6
Introduzione
Il presente lavoro si occupa di analizzare i rapporti che intercorsero tra il Giappone e
la Santa Sede nel periodo a cavallo tra il diciannovesimo ed il ventesimo secolo. Fu
una fase estremamente importante, nell’800 erano riprese, dopo un intervallo di
secoli, le missioni cattoliche nel paese, che rendevano naturalmente Roma e Tokyo
molto più vicine, inoltre all’inizio del ‘900 il Giappone iniziò ad emergere tra le
potenze dell’Estremo Oriente, finendo col divenire uno Stato con cui era
indispensabile confrontarsi.
All’inizio del lavoro l’intenzione era quella di esaminare quasi esclusivamente i
rapporti di tipo strettamente diplomatico, ma approfondendo le ricerche ci si è
accorti che, nell’epoca esaminata, questi erano ancora ad uno stadio sostanzialmente
embrionale. E’ stato quindi necessario approfondire anche le circostanze che hanno
portato alla creazione di una Delegazione Apostolica in Giappone e i primi passi di
questa istituzione che, anche se nel periodo preso in considerazione non ha avuto
funzioni prettamente diplomatiche, negli anni successivi sarebbe diventata uno
strumento indispensabile per gestire i rapporti, anche di natura politico-diplomatica.
Le ricerche si sono basate in grandissima parte sui documenti rinvenuti presso
l’Archivio Storico della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, nota
anche come Congregazione di Propaganda fide, la quale si occupa appunto di
gestire le missioni in paesi a maggioranza non cristiana. Questo è stato in un certo
senso un limite, dal momento che gli affari di tipo politico-diplomatico sono gestiti
dalla Congregazione per gli Affari Ecclesiastici Straordinari e dalla Segreteria di
Stato, i cui documenti vengono conservati presso l’Archivio Segreto Vaticano, dove
i laureandi non hanno libero accesso. Presso l’archivio storico della Congregazione
di Propaganda fide sono comunque conservati documenti di grande interesse,
compresi alcuni che il Segretario di Stato decise d’inviare al Prefetto di tale
Congregazione a scopo informativo.
7
La tesi è divisa in cinque capitoli, nel primo viene descritta a gradi linee la storia
della Chiesa in Giappone e la sua situazione alla fine del diciannovesimo secolo e
nei primi anni del ventesimo, nel secondo si tratta della missione straordinaria
presso l’Imperatore nipponico che papa Pio X affidò al vescovo O’ Connel, primo
vero contatto diplomatico tra le parti; gli ultimi tre sono dedicati all’istituzione della
Delegazione Apostolica presso il Giappone, uno riguardo al percorso che portò a
questa, uno riguardo all’attività di mons. Fumasoni Biondi, primo Delegato, e
l’ultimo riguardo all’attività del suo successore, mons. Giardini, oltre che alla
questione della creazione di nuove missioni nel paese.
La ristrettezza del materiale consultabile mi ha costretto ad un lavoro circoscritto in
un dato periodo, che mostra le premesse di rapporti che si andranno sviluppando con
maggiore solidità solo negli anni successivi, come accennerò nelle conclusioni. I
primi passi di un processo spesso sono però i più difficili, e quindi degni di maggior
interesse, e questa è la ragione per cui credo che questo lavoro sia utile per capire
molte cose riguardo ai rapporti che sono intercorsi, e che intercorrono tutt’ora, tra la
Chiesa Cattolica e l’Impero del Sol Levante.
8
Capitolo primo: Il retroterra storico
1.1 S. Saverio ed i primi passi della Chiesa in Giappone
Il Vangelo giunse nel Giappone pochi anni dopo la sua scoperta da parte dell’
Europa. Erano stati dei navigatori portoghesi, nel 1543, a scoprire l’arcipelago;
appena sei anni dopo, il 15 agosto 1549, un sacerdote gesuita sbarcava a
Kagoshima, importante porto dell’isola di Kyushu. Egli si chiamava Francesco
Saverio, oggi venerato dalla Chiesa Cattolica come santo.
1
Egli, insieme al confratello gesuita Simone Rodriguez, era stato inviato da papa
Paolo III, su proposta del re di Portogallo Joao III, a predicare la Fede cristiana in
oriente, ovvero, come recita il ‘‘breve’’ del Papa:
‘‘In nonnullis Rubri, Persici et Oceani marium insuli, necnon provinciis et locis
Indie citra et ultra Gangen, et ultra et citra promontorium, Caput Bone Spei
nuncupatum…’’
2
Saverio, prima di giungere in Giappone, aveva predicato in India ed Indocina.
Trovandosi a Malacca, aveva raccolto informazioni sul Giappone da alcuni
commercianti portoghesi e da un giapponese là residente e, riferita la cosa a Roma,
partì.
3
Giunto in Giappone Saverio si trovò in un paese dominato da una miriade di signori
feudali, i daimyo, spesso in lotta fra loro, ma che però riconoscevano una sorta di
superiorità all’Imperatore, figura considerata divina, ma spesso al di fuori dalle
dinamiche politiche.
Saverio si trattenne in Giappone fino al novembre 1551; in questo periodo riuscì ad
ottenere alcune conversioni, inoltre le sue lettere inviate alla casa provinciale dei
Gesuiti a Coimbra ed a Roma descrissero con una certa precisione il paese dove
1
Leo Magnino, Pontificia Nipponica. Le relazioni tra la Santa Sede e il Giappone attraverso i
documenti pontifici, vol I, Roma 1947, pp. 1-2.
2
Monumenta Xaveriana ex autographis vel ex antiquioribus exemplis collecta, vol II, Madrid 1912;
citato da: Magnino, Pontificia Nipponica , vol I, cit., pp. 4-5.
3
Magnino, Pontificia Nipponica, vol I, cit., p. 2.
9
aveva iniziato la sua attività. Il santo insomma pose le premesse per l’opera
missionaria che si sviluppò negli anni successivi.
4
Per circa un secolo l’apostolato in Giappone continuò con discreti risultati, ma a
metà del Seicento quest’opera fu bruscamente interrotta dal mutare della situazione
politica nipponica a seguito dell’instaurarsi dello shogunato dei Tokugawa,
chiamato in lingua giapponese Bakufu.
Lo shougunato consisteva nel dominio politico del paese da parte di qualche
particolare famiglia, di modo che l’Imperatore e la sua corte fossero di fatto privati
di qualsiasi influenza politica effettiva. I Tokugawa, preso il controllo della
situazione, mirarono ad immobilizzare la società in una rigida struttura gerarchica,
mantenendo intatti i vincoli feudali. Questa rigida struttura sarebbe stata però messa
a forte rischio da contatti troppo frequenti con l’Occidente. Fu così che nel 1624
vennero allontanati gli Spagnoli, nel 1638 i Portoghesi, dopo il 1640 con la cacciata
di tutti gli stranieri venne completata la politica di chiusura (sakoku); il commercio
estero venne escluso dal paese, eccezion fatta per una piccola stazione commerciale
a Deshima, dove olandesi e cinesi venivano tenuti sotto stretto controllo.
5
In questo modo anche i missionari vennero espulsi e per due secoli cessò l’attività
pastorale nell’ arcipelago (anche se alcune piccole comunità cattoliche
sopravvissero, rinnovando il battesimo di padre in figlio); ogni tentativo di missioni
evangelizzatrici fu impedito dalle autorità Tokugawa, i cristiani del posto vennero
perseguitati. Solo a partire dalla metà dell’Ottocento la mutata situazione politica
permetterà alla Chiesa di intraprendere nuove missioni e di interessarsi con maggior
protagonismo all’ Impero del Sol Levante.
6
4
Ibidem, p. 3.
5
E. H. Norman, La nascita del Giappone moderno, il ruolo dello stato nella transizione dal
feudalesimo al capitalismo, Torino 1975, pp. 15-16 e Maurizio Brunori, Il Giappone, Storia e
civiltà del Sol Levante, Milano, 1993 p. 167.
6
Leo Magnino, Pontificia Nipponica. Le relazioni tra la Santa Sede e il Giappone attraverso i
documenti pontifici, vol II, Roma 1948, pp. V-VI.
10
1.2 Il Giappone dei Tokugawa
Come già detto, il regime dei Tokugawa bloccò per due secoli la società giapponese
in un rigido e anacronistico feudalesimo. Se teoricamente la massima autorità
apparteneva all’ Imperatore, questi era isolato nella propria corte a Kyoto,
circondato da una tale barriera di ostacoli cerimoniali da non poter avere col mondo
esterno i contatti necessari per esercitare un minimo controllo sugli avvenimenti
politici. Ai vertici della piramide feudale si trovava dunque la famiglia Tokugawa,
che amministrava un territorio comprendente circa un quarto del paese, inclusi i
grandi centri di Edo, Sakai e Kyoto. I rimanenti tre quarti erano divisi tra i daimyo o
signori feudali. Quelli che si erano schierati fin dall’ inizio con la famiglia
Tokugawa, i fudai daimyo, erano in tutto 176 e fra le loro fila venivano distribuite le
cariche governative. Quei daimyo sottomessisi solo dopo il 1600, anno della
battaglia decisiva di Sekigahara, erano chiamati tozama o signori ‘‘esterni’’, ed
erano in tutto 86, venivano esclusi dalle cariche di governo, ma di questo li
compensava una parziale autonomia nei confronti del potere centrale.
7
Il Bakufu si sosteneva per mezzo di un abile sistema di verifiche ed equilibri, i
daimyo venivano tenuti sotto controllo grazie all’utilizzo di ostaggi, i rapporti fra di
loro erano malvisti e i viaggi scoraggiati con un rigido sistema di passaporti, lo
spionaggio era praticato su vasta scala, né castelli, né fossati né alleanze
matrimoniali potevano costituirsi senza il nullaosta del Bakufu. I daimyo non
potevano inoltre avere nessun tipo di contatto con la corte di Kyoto, dove lo stesso
Imperatore era tenuto sotto una stretta, per quanto rispettosa, sorveglianza. Oltre a
ciò i daimyo erano sottoposti a pesanti oneri finanziari, in modo che le loro casse
rimanessero vuote. Nonostante tutto questo alcune signorie potevano ancora
preoccupare i Tokugawa; in particolare era temuto il Satsuma nel Kyushu
meridionale, infatti, protetto dalla grande distanza dal potere centrale, circondato da
popolazioni piuttosto ostili ad esso, ricco ed abitato da soldati famosi per il loro
7
.Norman, La nascita del Giappone moderno cit. pp. 14-17.
11
pratiottismo locale, questo territorio sviluppò rapporti commerciali con la Cina ed
introdusse armi moderne.
8
Al di sotto del Bakufu e dei daimyo stavano i samurai, tenuti alla fedeltà al loro
signore in cambio di stipendi costituiti da una certa quantità di riso. In origine, nei
periodi di pace, erano agricoltori ma, con l’introduzione delle armi da fuoco e la
conseguente necessità di forti difese nei castelli, i samurai furono concentrati in
queste fortezze. Il lungo periodo privo di conflitti inaugurato dal Bakufu finì col
renderli in pratica una classe parassitaria.
9
Il governo dimostrava disprezzo per i chonin, classe mercantile, che collocava per
ultima nella scala sociale, obbligandoli anche a vestirsi in determinati modi affinché
potessero essere riconoscibili. Malgrado le numerose limitazioni sociali la classe
mercantile stava sviluppando un crescente potere in un’economia che da naturale e
basata sul riso, stava diventando monetaria. Attraverso le adozioni ed i matrimoni
misti si vennero anche a creare delle fusioni tra famiglie di samurai e famiglie di
mercanti.
10
La classe sociale più debole era quella dei contadini, che sosteneva un’ economia
ancora in massima parte agricola. Il governo si preoccupava fortemente delle
questioni relative all’agricoltura, ma era minima l’attenzione nei confronti dei
contadini. Questi erano onerati da una notevole pressione fiscale, spesso un cattivo
raccolto poteva ridurre un contadino letteralmente alla fame. L’ affermarsi di
un’economia sempre più monetaria mise via via più in difficoltà i contadini, che non
potevano più ottenere ciò di cui avevano bisogno tramite il baratto così, in molti
casi, dovettero affidarsi agli usurai, che spesso si impossessarono delle loro terre.
11
Questa era a grandi linee la situazione in cui si trovava il paese alla vigilia della
Restaurazione dei Meiji.
8
Ibidem, pp. 17-19.
9
Ibidem, p. 20.
10
Ibidem, pp. 22-23.
11
Ibidem, pp. 25-26.
12
1.3 La restaurazione Meiji e la riapertura agli occidentali
Uno degli elementi che aveva consentito al Bakufu di mantenere intatto il proprio
potere, isolando il paese dal resto del mondo, fu la particolare posizione geopolitica
del paese, lontano dalla portata delle potenze navali occidentali.
12
A partire dal diciannovesimo secolo gli imperi coloniali europei iniziarono a
premere sul Giappone. In particolare gli Inglesi, che avevano estesa la propria
influenza su India e Cina, presero a far pressioni sul Giappone; nel 1808 la nave
della marina britannica Phaeton forzò il porto di Nagasaki causando notevoli
proteste. In Giappone si venne a creare un movimento d’opinione contrario agli
stranieri, che chiedeva allo shogun di intervenire con energia, ma questi temendo il
destino della Cina, optò per una politica più conciliante. Questo atteggiamento gli
costò però durissime critiche.
13
Col passare degli anni la situazione si fece via via più difficile, presto agli Inglesi si
sostituirono gli Americani che ad un certo punto decisero di tentare la prova di
forza: l’ 8 luglio del 1853 il commodoro Matthew C. Perry si presentò davanti alla
baia di Uraga con una flottiglia di quattro navi da guerra e con una lettera del
presidente Fillmore destinata all’ Imperatore, cui chiedeva l’apertura dei rapporti
commerciali. Il 14 luglio il commodoro consegnò la lettera ed un suo messaggio
personale, in cui poneva la questione in termini ultimativi ed annunciava che
sarebbe tornato la primavera seguente con una forza navale maggiore, pretendendo
delle risposte. Mentre i samurai fremevano d’indignazione, il governo dello shogun
si rese immediatamente conto della terribile portata della minaccia. La situazione
era gravissima: lo shogun era il generalissimo che difendeva il paese dai barbari,
abdicando a questo ruolo si sarebbe automaticamente delegittimato; opporsi agli
Americani era però impossibile. Lo shogun Abe Masahiro preferì non prendere da
solo una tale decisione e chiese il consiglio dei vari daimyo oltre a quello dell’
Imperatore. I pareri furono diversi, ma molti furono per l’intransigenza, si sospetta
anche per mettere in difficoltà Abe Masahiro; questi decise di abbonire gli
Americani con alcune minime facilitazioni, concedendo loro l’apertura dei porti di
12
Ibidem, p. 41.
13
Ibidem, pp. 42-46.
13
Shimoda e di Hakodate. Il 31 marzo del 1854 lo shogun firmò con Perry un trattato
in tal senso, ma diede un chiaro segno di debolezza chiedendone la ratifica
all’Imperatore, che la rifiutò.
14
Bersagliato dalle critiche, nel 1885 Abe si ritirò e a lui successe Hotta Masayoshi
che dovette a sua volta scendere a compromessi con le potenze straniere, attirando
numerose critiche e scontrandosi con l’Imperatore, i cui veti furono però superati
dalle potenze occidentali che schierarono navi da guerra non lontano da Kyoto,
forzandolo così alla ratifica. Questo non impedì però la continua caduta di prestigio
dello shogun.
Il Bakufu fu rovesciato per mezzo dell’unione delle forze contrarie ai Tokugawa,
guidate dai samurai di rango inferiore e dai ronin, in particolare dai grandi clan
occidentali di Satsuma, Choshu, Tosa e Hizen, sostenuti economicamente dai grandi
chonin, in particolare di Osaka.
15
Queste forze si fecero fautrici di un movimento che contestava l’ autorità del
Bakufu, proponendo una piena restaurazione del potere imperiale. Il 9 novembre del
1867 Tokugawa Yoshinobu, ultimo shogun, si vide costretto a mettere i propri
poteri nelle mani del giovane imperatore Mutsuhito, passato alla storia come
imperatore ‘‘Meiji’’, letteralmente ‘‘dal governo illuminato’’. Yoshinobu
probabilmente sperava di mantenere il dominio sui propri feudi. I grandi daimyo nel
gennaio del 1868 occuparono però il palazzo imperiale di Kyoto, proclamando la
restaurazione del potere imperiale e costituendo un governo provvisorio, che subito
dispose la confisca di tutte le proprietà dell’ ultimo shogun, decisione cui Yoshinobu
si opporrà con la forza, dando inizio alla guerra Bashin, a seguito della quale si
trovò completamente esautorato: sconfitto nella battaglia di Toba Fustini fu privato
dei propri feudi e vide tramontare definitivamente l’egemonia della propria
famiglia.
16
Il potere non passò però completamente nelle mani dell’Imperatore, ma venne
invece a crearsi una sorta di oligarchia che lo detenne nel periodo successivo. Il
nuovo governo si mostrerà maggiormente aperto nei confronti dell’occidente, dopo
14
Brunori, Il Giappone, cit. pp. 184-187.
15
Norman, La nascita del Giappone moderno cit. pp. 57-58.
16
Brunori, Il Giappone cit. pp. 187-198.
14
due secoli il Giappone riprenderà a schiudere le porte non solo al commercio ed alle
innovazioni, ma anche alla cultura occidentale. In questo contesto vennero quindi a
crearsi le condizioni per una ripresa dell’attività pastorale e missionaria della Chiesa
Cattolica, che già aveva cominciato a bussare alle porte dell’Impero al seguito delle
potenze coloniali che premevano su di esso.
1.4 La ripresa dell’ attività pastorale in Giappone
Già nel 1846 papa Gregorio XVI eresse il vicariato apostolico del Giappone,
nominando come vicario mons. Forcale, della Società delle Missioni Estere di
Parigi. Questi dovette fissare la propria residenza ad Hong-Kong, essendogli stato
proibito di abitare in Giappone. Mons. Colin, suo successore, si stabilì in Manciuria;
nel 1859 mons. Girard, da due anni prefetto apostolico, potè mettere piede in
Giappone, e finalmente nel 1866 mons Petitjean venne nominato vicario apostolico
e fissò la propria residenza a Nagasaki.
17
A partire dal 1859 i missionari cattolici poterono così tornare nell’ Impero
Giapponese. Questi missionari erano di lingua francese, dal momento che sin dal
1832 l’evangelizzazione della Corea e del Giappone era stata affidata alla Società
delle Missioni Estere di Parigi. Era questo un istituto nato nella seconda metà del
diciassettesimo secolo ad opera di certo numero di chierici e laici desiderosi di
collaborare attivamente con l’attività missionaria, fino a quel momento riservata
quasi esclusivamente ai religiosi. La Società aveva raggiunto buoni risultati nei
paesi dell’Estremo Oriente, dove controllava numerose missioni. Giunti in Giappone
i missionari trovarono che, nel corso dei due secoli durante i quali erano stati
lontani, alcuni gruppi di cristiani erano rimasti in Giappone, delegando
l’amministrazione del Sacramento del Battesimo ad un laico designato dalla
comunità e mantenendosi idealmente fedeli alla Sede di Roma. Infatti, quando i
missionari entrarono in contatto con questi gruppi, venne loro chiesto se erano stati
17
Magnino, Pontificia Nipponica , vol II, cit., pp. 2-3.
15
inviati dal ‘‘Capo del Reame di Roma’’, se professavano il culto della Vergine e se
mantenevano il celibato.
18
Naturalmente in due secoli queste comunità cattoliche avevano sviluppato rispetto
alla Chiesa di Roma alcune anomalie, che la Congregazione del S. Uffizio fu a
lungo occupata nel prendere in esame. Nel marzo 1868, per esempio, la S.
Congregazione dovette esprimersi sulla validità di battesimi amministrati con
formule che nel corso degli anni erano state storpiate, anche perché dovevano essere
in latino. Così, in alcune zone, la formula diventava ‘‘Togo te paretizo in nomine
Pater et Hirio et Spirito Santo’’, in altre ‘‘Togo te pax mono vel bazmono in nomine
Pater et Hirio et Spiritu Santo’’, in altre le formule erano ancora differenti.
19
Se in questi casi la S. Congregazione dimostrò una buona dose di tolleranza
ritenendo in linea di massima validi questi battesimi, i problemi sul tappeto erano
molti altri, spesso di più difficile soluzione. Tra i Nipponici era praticato il divorzio,
alcuni dei matrimoni erano stati contratti nonostante quelli che la Chiesa
considerava impedimenti, alcuni Cattolici giapponesi partecipavano a riti religiosi o
superstiziosi indigeni (questione riguardo cui la S. Congregazione prenderà una
posizione severa vietando tali partecipazioni).
20
Un altro problema non trascurabile furono i rapporti della Chiesa Cattolica con le
autorità locali. Non dobbiamo dimenticare che l’Imperatore del Giappone era una
figura divinizzata e non si poteva non guardare con sospetto ad un credo che non
concepiva tale divinità. Le persecuzioni nei confronti dei Cristiani non erano del
tutto finite, ancora nel 1965 le autorità nipponiche proibirono ai Giapponesi di
frequentare le chiese cattoliche; il 20 novembre dell’ anno successivo trenta cattolici
di Urakami vennero convocati dal capo della città che intimò loro di abiurare la loro
Fede. Nel 1868 sessanta fedeli di questa città vennero condotti a Nagasaki e qui
imprigionati, il 22 aprile comparve quindi un editto contro la Chiesa Cattolica in
virtù del quale il primo gennaio del 1870 circa 3500 cristiani di Urakami vennero
18
Magnino, Pontificia Nipponica. vol II, cit., pag V-VI e Jean Monsterleet, Storia della Chiesa in
Giappone dai tempi feudali ai nostri giorni, storia e problemi missionari, Roma 1959, p. 218.
19
Juris Pont. de Prop. Fide, parte II, pp. 679-681 citato da Magnino, Pontificia Nipponica , vol II,
cit., pp. 58-59.
20
Ibidem, e Collectanea Prop. Fide, 1893, n. 1759, pag 689, citato da Magnino, Pontificia
Nipponica , vol II, cit., pp. 61-62.