4
INTRODUZIONE
I “centri di identificazione e espulsione” o, piø propriamente, di detenzione
1
amministrativa per stranieri in attesa di espulsione sono stati introdotti nel nostro
ordinamento con l’art. 12 della legge del 1998 n.40, come strumento atto a consentire
o facilitare le espulsioni amministrative. Le diverse leggi che negli anni hanno
modificato diversi aspetti di queste strutture omettono di definirne la natura e di
descriverne le caratteristiche; sono riportate solo indirettamente alcune indicazioni di
carattere generale, riguardanti la gestione e le modalità di trattenimento nei centri. La
scarsa visibilità e la mancanza di informazioni sui centri hanno contribuito a creare
confusione sulla loro funzione; spesso vengono scambiati per strutture di assistenza
per migranti appena giunti nel nostro paese, solitamente dopo una terribile traversata
su gommoni nel Mediterraneo, mentre in realtà rappresentano la scelta dell’Italia (e
di tutta l’Europa) di affidare il governo dell’irregolarità in via esclusiva allo
strumento dell’espulsione, di non concepire altri metodi di trattare il problema dei
migranti che arrivano nel territorio senza i documenti necessari, che li identifichino
come “regolari” e quindi appartenenti a quel circuito di legalità nel quale gli
“irregolari” non possono aspirare ad entrare
2
.
Le principali argomentazioni alla base dell’istituzione dei centri di detenzione
amministrativa in Italia alla fine degli anni ’90 erano sostanzialmente due:
l’intenzione di dimostrare un effettivo impegno nella lotta all’immigrazione
clandestina , e la necessità di accogliere le richieste dell’Unione Europea in relazione
agli accordi di Schengen.
1
La dicitura “detenzione” non vuole sottolineare una polemica nei confronti di tali istituzioni, bensì
rappresenta il termine piø corretto in relazione ad esse, utilizzato in tutta Europa.
2
Miraglia F., CPT: utili o inutili? In Studi sulla questione criminale n°1/2007, pag. 65
5
Questa seconda motivazione venne ricondotta da commentatori e politici alla
presunta permeabilità delle frontiere italiane, ragion per cui l’Italia faticherebbe a
entrare nell’Europa di Schengen; in realtà, la causa dell’esclusione dagli accordi era
da identificare nelle procedure previste nel nostro paese per il trattamento dei dati
personali, considerate non affidabili.
I fondamenti dell’esistenza dei CIE sono da ricercare anche nel discorso politico
culturale che si forma e si consolida ben prima dell’approvazione della legge Turco
Napolitano, istitutiva dei centri; centrale è la distinzione tra immigrati regolari e
irregolari e l’idea, non sostenuta da alcun dato o ricerca, che tra gli irregolari ci sia
una propensione maggiore alla criminalità. Da qui la pretesa che lo Stato si occupi di
questa categoria di stranieri considerata pericolosa, composta da potenziali criminali
e, a partire dall’11 settembre, anche da potenziali terroristi. Gli stessi centri di
detenzione amministrativa contribuiscono ad alimentare i luoghi comuni
sull’immigrazione, in particolare quelli riguardanti la sicurezza; molte infatti sono le
caratteristiche comuni alle carceri, luoghi in cui solitamente si rinchiudono i
criminali, anche se in questo caso gli “ospiti” di tali strutture non hanno commesso
alcun reato.
Il largo consenso dell’opinione pubblica sull’utilizzo dei centri è dovuto
all’utilizzo del tema della sicurezza, minacciata da quella che viene presentata come
un’emergenza: un carattere di eccezionalità accompagna costantemente le notizie
sugli sbarchi sulle coste italiane, nonostante i dati dimostrino il contrario.
Un’emergenza che non esiste, inventata allo scopo di giustificare provvedimenti di
massa, mancanze nel rispetto dei diritti umani e costituzionali, assenza di tutela dei
richiedenti asilo o dei minori; scompare infatti ogni possibilità di discernere, di
considerare ogni situazione, a favore di misure repressive e illiberali, incapaci di
garantire i diritti fondamentali degli stranieri. Inoltre, la creazione di tale emergenza
alimenta ulteriormente la visione negativa dell’immigrazione nell’immaginario
6
collettivo; la descrizione di questo fenomeno come potenzialmente rischioso porta
alla criminalizzazione dei migranti
3
.
I centri rappresentano uno strumento diffuso in tutta Europa in seguito
all’adozione di una politica migratoria comune in relazione agli accordi di Schengen
del 1995, dai quali nasce la concezione di “Fortezza Europa” , caratterizzata da una
chiusura nei confronti dei crescenti flussi migratori e dalla tolleranza zero per quanto
riguarda i migranti irregolari, esclusi in questo modo dai diritti universalmente
riconosciuti e vittime di una sempre piø alta discrezionalità delle forze di polizia,
dato che essi vengono considerati dalle autorità solo in funzione di una questione di
ordine pubblico.
Questo lavoro si propone di presentare la realtà dei centri di detenzione in Italia,
nella prima parte attraverso un’analisi delle principali leggi in materia di
immigrazione che hanno introdotto e disciplinato l’istituto del trattenimento in attesa
dell’espulsione, nella seconda attraverso uno studio delle questioni di legittimità in
relazione al diritto costituzionale, comunitario e internazionale, e alla tutela del
diritto d’asilo, mentre la terza parte è dedicata a una comparazione con i centri di
detenzione amministrativa presenti in alcuni paesi europei di particolare importanza
e con la Libia, strettamente legata all’Italia per quanto riguarda la gestione dei flussi
migratori.
3
Dal Lago A., Non persone, pag.26
7
PARTE PRIMA
I CENTRI DI IDENTIFICAZIONE E
ESPULSIONE
8
1. IL SECOLO DEI CAMPI
4
In Europa le minoranze nazionali cominciano a rappresentare un problema
politico in modo particolare dopo la prima guerra mondiale. In precedenza i flussi
migratori hanno rappresentato un carattere costante, strutturale dell’Europa fin dal
XVIII secolo, quando la prima rivoluzione industriale introdusse radicali
trasformazioni dell’assetto sociale ed economico: espansione industriale, fenomeni
demografici e urbanizzazione. Il massiccio aumento degli abitanti delle città
costituisce in questo periodo la componente interna delle migrazioni, specie in
Inghilterra dove le conseguenze dello sviluppo economico sono piø rilevanti, mentre
i flussi d’ordine internazionale raggiungono prevalentemente le due Americhe,
complici l’eccedenza di uomini e capitali in Europa e l’innovazione tecnologica nel
campo della marina a vapore. In questa fase gli spostamenti sono dovuti
principalmente a fattori economici; la politica mercantilistica approva
l’immigrazione dei lavoratori, che si spostano dalle regioni povere in cerca di un
guadagno nelle zone piø ricche e in espansione con poca manodopera. La creazione
dei moderni stati nazione contribuisce a cambiare la percezione dello straniero, che
non gode dei diritti concessi ai cittadini e quindi risulta escluso dalla società civile
5
.
La guerra produce un “eccesso di umanità”
6
che non conta, che deve essere
confinata in uno spazio delimitato, un campo, nel quale troveranno posto sfollati,
profughi, rifugiati; uno spazio destinato a individui che hanno perso la qualifica di
cittadini, considerati ormai superflui. I vari trattati che sanciscono la pace, e in
particolare il trattato di Versailles del 1919, danno luogo a un processo di
frammentazione che comporta la divisione del territorio in confini netti, ai quali non
corrispondono però le diverse popolazioni presenti. A causa di questa ridefinizione
4
Titolo del libro di Kotek J. e Rigoulot P.,Il secolo dei campi. Detenzione, concentramento e
sterminio: la tragedia del Novecento
5
Sassen S., Migranti, coloni, rifugiati, pag. 77
6
Rahola F., Zone definitivamente temporanee, pag. 19
9
arbitraria della mappa europea, alla quale contribuisce anche il trattato di Losanna
del 1923, nell’immediato dopoguerra si assiste alla migrazione di circa un milione di
greci, trecentomila turchi e migliaia di bulgari, mentre gli armeni scampati al
genocidio del 1915 cercano rifugio in Italia e in altri paesi vicini; dalla Russia
rivoluzionaria e antisemita fuggono 4 milioni di persone, 2 milioni e mezzo dei quali
ebrei. A partire dalla prima guerra mondiale si assiste allo spostamento di masse
intere di persone non piø appartenenti a una patria, costrette alla condizione di
apolidi dai vari accordi di pace tra le potenze interessate. In questo contesto si
moltiplicano gli esempi di campi di concentramento, anche se come vedremo, i primi
nascono lontano dall’Occidente, nelle colonie dove è piø facile internare uomini
considerati inferiori, dove gli scrupoli di stampo etico posso essere messi a tacere
dalla dottrina imperante e condivisa da buona parte dell’ Occidente all’inizio del
secolo.
Ma i primi esempi di “campi”, intesi come “forme di localizzazione per chi non
appartiene agli ordini statuali-nazionali”
7
trovano la loro matrice comune nelle
guerre coloniali, dove ospitano “una massa (i colonizzati) per lo piø indistinta,
‘naturalmente’ inferiorizzata e politicamente inesistente”
8
, giustificati da
un’esigenza di sicurezza in una situazione di emergenza. La sicurezza degli stessi
internati è la ragione dichiarata dell’istituzione dei campi di concentramento
disseminati in tutta l’isola di Cuba nel 1896, anno dell’insurrezione coloniale, da
parte degli spagnoli. Per ordine del governatore furono rinchiuse 400 mila persone
allo scopo di separare la popolazione civile dai combattenti cubani, obiettivo delle
rappresaglie spagnole; in questo modo il generale dell’esercito Weyler voleva
sottrarre ai guerriglieri l’appoggio della popolazione rurale. Ogni villaggio e campo
fu bruciato e la popolazione rinchiusa in cittadelle fortificate, dove veniva sorvegliata
affinchØ non uscisse. Le testimonianze raccolte da Clara Barton
9
, fondatrice della
Croce Rossa americana, raccontano la vita dei deportati, in maggior parte donne e
7
Rahola F., Zone definitivamente temporanee, cit., pag. 42
8
Rahola F., Zone definitivamente temporanee, cit., pag. 85
9
Barton, Clara H. The Red Cross-In Peace and War Washington, D.C.: American Historical Press,
(1898)
10
bambini, denutriti e costretti a lavori umili e faticosi in cambio di un piccolo
compenso. In tali condizioni, il tasso di mortalità tra i reconcentrados all’interno dei
campi fortificati fu altissimo, soprattutto tra i bambini; la necessità di porre fine alla
pratica del riconcentramento dei civili offrì un ottimo pretesto agli Stati Uniti per
entrare in conflitto con gli spagnoli nel 1898, e arricchì la politica americana di
ingerenza di motivazioni umanitarie.
La stessa politica del “riconcentramento” viene seguita poi nelle Filippine da parte
dell’esercito americano a partire dal 1899 sempre allo scopo di dividere la resistenza
armata dalla popolazione civile. Insieme alle devastazioni di villaggi e coltivazioni,
questa pratica provocò una catastrofe demografica delle cui dimensioni non siamo
ancora oggi a conoscenza; non fu mai calcolato il numero dei morti, che comunque
supera di gran lunga quello dei caduti tra i combattenti di entrambe le parti. Si
dispone solo di alcune testimonianze su eccidi, torture e deportazioni effettuate dai
militari statunitensi, trovate nelle lettere che gli stessi soldati mandavano a casa;
dalle parole utilizzate per denominare i nativi (conigli, scimmie, cani, niggers) si
evince un razzismo ben radicato, che di certo rendeva piø facili e frequenti le
uccisioni dei civili
10
. Sempre una donna, Helen Calista Wilson, della Anti
Imperialist League di Boston, rese note all’Occidente le condizioni tremende in cui
erano costretti i filippini attraverso una serie di lettere raccolte nella pubblicazione A
Massachusetts Woman in the Philippines, Notes and Observations del 1903.
Ancora la tutela dei civili rappresenta la motivazione alla base dell’istituzione dei
cinquantotto campi in cui furono internati circa 120 mila boeri (metà della
popolazione di origine olandese) in Sudafrica nel 1900; qui gli inglesi, usarono per la
prima volta il filo spinato, e presero misure che suscitarono all’epoca diverse proteste
su scala europea, quali la distruzione dei centri abitati e le deportazioni di massa.
L’internamento era organizzato in due fasi: la prima mirata a distruggere i centri
della vita sociale che sostenevano la guerriglia; la seconda tesa a allestire punti di
accoglienza provvisori, cioè campi di concentramento per chi viveva nei centri
10
Bianchi, I primi campi di concentramento, DEP n°1/2004, pag. 5
11
distrutti. Nei campi di concentramento morirono 27 mila civili, 22 mila dei quali
bambini, a causa di malattie, denutrizione e assoluta mancanza di igiene. Persero la
vita piø bambini nei campi che combattenti durante la guerra boera; l’infanticidio di
massa non passò inosservato, soprattutto grazie al risalto che gli diede a livello
internazionale Emily Hobhouse
11
, pacifista inglese impegnata nell’assistenza nei
campi di concentramento. Il rapporto provocò in Inghilterra e Olanda discussioni e
proteste sull’utilizzo della violenza in occasione di ritorsioni nei confronti delle
popolazioni delle colonie; tanto sconcerto dell’opinione pubblica è da ricondurre alla
circostanza che per la prima volta tali pratiche erano commesse a danno di bianchi.
A seguito delle denunce le condizioni dei trattenuti migliorano, ma essi non vennero
liberati fino alla conclusione delle ostilità. Va sottolineato un riferimento a questi
campi effettuato da Hitler, che ricordò come i suoi campi di concentramento non
erano altro che una forma di internamento già utilizzata dagli inglesi
12
.
Il ricorso ai campi di questo tipo durò per tutto il periodo coloniale, fino ai
processi di decolonizzazione, e trovarono applicazione anche in Kenya e Algeria.
Ancora una volta è una donna, Eileen Fletcher, a portare a conoscenza dell’opinione
pubblica la repressione britannica della rivolta keniota del 1956; nei suoi articoli,
raccolti in un opuscolo dal Movement for colonial freedom, si denunciano violazioni
delle convenzioni internazionali sui diritti umani e sul trattamento dei prigionieri di
guerra, deportazioni in campi di concentramento e detenzioni senza processo, torture
e lavori forzati. Gli articoli della Fletcher suscitarono la disapprovazione di molti
inglesi riguardo alle violenze perpetuate durante la repressione, in particolare nei
confronti di bambini; le sue testimonianze assumono un’importanza ancora maggiore
se si considera che durante il processo di decolonizzazione tutte le prove
dell’esistenza dei campi di concentramento furono distrutte dai britannici
13
.
11
Hobhouse E., Report of a visit to the camps of women and children in the Cape and Orange River
Colonies, London, Friars Printing Association, 1901
12
Discorso tenuto da Hitler allo Sportpalast di Berlino in 30 gennaio 1941
13
Bianchi, Gli scritti di Eileen Fletcher sulla repressione britannica in Kenya, DEP n°5-6/2006
12
Le forze armate francesi fecero ricorso alla pratica del riconcentramento con le
stesse motivazione addotte dagli spagnoli a Cuba durante la guerra di Algeria (1954-
1962): impedire la collaborazione dei civili con i ribelli, o, secondo le comunicazioni
ufficiali, proteggere le popolazioni rurali da eventuali rappresaglie del FNL, Front de
LibØration Nationale. In altri possedimenti invece si optò per lo sterminio delle
popolazioni locali, considerate inutili ed eccedenti, un “di piø” che non trovava posto
nell’ordine politico del territorio nel quale si trovavano: esempi sono la Namibia,
dove nel 1904 i tedeschi uccisero i tre quarti della popolazione herero
14
, e Libia e
Etiopia, dove l’Italia sperimentò una delle prime armi chimiche di sterminio di
massa, ovvero il gas chimico iprite, in aperta violazione del Protocollo di Ginevra
firmato nel 1925 contro l’uso di gas asfissianti, tossici e arme batteriologiche .
L’esercito italiano rinchiuse inoltre tutta la popolazione dell’altopiano della
Cirenaica, la cui resistenza era molto forte, in campi di concentramento nel deserto
per tre anni, a partire dal 1930, anno dell’insediamento del generale Graziani a capo
dell’esercito, al fine di rompere ogni legame tra ribelli e civili
15
. Si calcola che nei
tredici campi di concentramento allestiti dall’esercito italiano furono deportati dai
cento ai centoventimila libici, dei quali quarantamila persero la vita a causa delle
terrificanti condizioni a cui erano sottoposti: mancanza di cibo e medicinali,
epidemie di tifo, lavori forzati
16
.
In alcuni casi la guerra e l’utilizzo di queste strutture rappresentano l’occasione
per espellere dal territorio nazionale gruppi già residenti ma non piø desiderati. In un
contesto in cui si sublima l’idea nata nell’Ottocento di sintesi tra nazione, territorio e
popolo si considera chi risiede in uno stato senza appartenervi un problema
fondamentale, a cui rispondono i campi di internamento. In Europa il primo Stato a
istituire decine di campi temporanei e uno permanente è l’Olanda nell’agosto del
1914, allo scopo di accogliere centinaia di migliaia di profughi belgi in fuga
dall’invasore nazista; in molti casi si tratta di persone già residenti in Olanda,
14
Petti A., Arcipelaghi e enclave: architettura dell’ordinamento spaziale contemporaneo, pag. 122
15
Del Boca A., Gli italiani in Libia, pag. 185
16
Del Boca A., A un passo dalla forca, pag 205
13
rinchiuse ed espulse definitivamente dopo la fine della prima guerra mondiale. In
Canada sempre tra il 1914 e il 1920 vennero internati 100 mila cittadini ucraini,
presenti nel territorio da piø di venti anni, ma improvvisamente classificati come
enemy aliens; furono allestiti ventisei campi di lavoro, in cui i trattenuti divennero
schiavi, utilizzati spesso per i lavori forzati nelle ferrovie o in miniere; verranno
liberati ben dopo il termine del conflitto. Nel 1917 mille persone di nazionalità
tedesca furono rinchiuse in tre campi, e altri immigrati di origine greca, italiana,
francese, polacca e ucraina furono internati nelle “exclusion zones” istituite dal
presidente Wilson.
In Germania conosceranno la stessa sorte greci e polacchi, e negli Stati Uniti gli
indiani; nel Regno Unito addirittura tutti gli stranieri sospettati di atteggiamenti
antinazionali verranno internati nell’isola di Man, sottoposti a detenzione preventiva.
In tutti questi casi, le condizioni di trattenimento sono sicuramente molto meno dure
rispetto a quelle proprie dei campi coloniali.
Tra le due guerre viene a mancare il carattere di emergenza e temporaneità dei
campi; essi non sono piø eccezioni, diventano la regola, trasformandosi in istituzione
stabile e sistematica: diventano strumenti atti a riterritorializzare le minoranze, i
gruppi di non appartenenti. Si arriva ai campi di sterminio, gulag sovietici e lager
nazisti, dove trova la massima applicazione il principio dei campi come luoghi di
confinamento, in cui gli individui sono internati e detenuti non per reati commessi
ma per il proprio status.
Nel secondo dopoguerra i campi cambiano direzione: da anticamera per
l’espulsione a soglia dell’inclusione. Quaranta milioni di persone si troveranno
deplacØes al termine del conflitto, condizione che porterà al principio di non-
refoulement, ovvero l'esplicito divieto di espulsione e rimpatrio di profughi verso
paesi dove la loro vita o la loro libertà sia in pericolo, sancito dall’articolo 33 della
Convenzione di Ginevra del 1951.