso e più all’uguale.
Nell’alimentazione di un gruppo umano prende infatti forma la sua struttura sociale, vi si
concretizzano i processi di interazione collettiva e socioambientale, nonché le sue peculiari
rappresentazioni culturali; perché il nutrimento, sono in molti a sottolinearlo, è un elemento
essenziale all’origine della reciprocità e dello scambio interpersonale e, in generale, nello
stabilimento e nel mantenimento della relazione sociale. «Non potrebbe essere
diversamente, dal momento che la sopravvivenza quotidiana è il primo e ineludibile bisogno
dell’uomo», sottolinea Montanari.
2
Il cibo, poi, assieme all’acqua, è l’unica necessità materiale comune a tutto il genere
umano
3
; «Il cibo è il prodotto di un territorio e delle sue vicissitudini, dell’umanità che lo
popola, della sua storia e delle relazioni che ha instaurato», scrive Carlo Petrini, fondatore
del movimento internazionale Slow Food, «Si può parlare di ogni luogo del mondo [e di ogni
momento storico, direbbe Montanari
4
] parlando del cibo che vi si produce e vi si consuma»
5
.
Un sistema alimentare è infatti una realtà dinamica che, facendo giungere un alimento dalla
sua origine ai consumatori, non ha smesso di trasformarsi in questi ultimi anni.
Nelle attuali società dell’abbondanza, il cui comportamento alimentare non tiene in conto
della razionalità ecologica, economica, nutrizionale e salutare
6
, la produzione ed il consumo
si trovano nettamente delimitate e distanti. Molte relazioni del sistema alimentare odierno
scavalcano appunto le frontiere spaziali e lo spazio geografico di produzione di un alimento
coincide sempre meno con il suo spazio di trasformazione, di preparazione e di consumo.
A questo mutamento dei parametri alimentari mondiali è stato applicato il termine
delocalizzazione, in riferimento al processo per il quale le varietà dei metodi di produzione e
dei modi di consumo si sono distribuiti nel mondo in una «intensificata e sovradimensionata
2
Massimo Montanari, La fame e l’abbondanza, Storia dell’alimentazione in Europa, Bari, Laterza, 1997, p.3.
3
E. Service, citato da: Amado Millàn, Malo para comer, bueno para pensar, crisis en la cadena
socioalimentaria, in: Somos lo que comemos, Estudios de alimentación y cultura en España, a cura di
Mabel Gracia Arnaiz, Barcelona, Ariel, 2002, p.279.
4
Massimo Montanari è docente di Storia economica del Medioevo e di Storia dell’Alimentazione
all’Università di Bologna.
5
Carlo Petrini, Buono, Pulito e Giusto, Princìpi di nuova gastronomia, Torino, Einaudi, 2005, p.33.
6
Amado Millàn, Malo para comer, bueno para pensar, crisis en la cadena socioalimentaria cit., p.280.
3
rete di interdipendenza socioeconomica e politica»
7
, infatti: «anche in seguito alle pressioni
dei distributori, si sviluppano e si generalizzano prodotti più facili da immagazzinare, da
trasportare e da conservare sugli scaffali. L’agricoltura seleziona alcuni prodotti in base al
loro aspetto e alla loro durata negli appositi spazi di vendita. Dalla frutta fino ai formaggi, gli
alimenti quotidiani subiscono profonde trasformazioni»
8
.
Se è vero, come detta un famoso aforisma, che Siamo quello che mangiamo, cioè che quello
che ingeriamo ci apporta inevitabilmente, oltre alle sostanze biochimiche e all’energia
necessaria per la nostra sussistenza, anche le proprietà morali e comportamentali
9
che ha
assorbito da un determinato contesto, allora è altrettanto vero che Mangiamo quello che
siamo e cioè, un prodotto condizionato dalla nostra stessa realtà biologica, culturale e
psicosociale. Oggi, quindi, un alimento le cui componenti provengono da lontano, che non
appartiene né a noi né al nostro territorio e che pertanto non siamo più in grado di
identificare; senza memoria. «Nel momento in cui il cibo abbonda sulle nostre tavole, grazie
ad un’offerta di mercato incredibilmente vasta e varia e ad un potere di acquisto alto come
mai in passato, il nostro rapporto con il cibo, paradossalmente, si allenta»
10
.
E’ così che il nostro bisogno primario può trasformarsi in strumento di analisi della realtà
economica e sociale del ventunesimo secolo
11
, diventando «un elemento in grado di aprirci
gli occhi su ciò che siamo e su dove stiamo andando»
12
.
Questa moderna incapacità di ripercorrere la filiera produttiva del cibo che portiamo in
tavola, ad esempio, potrebbe mettere in discussione la nostra stessa identità. E il disagio
provocato dall’allontanamento tra il luogo di produzione di un alimento e il suo contesto
socioculturale di consumo, forse, potrebbe essere la causa dell’attuale tendenza a celare la
tecnologia e ad insistere piuttosto sulla naturalità e la territorialità dell’offerta alimentare.
Vero è che l’idea di cibo, come sostiene Montanari, si associa sempre volentieri a quella di
natura, anche se questo nesso è fondamentalmente improprio. Nell’esperienza umana,
infatti, un sistema alimentare è il risultato di processi culturali interdipendenti, che ne
7
Jesús Contreras Hernàndez, Mabel Gracia Arnàiz, Alimentación y cultura, perspectivas antropológicas,
Barcelona, Ariel, 2005, p.57.
8
In: Storia dell’alimentazione, a cura di Jean-Louis Flandrin e Massimo Montanari, Roma-Bari, Laterza,
1997, p.684.
9
Mabel Gracia Arnaiz, La alimentación en el umbral del siglo XXI, in: Somos lo que comemos, Estudios de
alimentación y cultura en España cit., p.15.
10
Massimo Montanari, La fame e l’abbondanza cit, p.199.
11
«If the ideas and practices of food mark human difference, what do current projects of food and globality tell
us about who we are?», in: Lynne Phillips, Food and Globalization, «Annual Review of Anthropology», Vol.
35, 2006, p.46.
12
Carlo Petrini, Buono, Pulito e Giusto cit, p.26.
4
prevedono l’addomesticamento, la trasformazione o la reinterpretazione
13
. Le forme di
approvvigionamento ed il trattamento degli alimenti dipendono pertanto sia dalle
disponibilità ecologiche, sia dall’equipaggiamento tecnologico di cui ogni società è provvista,
in funzione del tipo di habitat in cui è inserita e delle sue particolari condizioni esistenziali,
che dovrebbero variare a seconda del tempo e dello spazio.
Con l’evoluzione della produzione e della distribuzione agroindustriale, abbiamo però perso
progressivamente ogni contatto con il ciclo di creazione del cibo, inserendo nel percorso tra
la materia prima e il prodotto di consumo, ora perlopiù nelle mani di grandi imprese
multinazionali, elementi comuni esterni al sistema agricolo naturale («non si può parlare di
cibo senza parlare di agricoltura», sottolinea giustamente Petrini
14
).
Allora, quello verso cui stiamo andando, ciò che sta plasmando i modelli nutrizionali
contemporanei, è una forte artificializzazione dell’alimentazione e una crescente
omogeneizzazione delle pratiche alimentari e dei consumi. Fenomeni, questi, che solo le
rivendicazioni di un cibo che risenta di un ambito geografico peculiare (presumibilmente il
più vicino al consumatore), di tecniche di produzione tradizionali o di una diversità biologica
specifica, possono aiutare a moderare.
Il processo di delocalizzazione, scrive Montanari, ha sconfitto la fame millenaria degli europei
(e dell’occidente in generale), sottraendola all’incertezza e ai vincoli stagionali. Ma ha anche
e spesso aggravato le condizioni di vita di altri paesi nelle aree non industrializzate, dove il
potere e la ricchezza, ottimi strumenti di persuasione, hanno economicamente orientato i
sistemi alimentari alla soddisfazione dei bisogni altrui. Ed hanno messo così in pericolo, nelle
popolazioni oggi produttrici, quelle che erano l’autosussistenza e l’indipendenza economica,
a scapito dell’assoggettamento a relazioni di sfruttamento con i paesi consumatori.
Agroindustria, tecnologie alimentari, monocolture, allevamenti intensivi, libero mercato,
sviluppo, progresso: è infatti attraverso questi termini, anzi, con l’utilizzo di questi strumenti
che oggi si muove la grande macchina della produzione e della distribuzione di cibo su scala
globale, dall’occidente, “la mente”, al resto del mondo, “le braccia”, e sempre più
velocemente.
L’occidentalizzazione e il carattere prettamente urbano dei modelli alimentari contemporanei,
poi, con l’aiuto della crescente mobilità sociale, per lavoro o per turismo, hanno sollecitato la
diffusione di altri fenomeni correlati. E’ il caso dell’apertura agli accostamenti gastronomici
meno ordinari e consueti, ad esempio, apportata dalla perdita di significato e di spessore
13
Massimo Montanari, Il cibo come cultura, Bari, Laterza, 2004, p.XI.
14
Carlo Petrini, Buono, Pulito e Giusto cit, p.21.
5
culturale di alcuni prodotti, e contrastata, sotto un altro fronte, dalla chiusura con
l’alternanza periodica rituale dei cibi, usualmente legata alle festività religiose.
Il disorientamento culturale che inevitabilmente ne deriva, inoltre, avrebbe fatto sì che
questo modello urbano diventasse la norma, tanto da indurre le popolazioni rurali ed extra-
euroamericane a cercare di perseguirlo proprio nel momento in cui, quelle stesse che lo
hanno forgiato, starebbero tentando di sottrarsene.
Le une, quindi, sembrano abbandonare tradizioni millenarie, conoscenze e sapienti metodi di
sfruttamento delle risorse territoriali, per rincorrere uno stesso modello che le altre già
screditano, criticandone l’inefficienza e cominciando a soppesarne le molteplici conseguenze.
Critiche, quelle emergenti in contesti urbani, secondo molti più che evidenti e giustificate,
tenuto conto del fatto che fanno appello, oltre a questioni economiche e politiche, anche a
fattori ideologici, ambientali e sociali.
• 1.2 La dieta del secolo
Può considerarsi emblematico che già dalla metà del XIX secolo, proprio in parallelo
all’evolversi dell’industrializzazione e dell’urbanizzazione, in maniera più o meno intensa, di
tutte le società del mondo, abbiano iniziato a formarsi i primi movimenti di opposizione al
regime emergente.
In Europa e Stati Uniti dove, come è ovvio, i parametri del cosiddetto “progresso” e
dell’economia capitalista cominciarono prima e più radicalmente ad impossessarsi del
sistema, la rivendicazione di una componente naturale nell’alimentazione e di un aspetto
salutistico della nutrizione, apparentemente dei controsensi, presero infatti da allora a farsi
sentire a gran voce.
E’ il caso del vegetarianesimo ad esempio, quel movimento alimentare, se così può essere
chiamato, che oggi vanta una certa popolarità anche in occidente
15
e che vide la luce nel
pieno della rivoluzione industriale.
Montanari racconta
16
in proposito che fu un gruppo elitario di Manchester a fondare nel 1847
la prima Società vegetariana inglese. Il progetto sarebbe stato spinto, certo, da motivazioni
tradizionali, come la condanna dell’uccisione degli animali o la supposta maggiore naturalità
di una dieta a base vegetale, ma mutuate da quei nuovi valori economici che andavano
imponendosi, come l’idea di una migliore produttività dell’agricoltura rispetto all’allevamento.
15
Si veda: Carla Barzanò, La cucina mediterranea senza carne, Milano, Tecniche Nuove, 2001.
16
Massimo Montanari, La fame e l’abbondanza cit., p.191.
6
La concezione di un’alimentazione priva di carne, da millenni praticata in altre società extra-
europee (è il caso dell’India) per scelta legata a condizioni ambientali o a specifiche pratiche
religiose, era già riapparsa in epoca moderna nell’Europa del Settecento, con l’Età dei Lumi e
con i primi bagliori del sistema capitalista. I ceti dominanti del periodo, mossi da spirito
filantropico verso le classi povere e da un illuminato senso salutistico, avevano infatti
cominciato a sostenere alcune motivazioni avanzate nei secoli precedenti dalla tradizione
cristiana: il cibo vegetale come scelta di serenità e di pace, ad esempio, come una possibilità
di vita semplice e frugale o come strumento di leggerezza corporea e di libertà mentale.
In realtà, spiega Montanari
17
, si avrebbe piuttosto a che fare con «una prospettiva di
carattere squisitamente sociale e politico» parte, cioè, di quella lotta all’eccesso e
all’opulenza propria dei ceti borghesi del periodo e in contraddizione con quella che era
l’attitudine comportamentale e culturale dell’ancien régime. Il lusso diviene più esile, più
ricercato e più delicato, ma sempre di uno sfizio si tratta: solo una società che conosce la
ricchezza può permettersi di apprezzare la povertà
18
. O forse, solo una società alla ricerca di
un nuovo modello distintivo, vista anche l’accresciuta disponibilità di carne nei mercati di fine
Ottocento, tale da averne democratizzato e allargato il consumo alle classi meno abbienti,
può essere colta da singolari manifestazioni di “nostalgia della campagna”.
Sta di fatto che tra i progressi della zootecnia, il miglioramento dei sistemi di conservazione
(refrigerazione, inscatolamento ermetico..) e di quelli di trasporto (la macchina a vapore!),
l’alimentazione europea subisce un mutamento radicale: tutti possono mangiare tutto. E, per
un buon andamento dell’emergente sistema capitalista, sarebbe opportuno che lo facessero:
le ragioni del profitto, infatti, impongono che non vi sia costrizione o distinzione alimentare
che tenga.
Inizia così un notevole incremento dei grassi e delle proteine animali in una dieta che da
europea diventa occidentale, uniforme e industriale. Pane, zucchero e riso raffinati, meno
cereali, parecchie carni. E poi cibi in scatola, surgelati, confezionati o precotti; il sogno
popolare plurisecolare di vincere la natura, di sottrarsi all’incertezza, alle rinunce e alle
distanze, sembra allora compiersi: dopo le false speranze e gli innumerevoli tentativi del
passato, «sono precisamente la risposta che i nostri padri si attendevano»
19
.
Ma qualcosa è cambiato. La quantità e la qualità degli alimenti sono sempre stati indicatori
dello status economico e sociale dei consumatori, questo è assodato. I ruoli e le pratiche
17
Massimo Montanari, La fame e l’abbondanza cit., p.187.
18
Massimo Montanari, La fame e l’abbondanza cit., p.198.
19
Massimo Montanari, La fame e l’abbondanza cit., p.205.
7
alimentari (come i piaceri in generale), però, quando diventano troppo condivisi, si
modificano. Oppure, come in questo caso, si invertono: essere grassi diventa sempre meno
segno di bellezza e di benessere economico e fisico, come poteva esserlo in occidente prima
della rivoluzione industriale, mentre le élites del XX secolo propendono per la magrezza, i
vegetali, la rinuncia ai piaceri di una tavola imbandita in favore di “un poco ma buono”,
perché più sano. E forse solo oggi, quando gli artifici alimentari raggiungono un livello tale
da allarmare l’opinione pubblica, la stampa e i più svariati mezzi di comunicazione, l’ipotesi
illuminista di una cucina semplice e naturale comincia seriamente ad attrarre la cultura
dominante.
Effettivamente, la società contemporanea è sempre più connotata da un grande interesse e
da una forte preoccupazione relativa alla nutrizione, alla dietetica e all’alimentazione in
generale. Il fatto che tutti i medici, da che mondo è mondo, abbiano sempre sostenuto
l’importanza di una corretta alimentazione per il benessere psicofisico dell’individuo, infatti,
non è da mettere in discussione (discutibili sarebbero piuttosto le diverse concezioni di
“corretta alimentazione” che, a seconda dei casi, hanno caratterizzato la storia...). «Le
ragioni della salute hanno avuto sempre un posto di rilievo nell’orientare le scelte alimentari
degli uomini», scrive in proposito Montanari
20
. Ma questa importanza sembra assumere oggi
un valore ancora maggiore, se associata ad un certo tipo di disturbi propri della società
industriale (come l’obesità
21
, il diabete, l’anoressia, certe forme allergiche...) che potrebbero
essere stati apportati in buona misura dal radicale cambiamento che ha interessato
l’alimentazione umana degli ultimi 40 anni.
Nel «Journal of the American Dietetic Association» del 1997, ad esempio, viene pubblicato il
Position Paper on Vegeterian Diets: « Studies indicate that vegetarians often have lower
morbidity and mortality rates... [...] Scientific data suggest positive relationships between a
vegetarian diet and reduced risk for...obesity, coronary artery disease, hypertension,
diabetes mellitus, and some type of cancer».
22
Al pari del vegetarianesimo occidentale, cominciano allora a diffondersi altre e nuove
frontiere dell’alimentazione che, alle questioni animaliste, uniscono problematiche
ambientali, prospettive salutiste e tematiche “terzomondiste”. E’ il caso dell’alimentazione
20
Massimo Montanari, La fame e l’abbondanza cit., p.79.
21
Nel caso degli Stati Uniti, ad esempio, il 18% della popolazione generale è obeso. Ma tra i vegetariani lo
sono solo il 6%, e dei vegani solo il 2%. I due terzi della mortalità statunitense, inoltre, è correlata alla dieta.
Si veda: John Robbins, The Food Revolution, How Your Diet Can Help Save Your Life and Our World, San
Francisco, Conari Press, 2001, p.58.
22
Citato in: John Robbins, The Food Revolution cit, p.15.
8
vegana, ad esempio, connessa anche alla nascita e allo sviluppo, nel corso dell’ultimo
ventennio in particolare, di quelli che possono considerarsi i contraltari dell’agroindustria:
l’agricoltura organica
23
e quella biodinamica
24
.
Sorta anch’essa in Inghilterra
25
(ma nel Secondo Dopoguerra) e parte di quella che può
considerarsi una filosofia di vita (il veganismo si allarga al vivere quotidiano in generale), la
dieta vegana esclude totalmente il consumo di prodotti animali e dei loro derivati, con la
ferma convinzione che sia più salutare sia per l’uomo che per il pianeta
26
. «Con il progresso
degli studi sull’ambiente, risulta ormai chiaro che l’appetito umano per la carne animale
rappresenti una spinta centrale dietro a tutte le principali tipologie di danni ambientali che
minacciano oggi il futuro dell’umanità», scrivono in proposito i redattori del «World Watch
Magazine»
27
, la rivista dell’omonimo Istituto di Washington che si occupa appunto di
questioni ambientali su scala planetaria. Ed esemplificando: una pagnotta fornisce circa le
stesse calorie di un hamburger di pari peso, ma la sua produzione consuma un dodicesimo
dell’acqua.
Un’alimentazione vegana richiede perciò la formulazione accurata, in un apporto nutrizionale
equilibrato, dell’insieme alimentare giornaliero, oltre ad un’attenzione specifica alla qualità
dei cibi: rigorosamente biologici, non raffinati, non pastorizzati, non idrogenati.
Un prodotto biologico
28
è il risultato di un particolare sistema agricolo che sfrutta la naturale
fertilità del suolo, favorendola con interventi limitati, e che esclude fertilizzanti chimici o altri
prodotti di sintesi; esattamente, cioè, quello che avrebbe continuato a fare l’agricoltura
“convenzionale”, se non avesse poco a poco assorbito metodi e tecniche industriali
29
.
23
Più comunemente nota come biologica, anche se il termine risulti fondamentalmente improprio: per le
caratteristiche stesse dell’attività agricola, infatti, non è possibile l’esistenza di un’agricoltura che non sia
biologica. Si veda: it.wikipedia.org.
24
L’agricoltura biodinamica è un metodo scaturito dalla ricerca di sistemi sostenibili per la produzione
agricola che rispettino tutto il creato. Comprende l’agricoltura biologica, ma ad essa aggiunge due principi
peculiari, che hanno a che vedere con il compostaggio e con le fasi della Luna. Si veda: it.wikipedia.org.
25
La prima Società Vegana fu istituita in Inghilterra nel 1944 da Ronald Watson «una pubblicità vivente
della dieta che seguiva» e a quei tempi contava soli 25 membri. Si veda: Peter Singer, Jim Mason, Come
Mangiamo, Le conseguenze etiche delle nostre scelte alimentari, Milano, Il Saggiatore, 2007, p.217.
26
I vegani spesso sono attivisti del movimento per i diritti animali e, appellandosi a questioni etiche, non
vogliono rendersi complici dello sfruttamento degli animali da parte degli allevamenti industriali.
27
Citato da: Peter Singer, Jim Mason, Come Mangiamo cit., p.275.
28
Per comodità il termine viene qui utilizzato nella più corretta accezione di organico.
29
Si deve a Justus Von Liebig, scienziato tedesco, l’introduzione della chimica in agricoltura, a metà ‘800. E
risulta emblematico che alla fine della sua carriera, nel 1873, scrisse in proposito: «Confesso volentieri che
l’impiego dei concimi chimici era fondato su supposizioni che non esistono nella realtà. Questi concimi
dovevano condurre a una rivoluzione totale dell’agricoltura. […] Nella mia cecità, ho creduto che nella
meravigliosa catena delle leggi che uniscono la vita alla superficie della terra, ci fosse un anello mancante e
che io potevo rimpiazzarlo». In: Michele Buono, Piero Riccardi, «Il piatto è servito», Report, Rai, 30-11-
9
Ciò che accadde per esempio proprio nel secondo Dopoguerra, scrive Petrini
30
, quando, per
ovviare ad alcune delle profonde piaghe che affliggevano la popolazione del pianeta, la
Banca Mondiale dette il via alla cosiddetta Green Revolution. Teoricamente, l’intento era di
offrire una tiepida speranza ai tanti che, in diversi punti della Terra, stavano soffrendo di
denutrizione; praticamente, si rivelò un fallimento economico ed ecologico di notevole
proporzione.
Vennero diffusi fertilizzanti chimici e nuove varietà ibride in grado di incrementare la
produzione, ma l’aumento della quantità di cibo non corrispose affatto a una soluzione dei
problemi. Anzi, l’effetto reale di questa strategia politica fu piuttosto un grave impoverimento
delle risorse naturali e della biodiversità del pianeta, oltre alla perdita di un patrimonio
inestimabile di conoscenze e tradizioni legate alla terra. E, come se non bastasse, la Green
Revolution aprì un nuovo, vasto mercato per le operazioni delle grandi multinazionali,
leaders nella gestione di semi, fertilizzanti e pesticidi.
Proprio da allora, pertanto, diventa sempre più urgente pensare a nuove forme di
agricoltura, a metodi sostenibili che sappiano ripartire da saperi antichi e siano in grado di
coniugarli alle moderne tecnologie (dalle quali risulta ormai impossibile prescindere).
Ecco quindi che il metodo di produzione biologica, le cui basi tecniche ed ideologiche
risalgono addirittura al 1913, quando in Svizzera il filosofo austriaco Rudolf Steiner applicò la
filosofia antroposofica
31
all’agricoltura, e poi al 1942, quando Jerome Irving Rodale (autore
ed editore newyorkese) pubblicò la rivista «Organic Gardening», subisce intorno agli anni
‘60-‘70 un primo notevole impulso.
L’obiettivo di questo sistema di produzione e di elaborazione dei prodotti agroalimentari è
quello di ottenere alimenti che rispettino l’ambiente e conservino la fertilità dei terreni,
tenendo ben presente la salute di produttori e consumatori. I movimenti che ne postulano la
necessità e la funzionalità, presentano l’agricoltura biologica come “indipendente”, perché
slegata dai traffici delle multinazionali; “economica”, dato che si crea i propri fertilizzanti e i
propri semi; “conservatrice”, sia di varietà vegetali che di saperi tradizionali, e “salvatrice”;
degli ecosistemi, degli agricoltori e dei produttori.
2008, www.report.rai.it.
30
Carlo Petrini, Buono, Pulito e Giusto cit, p.23.
31
Il termine antroposofia, che Rudolf Steiner riprese da Robert Zimmermann, indica una “scienza spirituale”
che, cercando di raggiungere la stessa precisione e chiarezza proprie dell’approccio scientifico delle
scienze naturali, tenti di investigare e descrivere quel mondo spirituale che risiede al di là dei sensi umani e
delle esperienze.
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Nonostante questo, però, lo sviluppo (o forse, il recupero) di tale metodo di coltivazione in
Europa non ha avuto un cammino facile. Solo come reazione ad alcune politiche agricole, è il
caso della Green Revolution e dell’avvio di monocolture e sovvenzioni varie, alcuni contadini
degli anni ’60 si convertirono ad essa (chi per ragioni ecologiche, chi economiche
32
),
appoggiati dalle numerose organizzazioni che nel frattempo sorsero in loro difesa. Ma il vero
riconoscimento ufficiale della produzione agricola biologica arriverà solo più tardi, nel 1991,
con la pubblicazione del suo regolamento da parte del consiglio europeo, e non risulterà
essere sufficiente per accrescerne la diffusione.
Quella organica è infatti una forma di coltivazione che non può essere applicata a sistemi
standardizzati, anzi, ha bisogno di un terreno che, se precedentemente sfruttato
dall’agricoltura convenzionale, venga sottoposto ad un lungo processo di riconversione prima
di essere utilizzato. Una produzione biologica, prima di essere impiantata, necessiterebbe
quindi di un minimo di garanzie da parte di un mercato nazionale che ne giustifichi e motivi
la resa. E che nell’Europa di oggi, nella maggior parte dei casi (con le sole eccezioni di
Germania, Austria e Svizzera
33
), non è ancora maturo.
Ma «il pensiero tecnocratico, quando è molto radicato, alla fine rischia di conformare e
influenzare anche le spinte opposte al sistema, generando altre incongruenze»
34
. E’ questo
un pericolo che l’agricoltura biologica sta correndo in certe aree del pianeta e in certi settori
del mercato, dove ad esempio vengono impiantate grandi monocolture che utilizzano
pesticidi integrati (e causano la riduzione della biodiversità circostante), o sfruttano il lavoro
delle minoranze etniche. I timori che le grandi multinazionali si impossessino anche del
settore agricolo biologico sono infatti condivisi, tanti ritengono che potrebbero minare la
filosofia originaria del movimento al solo scopo di incrementare i profitti. Ma l’etichetta
“biologico”, sostiene Elizabeth Henderson, membro di una delle più vecchie associazioni di
coltivazione organica degli States
35
, «sottintende un approccio etico all’agricoltura»: non è
un’industria alimentare, bensì ne è un’alternativa.
A parte possibili “estremismi agroecologici”, comunque, è bene constatare che oggi il
biologico sta guadagnando credito nelle pratiche alimentari occidentali. Anche se, come nel
32
L’alimento bio p u ò essere venduto tra il 20 e l’80% più caro di quello proveniente da agricoltura
convenzionale, quindi per un produttore potrebbe rappresentare un mercato più redditizio della grande
distribuzione. Si veda in proposito: Carlo Petrini, Buono, Pulito e Giusto cit, Diario 10. La Verde California,
p.129.
33
In questi tre Paesi, infatti, la domanda di prodotti biologici è superiore alla loro produzione interna.
34
Carlo Petrini, Buono, Pulito e Giusto cit, p.134.
35
La Northeast Organic Farming Association.
11
caso degli Stati Uniti, questo genere di prodotti rappresenta ancora soltanto il 2 per cento
del totale venduto (nonostante la loro introduzione nelle grandi catene di supermercati), nel
mondo la richiesta di cibi biologici certificati cresce di un 10 per cento l’anno
36
.
La ricerca di un alimento considerato sano, puro e naturale sta infatti interessando categorie
sempre più ampie di persone (è il caso di consumatori al di sopra dei 50 anni, ad esempio,
fase della vita in cui aumentano le preoccupazioni per la salute) e a ciò avrebbero
contribuito non poco le crisi alimentari sorte nell’ultimo decennio, come quella della “mucca
pazza” o dei polli alla diossina.
I prodotti industriali generano diffidenza, la loro composizione è perlopiù sospetta e vengono
accusati di eliminare sostanze nutritive e di dissimulare elementi nocivi negli alimenti. La
naturalezza, invece, tranquillizza: ecco perché l’immagine dell’agricoltura “bio” come un
ritorno a quella tradizionale dei nostri nonni è onnipresente, e accompagna motivazioni
legate alla salute o all’ambiente.
Inoltre, con l’aumentare dei rischi ecologici e delle insicurezze alimentari, si affinano le
restrizioni dei regimi dietetici e, pur arrivando a puntare sempre più sui vegetali, si
arricchiscono di qualche accorgimento.
E’ il caso della dieta proposta da John Robbins in The Food Revolution, How You Can Help
Save Your Life and Our World e che chiama la «Healthy Plaint-based Diet».
L’autore
37
p a r t e dal presupposto che la scienza medica sia alla ricerca continua di
avvantaggiare le diete a scarso o nullo apporto di carne
38
, ma che questi supposti vantaggi
spesso non tengano in conto di differenze culturali, classi sociali e luoghi geografici, o non
vengano correlati a fattori quali il fumo o l’esercizio fisico.
«A cultural shift toward a plant-based, whole foods diet would have enormous benefits. For
the vast majority of people, it would mean far healthier lives. [...] it would also mean far
more vibrant, thriving, energetic, creative people», scrive ad esempio Robbins
39
,
ripercorrendo quella sorta di “Illuminismo alimentare” che aveva caratterizzato gli albori
dell’Età della Macchina.
36
Peter Singer, Jim Mason, Come Mangiamo cit., p.229.
37
John Robbins è direttore di parecchie ONG e autore di numerosi bestsellers, tra cui quello che lo rese
famoso a livello internazionale: Diet for a New America. Si veda: John Robbins, The Food Revolution cit.
38
Sebbene «l’idea che abbiamo bisogno di alti livelli di proteine fu confutata negli anni Settanta e le autorità
sanitarie ridussero l’apporto proteico consigliato a circa un terzo di quello ritenuto necessario in
precedenza», in: Peter Singer, Jim Mason, Come Mangiamo cit., p.261.
39
In: The Food Revolution cit, p.95.
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