3
3
“regolato” dalle istituzioni; considererò poi la peculiare socialità che è possibile
esperire nei CSA, e che rappresenta l’attrattiva principale di questi luoghi per un
vasto numero di frequentatori; analizzerò infine le possibili valenze di tale
socialità rispetto all’avanzare di forme di asocialità, tipiche, a mio parere, del
post-fordismo: sarà possibile, partendo dalla riscoperta della centralità delle
relazioni umane, attivare reticoli di resistenza al propagarsi dell’equazione tra
società e mercato? E i Centri Sociali possono avere un ruolo propositivo in
questo eventuale processo?
A questi interrogativi non fornirò una risposta precisa (impossibile, sulla base
dei pochi dati disponibili, e vista la complessità della fase di passaggio che
stiamo vivendo), ma piuttosto li utilizzerò per cercare, in particolare nel caso
concreto analizzato (un CSA milanese), quei segni che possono lasciare
intravvedere una possibile linea di tendenza, un plausibile percorso di sviluppo.
Nella ricerca non è mancata poi, da parte mia, una discreta dose di ottimismo:
dove i segnali erano particolarmente incerti, ho scelto di “scommettere” sulle
potenzialità positive del fenomeno, invece che astenermi da ogni previsione.
Non potendo, per la più volte citata carenza di informazioni, estendere l’analisi
dei CSA a livello nazionale, ho ristretto il campo (dopo la panoramica iniziale)
alla città di Milano (Capitolo 3): sui Centri della metropoli lombarda erano
infatti disponibili alcuni dati, provenienti innanzitutto dalla già citata indagine
dell’AASTER sui frequentatori di alcune realtà autogestite, ma anche dall’
“archivio storico” della libreria Calusca, dal quale era possibile ricavare notizie
importanti sulla storia dei CSA milanesi.
Dopo aver considerato il dibattito (nazionale e locale) tra i Centri, circa
l’opportunità o meno di trasformarsi in imprese sociali (Capitolo 4), ho avanzato
tre ipotesi sul futuro dell’autogestione (Capitolo 5), così sintetizzabili:
1) ritorno alla marginalità;
2) integrazione nel settore non-profit;
3) partecipazione alla creazione di reti socio-economiche alternative all società-
mercato.
Le tre ipotesi tengono tutte conto del fondamentale presupposto costituito dalla
crescente differenziazione in atto tra attivisti (cioè gestori) e frequentatori
(ovvero semplici fruitori) dei CSA; tale processo, assolutamente recente, pone
chi gestisce direttamente i Centri di fronte alla necessità di riconsiderare il ruolo
degli stessi, alla luce dei mutamenti verificatesi nel proprio ambiente di
riferimento.
Al fine di cercare empiricamente i segni di una, o più, di queste ipotesi in un
caso concreto, ho focalizzato la mia attenzione sul CSA Cox 18 di Milano, che è
uno dei due Centri (insieme al più conosciuto Leoncavallo) su cui era stata
condotta l’indagine dell’AASTER; dopo aver considerato (Capitolo 6) i dati
dell’AASTER in generale (che riguardano 1395 soggetti, intervistati nei due
Centri suddetti, ma che risultano frequentatori anche di altri CSA), mi sono
4
4
soffermato su quelli relativi a Cox 18 (Capitolo 7), tracciando inoltre una breve
storia di questo Centro Sociale.
La parte strettamente empirica della mia ricerca è consistita in una indagine sugli
attivisti del CSA scelto (che non erano stati considerati dall’inchiesta
dell’AASTER), condotta tramite questionari, interviste e alcune limitate
osservazioni sul campo. Una volta esposti alcuni strumenti di network analysis
(Capitolo 8), che ho ritenuto utili per affrontare il lavoro, ho trattato i dati
raccolti sugli attivisti, confrontandoli, ove possibile, con quelli emersi
relativamente ai frequentatori (Capitoli 9-10-11): attraverso l’analisi
complessiva di questi dati, ho infine operato un raffronto tra le tre ipotesi sopra
esposte e il caso concreto individuato, proponendo di considerare il probabile
percorso di Cox 18 (a mio avviso interpretabile, anche se con molte incertezze,
secondo l’ipotesi 3) come una linea di tendenza, relativamente ad una parte
almeno dell’universo dei Centri Sociali Autogestiti (Capitolo 12).
In conclusione, ritengo che solo una vasta ricerca sul campo, effettuata su
diversi CSA della penisola (e durante un certo arco di tempo), potrebbe rendere
giustizia alla complessità del fenomeno, ed eventualmente fornire maggiori
elementi a sostegno di un percorso che si intreccia strettamente alle più vaste
trasformazioni sociali in atto.
7
7
CAPITOLO 1
CENTRO SOCIALE AUTOGESTITO:
UN SOGGETTO DA DEFINIRE
1.1 Premessa
I Centri Sociali Autogestiti in Italia sono più di cento
2
, diffusi in varie zone della
penisola, nati recentemente oppure esistenti da molti anni, attivi in svariati modi
e con visioni tra loro anche assai diverse sulla progettualità e sulla funzione del
proprio agire sociale.
Se esiste un Movimento dei Centri Sociali (ipotesi che avanzerò nel prossimo
Capitolo di questo lavoro), certamente non è omogeneo, ma anzi è, per così dire,
“interpretato” in modo particolare dalle varie realtà che lo compongono, le quali
spesso, come vedremo, sono tra loro debolmente interconnesse, quando non
addirittura isolate. Eppure, a mio avviso, sono riscontrabili alcuni importanti
elementi comuni, che individuano, al di là delle differenze da caso a caso, un
tipo ideale, in senso weberiano, di CSA, al quale si avvicinano, secondo varie
gradazioni, la maggior parte delle esperienze di autogestione presenti nel nostro
Paese; introdurrò dunque innanzitutto tali elementi di similitudine, per poi
proporre un tentativo di definizione del soggetto di questo lavoro.
1.2 Alcuni elementi alla base del fenomeno-CSA
In seguito ad una purtroppo sommaria analisi, su scala nazionale, del fenomeno
considerato (la cui incompletezza è dovuta alla scarsità di materiale disponibile e
alla impossibilità, relativamente ai tempi e alle risorse necessari, di effettuare, in
un lavoro come questo, l’osservazione diretta rispetto ad una quota significativa
dei CSA italiani), ho individuato otto elementi che, a mio parere, caratterizzano
il tipo ideale di Centro Sociale Autogestito; tali elementi sono a loro volta
oggetto di una interpretazione peculiare da parte degli attivisti dei CSA,
assumendo spesso il carattere di simboli, relativi ad un orientamento anti-
sistemico, comune alla gran parte dei Centri. Si verifica cioè un processo di
attribuzione di senso, frutto delle interazioni collettive, che carica di valenze
2
Secondo l’unico “censimento” finora effettuato (S. Dazieri, Italia overground, Castelvecchi, Roma, 1996), i
CSA erano, nel 1995-96, 112; tale numero, già allora approssimativo per difetto, è ora sicuramente cresciuto:
purtroppo non sono però disponibili al momento dati più precisi.
8
8
simboliche tali elementi, rendendo il CSA, e le pratiche in esso svolte, densi di
rimandi a significati più vasti e generali, di segno appunto antagonistico.
Considererò dunque innanzitutto sinteticamente questi elementi, per poi trattarli
singolarmente, prima nel loro aspetto strutturale, e poi in quello di natura
simbolica, ovvero secondo il significato ad essi attribuito dai CSA stessi. In
estrema sintesi:
1) la popolazione interessata dal fenomeno in questione è prevalentemente
giovanile (approssimativamente di età compresa tra i 16-18 anni e i 25-30 anni)
e appare variegata riguardo alle caratteristiche sociali, culturali ed economiche:
tuttavia di delinea (sulla base dei dati disponibili) una emergente
differenziazione tra attivisti e frequentatori del CSA;
2) i luoghi dove il CSA si insedia sono normalmente urbani e post-industriali;
3) il possesso dello spazio autogestito è stabilito, quasi sempre, attraverso
l’occupazione abusiva dello stesso;
4) il rapporto con le istituzioni (specialmente con quelle politico-economiche) è
prevalentemente di tipo conflittuale, oppure è inesistente;
5) la produzione/fruizione, orientata in senso anti-sistemico, di un particolare
bene relazionale, cioè della socialità, è l’aspetto fondamentale che informa
l’attività del CSA;
6) l’organizzazione dello spazio e delle attività in esso svolte si basa sulla
modalità dell’autogestione;
7) l’auto-definizione del CSA come tale da parte dei soggetti che lo gestiscono è
quasi ovunque riscontrabile;
8) è presente, tra gli appartenenti al CSA, una simbologia comune, a sua volta
relazionata ad una controcultura più vasta, che eccede l’ambito dei Centri stessi.
1.2.1 Gli elementi strutturali
Consideriamo dunque, presi singolarmente, i vari elementi sopra evidenziati,
focalizzando l’attenzione sulla loro natura strutturale, al di là del significato ad
essi attribuito dagli attori del CSA.
1) Innanzitutto il Centro Sociale Autogestito si caratterizza come un fenomeno
riguardante prevalentemente la popolazione giovanile (stando ai dati esistenti):
ferme restando differenze anche significative tra i Centri, rispetto alla presenza
di una quota, comunque di norma minoritaria, di soggetti over 30, l’attivismo e
la frequentazione dei CSA appaiono decisamente di carattere generazionale.
Come spiegherò nel corso di questo lavoro, emerge però una crescente
divaricazione tra semplici frequentatori e attivisti del Centro Sociale (che, nel
9
9
caso concreto da me analizzato, ovvero il CSA Cox 18, si traduce anche in
significative differenze di età e di posizione socio-economica).
2) A differenza di altri movimenti giovanili, quello dei CSA si caratterizza per
un peculiare rapporto con il territorio: lo spazio, per il Centro Sociale, è la
precondizione indispensabile per esistere e per agire; il luogo fisico diventa
dunque l’infrastruttura portante di quella particolare forma di socializzazione,
sperimentata nei Centri, che viene definita autogestione. In mancanza di spazio,
il CSA cessa di esistere, non essendo una forma di interazione e di azione
sociale esportabile in un bar o ai giardini pubblici; socializzare e agire dentro,
attraverso e a partire dal luogo fisico, appare come una finalità irrinunciabile,
che costituisce l’essenza stessa del CSA.
Per quanto riguarda la tipologia dello spazio occupato, e della zona in cui è
collocato, prevalgono nettamente l’urbanità e la post-industrialità: i Centri
Sociali sono un fenomeno tipico delle città (lo vedremo nel Capitolo 2), a volte
anche di piccole dimensioni, ma assai raramente si diffondono nella vasta
provincia italiana, nei paesi, anche grossi, che la compongono (sono presenti
tuttavia alcune significative eccezioni, come le cascine occupate); i luoghi in cui
i Centri si insediano sono poi, di norma, le cosiddette aree dismesse, ovvero
quegli stabili (spesso interi complessi) abbandonati dalla proprietà, privata o
pubblica, in attesa di futuri recuperi redditizi, attesa che può durare decenni. La
destinazione d’uso precedente di questi immobili, legata di norma ad attività
produttive industriali (fabbriche e magazzini), o a servizi pubblici (soprattutto
scuole e asili), consente, a mio avviso, di catalogarli come luoghi post-
industriali, cioè nati in una precedente epoca, in cui l’industrializzazione e lo
sviluppo dello Stato Sociale necessitavano di grandi spazi urbani: in questo
senso, allora, i CSA sono dei “riciclatori” di spazio, degli innovatori, che
impiantano nuove funzioni sociali in luoghi che avevano tutt’altra destinazione
originaria. Naturalmente altri attori, soprattutto economici, avranno differenti
progetti riguardo alla trasformazione di tali aree, ed è per questo motivo che
proseguono gli sgomberi forzosi ai danni dei Centri Sociali: considererò questo
aspetto nel Capitolo 5; per ora vorrei evidenziare che il CSA, per nascere, ha
bisogno assolutamente di un luogo fisico, e che tali luoghi sono offerti in gran
numero dalle città italiane, specialmente dalle metropoli come Roma o Milano:
il Centro Sociale nasce, dunque, perché è presente un ambiente ad esso
favorevole, costituito appunto da questi “buchi” nel tessuto urbano, territori
vuoti che vengono così riempiti.
3) L’occupazione di questi spazi è quasi sempre di carattere abusivo (almeno in
principio), e dunque illegale, ma tale illegalità non ha la propria origine
unicamente negli orientamenti anti-sistemici di chi la pratica, bensì è anche la
logica conseguenza della indisponibilità “legale” di spazi non istituzionali per la
10
10
socializzazione giovanile, a fronte di una disponibilità “materiale” degli stessi,
inutilizzati e abbandonati alla rovina dai legittimi proprietari.
4) La conseguenza di questa illegalità è un atteggiamento del CSA verso le
istituzioni (specialmente quelle politico-economiche) di tipo prevalentemente
conflittuale, o comunque non-comunicativo (con eccezioni significative, che più
avanti tratterò): tale orientamento, se è in parte frutto di una più generale visione
antagonistica rispetto al paradigma dominante, trae certo maggior convinzione
dalla politica repressiva nei confronti dei CSA, spesso attuata dalle
amministrazioni locali, di norma sollecitate ad intervenire da parte di attori
economici, contrari all’uso sociale delle aree dismesse.
5) L’ “uso sociale” dello spazio attuato dal CSA si può ricondurre, a mio avviso,
alla produzione/fruizione, orientata, almeno simbolicamente, in senso anti-
sistemico, di un fondamentale “bene relazionale”: la socialità.
Secondo la definizione datane da P. Donati, è un bene relazionale quel
particolare “bene che può essere prodotto soltanto assieme, non è escludibile per
nessuno che ne faccia parte, non è frazionabile e neppure è concepibile come
somma di beni individuali” [P. Donati, 1991]
3
. Si tratta dunque di un bene non
competitivo secondo giochi a somma zero, la cui produzione sarebbe tipica,
sempre secondo Donati, dell’associazionismo del Terzo Settore.
Con il termine socialità intendo qualche cosa di differente dalla più “neutra”
sociabilità, che risulta invece essere la “disposizione generica a stabilire
relazioni sociali” o la somma delle “molteplici manifestazioni concrete di tale
disposizione”, secondo la definizione fornitane da L. Gallino
4
.
Per “socialità” propongo dunque la seguente definizione: disponibilità
reciproca, riprodotta continuamente attraverso la sua concreta attuazione, a
stabilire tra gli individui relazioni sociali di tipo associativo e solidale, fondate
sulla gratuità, sull’espressività e sull’autorealizzazione personale di chi le mette
in atto. Si tratta dunque di uno “stare insieme” in cui la dimensione relazionale
prevale sulle finalità estrinseche dell’aggregazione, che diventano piuttosto
strumenti e supporti della socializzazione stessa: la socialità, a mio avviso, prima
ancora che un concreto intrecciarsi di relazioni sociali, è un “clima emotivo”,
che è possibile percepire immediatamente in alcune collettività, debolmente in
altre, fino ad avvertirne la totale assenza, ad esempio, nei “non-luoghi” dello
spaesamento metropolitano.
La socialità così concepita è, a mio parere, un tipico bene relazionale, poiché
può essere prodotta solo assieme, tramite la reciproca disponibilità alla relazione
di tipo associativo e solidale, e può essere fruita parimenti solo assieme, nella
estrinsecazione concreta di tale disponibilità; non è possibile accaparrarsi una
3
Per un approfondimento dell’argomento, si veda: P. Donati, Teoria relazionale della società, F. Angeli,
Milano, 1991.
4
L. Gallino, Dizionario di Sociologia, Utet, Torino, 1993.
11
11
quota di socialità, come non è possibile fare ciò con gli altri beni relazionali
(quali l’ambiente pulito o la pace): la socialità non è frazionabile né concepibile
come somma di beni individuali, né tanto meno è un bene competitivo secondo
giochi a somma zero.
Alla base della socialità vi sono, secondo me, la gratuità (ovvero la disponibilità
a donare qualcosa di sé, in modo non strumentale), l’espressività (cioè una
manifestazione più completa e “libera” del sé, rispetto a quanto avviene nelle
interazioni di tipo strumentale) e l’autorealizzazione (ovvero la realizzazione e
l’arricchimento di sé nella relazione).
In una società dove l’incontro e la relazione sono sempre più finalizzati a scopi
precisi e settoriali, e dove la dimensione economica ed utilitaristica pervade in
modo crescente le interazioni personali, la socialità costituisce, a mio avviso, un
bene relazionale di fondamentale importanza: essa è infatti la precondizione
della produzione/fruizione di tutta una serie di altri beni relazionali, in quanto
produce e riproduce quel senso di appartenenza e quel sentire comune che danno
luogo alla solidarietà sociale, cioè a quella forma di integrazione non puramente
funzionale, bensì fondata sul valore attribuito alla relazione in quanto tale.
Naturalmente la socialità, alla quale riconosco di attribuire una valutazione
positiva, non è un bene prodotto unicamente dai CSA: essa è certamente tipica
del Terzo Settore, come di altri ambiti sociali ( ad esempio, a livello primario,
della famiglia); a mio avviso, però, la particolare “cornice simbolica” offerta dai
Centri Sociali, legata a sua volta ad un universo controculturale che eccede
queste realtà, unitamente a peculiari pratiche sociali quotidiane (in primis,
l’autogestione) informa di senso la socialità in essi prodotta e fruita, rendendola
peculiare rispetto ad altre forme della stessa. Considererò questa ipotesi al
momento di concludere il presente lavoro, quando esporrò la mia personale
posizione circa l’originalità e il futuro dell’esperienza dei CSA.
Per il momento vorrei sottolineare che, concretamente, tale socialità si esprime e
si riproduce tramite micro e macro-eventi (quotidiani, periodici od occasionali)
che coinvolgono la popolazione del CSA (composta, come vedremo, da attivisti
e da frequentatori); si tratta di una serie di interazioni che riguardano i singoli
individui oppure i gruppi, e che riproducono, via via innovandola, la rete delle
relazioni che sostanzia il Centro stesso.
Concerti, dibattiti, produzione editoriale e musicale, laboratori teatrali, iniziative
politiche, gestione/fruizione di servizi a basso costo, possibilità lavorative
cooperative, ma anche “semplice” aggregazione da “intrattenimento”: sono tutte
manifestazioni concrete della produzione/fruizione, nel CSA e nella rete in cui
esso è inserito, di questo particolare bene relazionale, la socialità, che è tale in
quanto dipende dalle relazioni messe in atto dai soggetti l’uno verso l’altro, e
che può essere fruito solo se essi si orientano di conseguenza. Anche l’attività
politica in senso stretto riguardante i Centri (manifestazioni, cortei, iniziative di
solidarietà..) può essere interpretata, in un’ottica relazionale, come
produzione/fruizione di socialità, soprattutto quando, più che il conseguimento
12
12
effettivo di determinati obiettivi particolari, sembra prevalere la dimensione
dello “stare insieme”, del comunicare, del cercare insieme un senso comune.
Come vedremo, però, la “solidarietà sociale”, che necessita di socialità per
attecchire e per svilupparsi, può non essere ugualmente presente tra i semplici
frequentatori dei CSA, così come invece lo è, a mio avviso , tra gli attivisti degli
stessi: è possibile cioè che la produzione/fruizione di socialità da parte dei
frequentatori (specie di quelli occasionali) sia limitata al particolare contesto
spazio-temporale in cui avviene, senza comportare forme di identificazione e di
appartenenza forti rispetto al CSA, dalle quali deriverebbe invece la solidarietà
sociale. Anche questa ipotesi, che peraltro riemergerà più volte nel presente
lavoro, sarà da me considerata nella conclusioni del medesimo.
6) Ora intendo invece evidenziare la modalità organizzativa concreta attraverso
la quale avviene la gestione del CSA, e dunque anche e soprattutto la
produzione/fruizione del bene relazionale della socialità: tale modalità è
l’autogestione. A mio parere essa si concretizza, al di là delle valenze simboliche
attribuitele da chi la pratica, in: (a) assenza della delega; (b) orizzontalità della
struttura organizzativa (che risulta di tipo reticolare, con attori più o meno
centrali, densità relazionale variabile, informalità dei rapporti, rifiuto delle
gerarchie...); (c) assemblearismo (cioè la riunione periodica di tutti gli attivisti,
che discutono e decidono circa le questioni più rilevanti e generali); (d)
autonomia dei vari micro-gruppi, spesso presenti nel CSA, che gestiscono in
proprio svariati settori di attività del Centro (ad es. editoriali o musicali).
Ritengo che l’autogestione così intesa rappresenti una modalità organizzativa
tipica dei movimenti sociali, nella definizione che Gerlach [Gerlach, 1970,
1971] fornisce di questi ultimi, cioè di attori sociali dalla struttura policefala,
segmentata e reticolare: manca infatti nel CSA una leadership unitaria (dunque
risulta policefalo), i vari micro-gruppi godono di una notevole autonomia
(segmentazione) e le relazioni tra i soggetti e tra i gruppi sono personali e di
natura informale (reticolarità). A sua volta, l’intera “area di movimento”
5
dei
Centri Sociali è, a mio parere, caratterizzata da questo tipo di rapporti: tratterò
dunque l’argomento nei prossimi capitoli (in particolare nel Capitolo 2).
Vorrei invece evidenziare qui che la particolare attribuzione di significato,
conferita all’autogestione dai soggetti che la praticano nel CSA, unitamente agli
ambiti in cui essa viene da questi applicata, rende tale modalità organizzativa, di
per sé non esclusiva dei Centri Sociali, un vero e proprio simbolo di questi
ultimi, un elemento di identificazione che si rispecchia nell’auto-definizione,
ovunque presente, di “Centro Sociale Autogestito”, data al luogo occupato da
chi lo gestisce.
7) L’auto-definizione di CSA (e spesso di CSOA, dove la “O” sta per Occupato)
è dunque una “etichetta” tramite la quale questo soggetto collettivo si presenta e
5
Specificherò nel Capitolo 2 che cosa A. Melucci intende con il termine “area di movimento”.
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13
fornisce una sintetica definizione di sé, di ciò che fa e di ciò che vuole
rappresentare. Semanticamente questa definizione contiene, a mio avviso, le tre
caratteristiche fondamentali del CSA, ovvero la territorialità (il sostantivo
“Centro” rimanda ad un luogo fisico di riferimento, cioè lo spazio occupato, che
è un nodo territoriale per relazioni altrimenti improbabili), la socialità
(l’aggettivo “Sociale” richiama la funzione primaria di questo luogo, ovvero la
produzione/fruizione di beni relazionali, sulla base di un reciproco orientamento
di tipo solidale) e l’orizzontalità organizzativa informale (il participio
“Autogestito” evidenzia appunto questo tipo di organizzazione). Quando l’auto-
definizione comprende anche il termine “Occupato”, viene sottolineato un altro
importante aspetto, ovvero la presa di possesso illegale dello spazio necessario
al CSA per esistere.
8) Infine il singolo Centro, così come l’area di movimento complessiva dei
CSA, utilizza come fattore aggregante, in un processo di intersezione e di
contaminazione con i propri simboli, numerosi elementi provenienti da una
controcultura che eccede l’ambito dei CSA: una controcultura che è a sua volta
interna e contrapposta alla cultura “ufficiale”, con le contraddizioni che derivano
da tale collocazione.
Questo ambito culturale, spesso definito con il termine di underground
6
,
(termine peraltro molto generico, che si può applicare ad una serie di sub-culture
per nulla anti-sistemiche) può essere considerato una particolare nicchia di
mercato, oppure l’humus dal quale si svilupperanno nuove rivoluzioni: in ogni
caso, si tratta di una modalità, prevalentemente giovanile, di produrre e di fruire
musica, arte, informatica, letteratura, informazione, costume, stili di vita. Quella
a cui fanno di solito riferimento i CSA è una delle molteplici culture minoritarie
diffuse tra i giovani: una cultura dai confini mobili e non definiti, e dalle
manifestazioni più varie. Non mi riferisco qui all’orientamento politico (quando
sia esplicito) espresso da un Centro o da un altro: su questo tema, come
vedremo, le discordanze non sono di poco conto; mi riferisco piuttosto a quel
variegato campo culturale (che non è possibile nemmeno riassumere, in un
lavoro come questo) caratterizzato da alcune principali linee-guida rispetto ai
contenuti comunicati, e anche alle modalità con le quali avviene la
comunicazione. Tali linee ritengo che si possano drasticamente sintetizzare in:
(a) il rifiuto della società-mercato; (b) la proposta di stili di vita “alternativi”; (c)
la ricerca di una auto-realizzazione dal punto di vista umano; (d) l’enfasi posta
sui rapporti personali non strumentali; (e) la ricerca di nuove utopie sociali; (f) il
tentativo di costruire “comunità di senso”; (g) il rifiuto di qualsiasi ideologia; e,
non da ultimo, (h) il ruolo di primo piano conferito proprio alla cultura in un
percorso di liberazione, individuale e collettivo.
6
S. Dazieri utilizza a proposito il termine overground, con ciò intendendo un ambito socio-culturale che, pur
viaggiando nel medesimo flusso informativo della rete globale, si è ritagliato un proprio spazio di agibilità e di
visibilità, nel segno dell’innovazione (Italia overground: mappe e reti della cultura alternativa, Castelvecchi,
Roma, 1996).
14
14
Questi sono, a mio avviso, i cardini su cui si muove, in modo decisamente
fluido, un’area culturale estranea perlopiù alla comunicazione di massa, e che,
pur essendo per dichiarazione anti-sistemica, trae il proprio “alimento
informativo” dalla stessa società-mercato, nel tentativo poi di stravolgerne e
innovarne il senso.
Solo per focalizzare alcuni tra gli attori di questo campo controculturale, si pensi
alle “posse” (i gruppi musicali rap, reggae, ecc., caratterizzati per il contenuto
ad alta critica sociale delle proprie canzoni), ai laboratori di sperimentazione
teatrale, agli scrittori cyberpunk, ai teorici dell’insurrezione temporanea, ma
anche ai classici (spesso rivisitati) dell’anarchismo, ai propugnatori del “black
power”, ai difensori del consumo libero di droghe leggere, ai “seguaci
telematici” del sub-comandante Marcos, agli artisti dei graffiti metropolitani:
una miriade di espressioni culturali, accomunate, a mio parere, dalle linee-guida
che ho sopra indicato e, perciò, paragonabili ad una rete informativa che si auto-
riproduce, mutando nel tempo, sulla base della comunicazione globale.
Il risultato, sempre precario, di tale processo risulta perennemente in bilico tra la
“marmellata culturale” e il sincretismo critico, tra l’integrazione funzionale al
mercato e l’innovazione liberatrice, in sintonia con quanto accade in generale
rispetto ad ogni “addensamento” della rete globale, costituita dalla cultura
contemporanea. E in questo processo si inserisce, interagendo attivamente, il
Centro Sociale, che è, a sua volta, un produttore/fruitore di cultura “alternativa”,
e spesso un terreno fertile per gli emergenti attori dell’area controculturale (la
maggior parte delle “posse”, ad esempio, sono nate nei CSA).
Lo sviluppo di forme di identità collettiva all’interno dei CSA appare allora il
frutto della relazione tra l’appartenenza al Centro (legata a particolari
simbologie e alla peculiare socialità in esso sperimentata) e la
fruizione/produzione dei sopra citati fenomeni controculturali che eccedono il
CSA stesso.
1.2.2 Il significato simbolico
Gli otto elementi sopra considerati, che costituiscono la base, secondo la mia
interpretazione, del fenomeno-CSA, sono a loro volta interpretati dai Centri
stessi: è presente cioè un processo di attribuzione di significato, ad opera di
questi attori, che li trasforma in simboli e in fattori di identificazione;
riconsideriamoli allora da questo punto di vista:
1) la giovane età della popolazione considerata non assume particolari valenze
simboliche nell’ambito del CSA (sebbene abbia delle evidenti conseguenze
pratiche), che tende piuttosto a rappresentarsi come un attore sociale intra-
generazionale (almeno nelle aspirazioni), senza enfatizzare, come altri
15
15
movimenti hanno fatto, l’importanza dell’essere giovani, come condizione per
seguire determinati percorsi socio-culturali e politici.
Il fenomeno invece della emergente divaricazione tra attivisti e semplici
frequentatori del Centro, al quale si intreccia la crescente differenziazione socio-
culturale ed economica relativa soprattutto ai secondi, assume valenze
simboliche duplici: da alcuni è visto come il simbolo dell’uscita dei CSA dal
ghetto e della loro contaminazione propositiva nei confronti della società più
vasta; da altri è considerato invece il simbolo di un declino dell’autogestione,
dovuto proprio all’aumentare dei soggetti che fruiscono del Centro, senza
partecipare alla sua gestione quotidiana. Su questo tema il dibattito tra i centri
Sociali è aperto, e denso di polemiche, come si vedrà nel Capitolo 4 del presente
lavoro.
2) Il luogo nel quale il CSA si insedia riveste un elevato valore simbolico: si
tratta, come ho sopra accennato, di spazi, quasi sempre urbani, che erano
originariamente utilizzati dalla città industriale per finalità produttive (ex
fabbriche, ex magazzini..) ma anche per scopi di tipo socio-assistenziale (ex
scuole, ex edifici pubblici..) o abitativo (vecchie case dei quartieri ex popolari)
legati ad un assetto urbano molto differente da quello attuale. Il ridisegnarsi
della città secondo direttrici post-industriali (che comporta l’intreccio di processi
di migrazione delle popolazioni, di ridislocazione territoriale delle attività
produttive e di riprogettazione complessiva dello spazio, in funzione delle
emergenti esigenze del mercato) ha disseminato il territorio urbano (e soprattutto
quello metropolitano) di zone morte, veri e propri buchi neri, che sono in attesa
di essere riutilizzati in modo redditizio e funzionale all’assetto economico oggi
prevalente.
La presa di possesso di tali spazi è vissuta, nell’immaginario collettivo dei CSA,
come una liberazione ad uso sociale di porzioni di territorio; la conquista di un
edificio (temporaneamente) abbandonato si configura dunque come un atto
denso di valenze simboliche: significa la presa dello spazio, ma anche del tempo
vitale, negati dalla città-mercato, ovvero la costituzione di una zona franca (di
una T.A.Z., direbbe Hakim Bey
7
) all’interno di un territorio caratterizzato da
molteplici espressioni di anti-socialità. Il fatto poi che tale spazio sia in questo
modo sottratto agli usi speculativi a cui sarebbe destinato, fa sì che gli venga
attribuito un ulteriore significato simbolico, che è quello di baluardo e di base di
partenza contro l’avanzata della città-mercato. E’ evidente inoltre che tali
significati possono assumere una valenza politica, se questo “fare comunità” in
un luogo viene ritenuto il primo passo di un più generale processo di liberazione.
7
Le T.A.Z., secondo la definizione datane da H. Bey (T.A.Z., Ed.Shake, Milano,1993), sono le Zone
Temporaneamente Autonome: sono cioè porzioni di spazio e di tempo, liberate tramite azioni insurrezionali e
sovversive, nelle quali si esercita, temporaneamente, il controllo di una comunità anti-sistemica.
16
16
3) Come accennavo più sopra, la presa di possesso dello spazio autogestito
avviene quasi sempre attraverso l’occupazione abusiva dello stesso: se tale fatto
è dovuto in buona misura all’indisponibilità di luoghi urbani dove sia consentito
sperimentare legalmente, e gratuitamente, forme di socializzazione non
istituzionalizzate e non controllate burocraticamente, è altrettanto vero che
l’occupazione riveste un elevato valore simbolico, divenendo di per sé un fattore
aggregativo. Essa si configura come una ribellione nei confronti delle regole
della città-mercato (in primis contro la regola ferrea che tutela la proprietà
privata), come un atto di rottura forte, che comporta dei rischi per chi lo compie
(denunce, sgomberi, botte..) e che costituisce pertanto uno degli elementi che
legano gli uni agli altri gli attivisti del CSA. Per tale motivo la
“regolarizzazione” affrontata da alcuni Centri (tra cui il Leoncavallo), tramite,
ad esempio, accordi con la proprietà per l’uso gratuito degli immobili, è spesso
temuta per le sue implicazioni integrative: il fattore-occupazione riveste infatti
una notevole importanza nel definire il CSA rispetto al più vasto settore
dell’associazionismo solidale.
4) Strettamente legato all’occupazione abusiva dello spazio risulta poi
l’atteggiamento anti-, o extra-, istituzionale, manifestato dalla maggioranza dei
Centri Sociali: le istituzioni, specialmente quelle politico-economiche, sono
infatti la principale controparte (e spesso un vero avversario) nella perenne
contesa sull’uso del territorio. Manifestare ostilità (o anche totale estraneità) nei
confronti di tali attori è allora non solo la logica conseguenza dell’agire illegale
dei Centri, bensì anche un modo di rimarcare le differenze tra il CSA e i suoi
“nemici”: si tratta cioè, ancora una volta, di un fattore di identificazione
collettiva. Ma l’anti-istituzionalità non vale solo nei confronti dell’esterno: essa
vige anche dentro il CSA, come rifiuto (almeno a livello teorico) di qualsiasi
struttura organizzativa rigida, ovvero istituzionalizzata.
Sul rapporto con le istituzioni, così come sulla eventuale istituzionalizzazione
dei CSA (legata alla loro possibile trasformazioni in imprese sociali), si è aperto
un dibattito tra i Centri, che considererò più oltre (in particolare nel Capitolo 4);
per il momento vorrei evidenziare che la collocazione anti-, o extra-,
istituzionale dei luoghi autogestiti (alla quale si accompagna il loro più generale
orientamento anti-, o extra-, sistemico), oltre a rappresentare un elemento di
coesione interna per gli stessi, esercita una notevole attrattiva nei confronti di
vaste fasce di popolazione giovanile, per le connotazioni simboliche che essa
riveste.
5) Alla produzione/fruizione di socialità, che a mio avviso rappresenta la
caratteristica principale dei Centri Sociali, viene attribuito sicuramente un
significato molto ampio e variegato; al di là del dibattito riguardante le valenze
(o le potenzialità) anti-sistemiche di tale socialità, è innegabile che essa sia
attualmente uno dei simboli più forti dei CSA: l’incontro e la relazione
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all’interno dei Centri sono infatti considerati di per sé positivi, come espressione
di una socializzazione fuori dalle regole della società-mercato e, pertanto,
maggiormente libera e creativa.
La socialità dei CSA è rappresentata come “altra” rispetto a forme similari
(quali, ad esempio, quelle relative all’associazionismo), perché in qualche modo
“intrisa” dell’alterità di cui il Centro è portatore: lo “stare insieme” nel CSA
(cioè in una particolare cornice simbolica) assume già, al di là delle sue
eventuali finalità, la valenza simbolica di una rottura manifesta delle regole
vigenti nella società-mercato, di quelle regole che prevedono spazi e modalità
definiti e controllati (oltre che a pagamento) per l’incontro e per la relazione tra
gli individui.
Per fare un esempio, il consumo, solitamente di gruppo, delle cosiddette “droghe
leggere” (hashish e marijuana) è uno dei molteplici aspetti della socialità tipica
dei CSA: il valore liberatorio e socializzante conferito a tale pratica (che diventa
quindi anche un simbolo di una differente concezione della vita) “trasferisce”
alle relazioni che si instaurano intorno ad esso una valenza a sua volta simbolica,
rendendole dense di rimandi ad una più generale “alterità” negli stili di vita.
Questo, come altri rituali dell’interazione presenti nel CSA
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(tra i quali i
concerti), fa sì che la socialità sperimentata in questi luoghi produca qualche
forma di appartenenza (magari solo momentanea) e che sia dunque interpretata
in modo peculiare.
6) L’autogestione, che abbiamo visto essere una modalità organizzativa non
esclusiva del CSA, assume però in questo luogo un significato del tutto
particolare: essa è il simbolo di quella autodeterminazione, individuale e di
gruppo, che viene considerata impossibile nella società-mercato.
Nell’immaginario collettivo del CSA, autogestione è sinonimo quindi di
liberazione, di autonomia, di delimitazione di un territorio, fisico ma anche
mentale, sottratto a logiche sociali sentite come alienanti.
L’autogestione è considerata anche l’emblema dell’orizzontalità del CSA,
dell’assenza di gerarchie: in questo senso è anti-istituzionale.
Non vi è dubbio che, al di là delle sue effettive e concrete applicazioni,
l’autogestione rappresenti un elemento di identificazione collettiva di primaria
importanza: non è un caso che i centri sociali pubblici (i centri territoriali, i
centri di quartiere e i vari altri tentativi di attivare “dall’alto” il territorio urbano)
non abbiano incontrato il favore di quanti trovano invece nel CSA (spazio
autogestito) la possibilità, almeno a livello simbolico, di autodeterminarsi, fuori
dai controlli e dalle regole tipiche dei luoghi istituzionali.
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Relativamente ai rituali di interazione nei CSA, rimando ad una breve tesina, da me realizzata per il corso di
Storia del pensiero sociologico, tenuto dal Prof. M. Dossoni, alla Facoltà di Scienze Politiche di Pavia, nel
secondo semestre del 1996. In quell’occasione ho applicato il modello durkheimiano ad una sintetica analisi di
due rituali di interazione, a mio avviso riscontrabili nei CSA, ovvero il consumo di “droghe leggere” e la
partecipazione ai concerti.
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7) L’importanza del significato attribuito all’autogestione compare in primo
luogo proprio nella definizione che di sé danno i Centri Sociali Autogestiti: il
termine “Centro Sociale” rimanda ad esperienze di aggregazione territoriale
degli anni passati, cioè a quei tentativi, frequenti soprattutto negli anni ‘70 e
incentivati dalle amministrazioni locali, di infrastrutturare a livello sociale le
città e i quartieri, sempre più poveri di socialità e di partecipazione civica. E’
invece il participio “Autogestito” che costituisce la differenza, a partire appunto
dalla definizione, tra il CSA e quelle esperienze passate (o ancora esistenti, ma
in crisi): chiamare uno spazio occupato, che a volte è poco più di un rudere,
“Centro Sociale Autogestito”, significa pertanto attribuirgli, partendo dal nome,
tutti quei significati di autonomia, di liberazione, di autodeterminazione, sopra
accennati; in questo senso, l’autodefinizione è un segnale ben preciso, una
dichiarazione di intenti e anche un simbolo che crea appartenenza e
identificazione collettive.
Inoltre, dare allo spazio occupato la qualifica di CSA significa entrare, a partire
proprio dal nome, in qualcosa di più vasto della singola esperienza locale: vuol
dire infatti collegare, almeno a livello simbolico, quello spazio ad una
molteplicità di altri spazi, sparsi per l’Italia, che a loro volta si sono chiamati
CSA. Per questo motivo ritengo (come spiegherò nel Capitolo 2) che si possa
parlare dell’esistenza di un’ ”area di movimento” dei Centri Sociali: se le
connessioni effettive tra questi attori sono ancora deboli, credo però che il
richiamo che ognuno di essi, singolarmente e autonomamente, fa ad un certo
universo simbolico, rappresenti di per sé un elemento di unificazione tra
esperienze localmente particolari.
8) Infine, quella vasta e variegata area controculturale che ho più sopra
tratteggiato, alla quale i CSA sono connessi su diversi livelli, costituisce a sua
volta un fattore di identificazione e contribuisce alla creazione di una simbologia
tipica dei Centri stessi: molti elementi relativi a tale ambito culturale vengono
infatti elaborati, quando non direttamente prodotti, nel CSA, diventando di per
sé simboli del medesimo. Un particolare fenomeno culturale (quale una posse o
un libro sul cyberpunk), che può nascere al di fuori del circuito dei CSA, viene
quindi da questi ultimi caricato di significati correlati alla realtà
dell’autogestione, diventando così parte di un composito universo di simboli,
rimandanti al Centro stesso.