Ho ritenuto che il criticismo potesse rappresentare la mia “filosofia di partenza”,
la lente d’ingrandimento dalla quale fissare il mondo, per coglierne le sfumature
e i nodi problematici. A questa scoperta, tardiva, di Kant, va aggiunta una
naturale propensione per il fenomeno religioso, verso il quale nutro un interesse
profondissimo, al quale si aggiunga un trasporto emotivo profondo e
connaturato al mio stesso sentire, che è per l’appunto un “sentire religiosamente
ispirato”.
La filosofia della religione è, per questo, il mio campo naturale e privilegiato. Lo
“sposalizio” nato in me tra Kant e la filosofia della religione mi ha così inclinato
senza indugio verso la speculazione religiosa del filosofo, che ho trovato ricca di
stimoli e di prospettive da valutare con attenzione.
In genere, la filosofia della religione kantiana è identificata con il concetto di
male radicale da un lato, e con il capovolgimento del tradizionale legame tra
religione ed etica, dall’altro. Eppure, c’è molto altro. In tutta la sua esistenza
Kant ha meditato sulla natura di Dio, sulla teodicea, sul rapporto tra Dio e uomo,
sulla fede e la speranza, o meglio, sulla domanda di speranza – una delle celebri
domande che costituiscono l’intero campo della filosofia è appunto “che cosa
posso sperare”? – che l’uomo si pone, alla quale solo la fede e la religione
rispondono definitivamente.
La riflessione sul male radicale, quindi, e la centralità che esso assume negli
ultimi anni della produzione filosofica di Kant non sono un caso, né un’adesione
dovuta più alla senilità che lo avvicinava alla morte che ad un vero motivo
teoretico, come sovente si è affermato per liquidare, frettolosamente,
l’argomentazione kantiana.
Queste sentenze, prive di qualsiasi fondamento teoretico, non trovano
giustificazione proprio alla luce dell’evoluzione del pensiero kantiano, che,
come dimostrano numerosi studi recenti, come quello di Maria Teresa Pranteda
Il legno storto. I significati del male in Kant, di John Rawls nelle sue Lezioni di
storia della filosofia morale, e di un’opera ormai entrata di diritto tra i grandi
6
classici, Problemi kantiani, di Eric Weil, si è perennemente confrontato con la
questione del male e della sua inintelligiblità.
In tal modo Kant comprende come la religione non sia affatto un’appendice
secondaria della morale, bensì la sua conseguenza, che ne permette la
realizzazione entro una dimensione comunitaria - oltre che individuale, nella
misura in cui solo la fede morale può permetterci di sperare in una vera felicità,
che non sia parziale ed edonistica – .
Vi sono opinioni discordi sull’effettiva conoscenza teologica di Kant. Secondo
alcuni essa sarebbe stata superficiale, tutta filtrata dalla religione del pietismo
che la madre gli trasmise. Altri invece attribuiscono al filosofo una conoscenza
profonda della teologia e delle sue dispute teoretiche. La verità sta
probabilmente nel mezzo. Kant ha conoscenze teologiche che però non sono
paragonabili a quelle filosofiche strictu sensu.
Attualizzare la filosofia della religione kantiana significa innanzitutto fare i conti
con gli studiosi che hanno riflettuto su di essa alla luce della contemporaneità.
Richiamo qui solo alcuni studi che più mi hanno aiutato. La storiografia sul tema
ha vissuto negli anni, come è naturale che sia, un’evoluzione specifica, che in
parte risente delle nuove scoperte filologiche, ma dall’altra parte risponde ad una
precisa esigenza teoretica di andare oltre certi cliché storico-critici. Uno di essi
riservava alla filosofia della religione un posto marginale nella filosofia
kantiana, non comprendendone invece la portata e gli effetti.
Il rigore storiografico che separa, ad esempio, l’opera di Carmelo Lacorte edita
nel 19691 e un lavoro ormai classico qual è quello di Italo Mancini su Kant e la
teologia2, è abissale. Lacorte si limita infatti a rendere nota una vaga alleanza tra
religione e filosofia nell’opera di Kant, con scarsi argomenti teorici. Mancini,
invece, pur scrivendo la sua opera solo sei anni dopo quella di Lacorte, dimostra
una padronanza della filosofia critica fuori dal comune. Le sue critiche a Kant
1
Cfr. C. Lacorte, Kant. Ancora un episodio dell’alleanza di religione e filosofia, Argalìa Editore, Urbino, 1969.
2
I. Mancini, Kant e la teologia, Cittadella Editrice, Assisi,1975.
7
sono riconducibili alla sottovalutazione – che sarebbe avvenuta in Kant - del
ruolo del sentimento e ad una mancanza di una teoria sul simbolo religioso.
La pioniera degli studi italiani sulla filosofia della religione di Kant è stata però
Ada Lamacchia, che nel 1969 ha pubblicato un imponente volume sulla filosofia
della religione di Kant3, ripercorrendo la storia della filosofia kantiana dal punto
di vista della filosofia della religione, consegnando così al pubblico italiano un
volume di altissimo valore scientifico.
Non solo in Italia però l’interesse per la filosofia della religione kantiana andava
incrementandosi in quegli anni. Nei primi anni ’60 Eric Weil ha pubblicato un
libro importante, Problemi kantiani,4 nel quale il filosofo tedesco si confronta
con il tema “classico” del male radicale per poi estendere la sua riflessione
sull’intera filosofia della religione kantiana.
Le riflessioni teologiche kantiane non potevano certo lasciare insensibili i
tomisti, in particolare un tomista di primissimo ordine come Jacques Maritain,
che nella sua opera di filosofia morale5 si confronta con il Kant “religioso”,
confutando il pensatore tedesco con argomenti a mio giudizio deboli, insistendo
soprattutto sul fatto che Kant non avrebbe colto che il cristianesimo ha il suo
fondamento in un sentimento, l’amore (per Dio e di Dio verso l’uomo), piuttosto
che nella ragion pratica. Innanzitutto, Kant lascia intravedere uno spazio, seppur
marginale, all’amore, nel breve saggio del 1794, La fine di tutte le cose,6
dichiarando che se il cristianesimo non fosse amabile (oltre che ragionevole) la
fede non potrebbe che essere indotta con la violenza e con l’inganno. Ma ciò che
conta, per Kant, è il fatto che l’amore del prossimo in quanto sentimento non sia
un primum etico, ma scaturisca dalla fonte della legge morale.
Wilhelm Weischedel, allievo di Heidegger e studioso del pensiero scettico, nel
primo volume del suo famoso Il dio dei filosofi,7 interpreta Kant come il primo
3
A. Lamacchia, La filosofia della religione in Kant, Lacaita, Bari, 1969.
4 E.Weil, Problemi kantiani, Quattroventi, Urbino, 1980.
5
Cfr. J. Maritain, La filosofia morale: esame storico e critico dei grandi sistemi, Morcelliana, Brescia, 1988.
6
I. Kant, La fine di tutte le cose, Bollati Boringhieri, Torino, 2006.
7
Cfr. W. Weischedel, Il dio dei filosofi, vol. I, Il nuovo Melangolo, Genova, 2005.
8
filosofo che aprirebbe le porte al nichilismo teologico e alla morte di una
teologia razionale, nichilismo che estremizza la posizione kantiana. La tesi di
Weischedel fa leva sul fatto che la teologia morale kantiana non ha una reale
validità universale, perché vale solo per coloro che siano decisi nel vivere
un’esistenza morale. Weischedel contesta inoltre l’esistenza di Dio, come
postulato, sulla base del nesso tra felicità e virtù, che Kant stesso riconosce
come sintetico – quindi problematico - . Sulla base della disposizione morale
presente in noi potremmo replicare a Weischedel che il germe del bene, in
quanto potenzialmente presente in ogni uomo, non può essere discusso in quanto
tale. Sul problema del nesso tra virtù e felicità c’è da dire che, in assenza del
legislatore morale che faccia corrispondere la felicità alla virtù, esse non
andrebbero mai insieme, rendendo impossibile il sommo bene – che deve
necessariamente esistere per l’uomo - .
Sull’attualità e l’inattualità della filosofia della religione kantiana
particolarmente significativo è un saggio di Giovanni Ferretti8, volto proprio al
delicato compito di mettere a fuoco cioè che vi è di attuale e di inattuale nel
pensiero kantiano sulla religione. Innanzitutto, la riduzione della religione alla
morale, pur nel suo fondamentale pungolo alle coscienze, è stata contestata già
da Friedrich Schleiermacher, secondo il quale la religione avrebbe una sua
“provincia nello spirito”, non riducibile a nessun’altra categoria e fondata sul
sentimento di dipendenza da Dio. Del resto questa pregnanza del sentimento, in
religione, è stata sottolineata e confermata dalla fenomenologia della religione,
attraverso le opere di pensatori come Rudolf Otto e Max Scheler. Un secondo
motivo di inattualità di Kant esegeta del cristianesimo sta nella sua scarsa
attenzione al mondo della storia come luogo del disvelamento della verità. Il
cristianesimo è infatti una religione storica, e la componente storica ha in esso
8
Cfr. G. Ferretti, Kant: un’ermeneutica filosofica del cristianesimo ancora attuale? in R. Perini- S. Marcucci - M.
Bastianelli, Percorsi kantiani nel pensiero contemporaneo, Morlacchi, Perugia, 2007
9
un ruolo di primo piano, che in Kant è invece marginale, rappresenta addirittura
un ostacolo al pieno raggiungimento della religione razionale.
Paul Ricoeur ha invece rimproverato a Kant di non aver sviluppato un’adeguata
teoria del simbolo religioso.9Persino il concetto di libertà, così come presente in
Kant, non sembra adeguato per comprendere l’essenza del cristianesimo. Non
solo perché, valendo per il solo ambito noumenico, la libertà sembra così non
entrare nella storia e nella temporalità, ma soprattutto perché essa ignora quel
“rischio tragico” di potersi auto-negare ed auto-annullare, di cui parlava
Pareyson. Questi nodi problematici ed inattuali del pensiero religioso kantiano
non impediscono a Ferretti di riconoscere l’attualità di esso, a partire dalla
necessità di una pre-comprensione ontologica del cristianesimo. La filosofia
critica, con il suo gravoso e fondamentale compito di “igiene della ragione”,
nella misura in cui ha stabilito che la scienza non può andare oltre i fenomeni
del mondo, ha reso possibile e razionale uno spazio noumenico lasciato alla
religione.
In Kant infatti è presente quella che Ferretti definisce un’ontologia del limite,10
limite che si apre su una radicale ulteriorità, che oltrepassa – pur senza
delegittimarla o sostituirla in alcun modo – l’ontologia fenomenico-coscienziale
della Critica della ragion pura. L’ulteriorità è segno della trascendenza e del
mistero, dell’inconoscibile, che solo per un atto di fede ci è svelato e rivelato.
Ancora Paul Ricoeur si chiede come sia possibile discernere tra veri e falsi
testimoni di Dio. In soccorso del filosofo francese giunge una criteriologia del
divino, così come Kant la traccia nelle Lezioni di filosofia della religione di
Kant e nella sua ermeneutica della Scrittura. Annuncia Ricoeur: “Elaborando i
predicati del divino noi squalifichiamo i falsi testimoni; riconoscendo i veri
testimoni noi identifichiamo i predicati del divino. Questo bel circolo
ermeneutico è la legge d’una comprensione di se stessi”.11
9
P. Ricoeur, Une herméneutique philosophique de la religion: Kant, in Interpréter. Hommage amical à Claude
Geffré, Études réunis par Jean-Pierre Jossua et Nicolas-Jean Sed, Cerf, Paris, 1992, pp. 25-47.
10
Cfr. G. Ferretti, cit., p.116.
11
P. Ricoeur, L’herménetique du témoignage, in La testimonianza, “Archivio di filosofia”, 1972, 63, p.52.
10
Il fatto che la religione abbia una sua provincia spirituale e non sia riconducibile
tout court all’etica non impedisce di vedere la grande attualità di Kant nel
richiamare all’etica come via per il divino e l’aver fatto valere la ragion pratica
come correttivo critico degli aspetti sacrali del cristianesimo storico.
Per questo motivo Kant è lontano da una “trascendenza teocratica” che
comprima la libertà umana, da cui è sorto quello che Max Scheler chiama
“ateismo postulatorio”, cioè un ateismo che liberi l’uomo dalla tensione dell’al
di là e dall’ammettere l’esistenza di Dio per liberarlo nell’al di qua, ateismo che
si esprime nel grido dello Zarathustra nicciano: “Vi scongiuro, fratelli miei,
rimanete fedeli alla terra e non prestate fede a coloro che vi parlano di speranze
ultraterrene!”.12
In verità proprio la filosofia della religione kantiana è una giustificazione
filosofica della speranza ragionevole, fondata sulla ragion pratica. Questo
accento posto sulla speranza mantiene la sua attualità e il suo grande valore.
Kant depura il cristianesimo dai suoi aspetti sacrali, intesi come mezzi esteriori
che si presume siano in sé salvifici per il solo fatto di essere stati compiuti.
Soltanto invece se l’uomo si dimostra cooperativo all’avvento del regno di Dio
nel suo agire, sarà degno della salvezza. Nessun culto o rito lo salverà.
In ultimo, ma non per ultimo, un punto di estrema attualità sta nel
riconoscimento di un paradosso e di un’antinomia che riguarda la tensione tra
l’affermazione netta dell’effettiva realtà (morale) dell’Ente supremo da un lato, e
l’altrettanto netta dichiarazione della nostra impossibilità di conoscere un tale
ente. Come nota Ferretti, l’antinomia è in realtà un paradosso da mantenere
fermo, perché la teologia si nutre di quel paradosso, ha un senso proprio in
quanto è paradossale, conoscibile e inconoscibile allo stesso tempo. Si ha cioè
una dialettica quasi hegeliana, nella misura in cui né la tesi – l’esistenza reale
dell’ens summum – né l’antitesi sono negate dalla sintesi, che in quanto
Aufhebung conserva e supera entrambi gli elementi dialettici, in questo caso in
12
F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Mondadori, Milano, 1992, p. 8.
11
una percezione del paradosso come tale, come irrisolvibile. Il paradosso si
esprime anche nel problema che investe l’uomo sulla libertà in conflitto con la
grazia; siamo infatti esseri liberi e dobbiamo guadagnarci la grazia, ma al tempo
stesso siamo creature radicalmente cattive che non riescono a spiegarsi come
questo sia possibile. Di nuovo si affaccia il mistero in tutta la sua pienezza di
senso.
La vera attualità della filosofia della religione kantiana però non sta tanto nella
sua ripresa contemporanea da parte di studiosi ed interpreti, che pure andava
sottolineata per ragioni di completezza.
L’attualità maggiormente pregnante di Kant filosofo della religione sta nel suo
essere un viatico contro ogni forma di fanatismo e di fondamentalismo, e in
questo senso un’opera come Il Conflitto delle Facoltà conserva davvero una
vivida attualità. In essa infatti Kant critica da un lato i governi nella misura in
cui questi vogliano arrogarsi il diritto di sindacare e di censurare le opinioni
degli intellettuali che riflettono sulla fede e sulla religione, ma più in generale
Kant si fa portavoce della protesta contro l’istituzionalizzazione delle chiese e la
loro frammentarietà.
Chiunque, dinanzi alla pluralità immensa delle chiese e delle diverse fedi si è
posto il problema di una “vera religione”, rispondendosi spesso con la facile
scappatoia del relativismo delle fedi, che lascia inalterato il problema della fede
universale e razionale. Una chiesa o una religione fanatica che fa guerra alla
ragione non potrà mai, alla lunga, imporsi. Allo stesso modo, un governo che
entra nelle scelte religiose manifesta il carattere di Stato etico, di uno stato cioè
che vuole dettare le sue leggi in campo morale, privando l’uomo della sua
indipendenza.
Il processo della secolarizzazione ha reso da tempo Dio e la religione come degli
oggetti ininfluenti, superflui, relegati alla privatezza delle scelte individuali. Il
nichilismo con il suo acido corrosivo ha attecchito persino nel cristianesimo,
nella misura in cui questo utilizza argomenti irrazionali che parlano più alla sola
12
emozionalità che non al cuore. Queste tendenze hanno generato un diffusissimo
ateismo, veleno sotterraneo delle nostre società, e, ancor peggio, un
“indifferentismo religioso” che considera il problema della religione come
vecchiume senza valore particolare nel mondo di oggi. Dice bene in tal senso il
filosofo canadese d’ispirazione cattolica, Charles Taylor, rimarcando il fatto che
se fino ad un secolo fa era impensabile ed assurdo dichiararsi indifferenti al
problema della fede, oggi essa è una semplice opzione tra le altre.
La crisi dei valori di cui tanto si parla, e che si verifica nell’esperienza, è
determinata certamente anche da questa deriva; il valore filosofico della
speranza, in una società contrassegnata dalla paura, che ancora non riesce a
trovare risposte ai numerosi conflitti e alle diseguaglianze presenti, deve essere
ritrovato. Non si tratta di speranza in un’ideologia politica o una semplice attesa
di qualcosa che potrebbe non realizzarsi mai, ma di una speranza ragionevole
fondata sulla ragion pratica.
Kant ha molto da insegnarci su questo punto, perché la sua è una “terza via”,
alternativa tanto al dogmatismo ecclesiastico quando all’incredulità, determinata
spesso più dal pregiudizio che da veri motivi teoretici.
La venerazione cieca non è contemplata, al pari dell’ingenuità di certi atei. Kant
si fa paladino dell’uso critico dell’intelletto anche nelle cose di religione, per
poterne configurare i limiti e al contempo la necessità. Fondando la religione
sull’eticità, Kant spazza via la possibilità di qualsiasi “guerra santa”, del becero
proselitismo di certi confessioni religiose. Le parole del grande filosofo Karl
Jaspers sono una degna conclusione di questo ragionamento:
“Noi siamo trascinati da Kant sul suo cammino, da un pensatore che si è
costruito una casa ai margini della strada per riposarvi, dove né lui né noi
dobbiamo fermarci”. Camminare con Kant e oltre Kant significa capire il suo
insegnamento morale e religioso, che libera l’uomo dal fanatismo, dalla tirannia
e dalla superstizione. Se solo riuscissimo a fare nostra la frase presente nel
Conflitto delle Facoltà che sentenzia “nella religione, tutto dipende dal
13
comportamento”, forse ci renderemmo veramente religiosi, uomini graditi a Dio,
ma soprattutto, a noi stessi.
14