Tuttavia la gran mole di informazioni etnografiche e antropologiche apprese da
questi testi ci ha avvicinato con meno timori alle teorie esposte da Propp nel suo Le radici
storiche dei racconti di fate (Propp 2006) dato che ci ha reso evidente un legame stretto
ed inscindibile tra la fiaba, la cultura popolare e l’etnografia, su cui torneremo più avanti.
4.1.1 Antropofagia/cannibalismo; Inghiottimento; Squartamento.
Tornando all’antropofagia nella fiaba dobbiamo, a questo punto, distinguere tra
antropofagia come cannibalismo e inghiottimento, e separarle a loro volta dalla “pratica”
dello squartamento.
Normalmente si intende antropofagìa l’uso istintivo o tradizionale, o anche la pratica
eccezionale, di cibarsi di carne umana; il cannibalismo indica l’azione del mangiar carne
umana eccezionalmente o per costume. Parleremo quindi di antropofagia e cannibalismo
come di due sinonimi e, perciò, di due termini interscambiabili. A differenza di questi,
l’inghiottimento concerne il definitivo avviamento nel tubo digerente, il cibo non viene
quindi masticato e conseguentemente sminuzzato. Per quanto riguarda lo squartamento,
sappiamo che esso segnala o il taglio in quarti di una bestia macellata o una forma di
esecuzione della pena di morte, prevista da alcune leggi del passato, consistente nella
scissione delle carni del reo, da vivo, e nella loro esposizione nei luoghi più frequentati.
Nei diversi tipi di fiabe (tranne che in F1 dove la bambina si salva dal “Nonno
Coccone” prima di venir divorata) abbiamo quindi forme differenti di antropofagia.
Per ognuna di queste pratiche abbiamo osservato documenti, ricerche e studi che ci
hanno permesso di approfondire i temi affrontati, eppure, in nessun caso abbiamo trovato
spiegazione del perché nelle fiabe, generalmente indirizzate ai bambini, vengano descritte
attività tanto cruente e comunque comunemente incomprensibili. Possiamo ipotizzare che
narrare di un mostro che divora bambini per punirli o semplicemente per cibarsene sia un
modo per esorcizzare tante altre paure del quotidiano, ma si tratta di ipotesi, appunto, per
le quali non possediamo, almeno nel nostro studio, alcuna prova concreta. L’unica fonte
attendibile che ci abbia lasciato descrizione di alcuni motivi tipici della fiaba è stata la
monografia del già citato Vladimijr Propp, ma prima di passare all’analisi dello studioso
russo riportiamo un riassunto di alcune teorie (antropologiche) sul tema dell’antropofagia.
4.1.2 Cannibalismo.
Il cannibalismo vero e proprio, come punizione definitiva, ha luogo in F2, F3, F4, F5. In
questi casi, le bambine vengono mangiate, e, presumibilmente, masticate.
Il mangiar carne umana è un’azione, inconsapevole, descritta anche in F6 quando
la bambina affamata assaggia la focaccia impastata con la carne della madre e ne beve
pure il sangue prendendolo per vino. Tuttavia non dobbiamo qui confondere il
“cannibalismo” involontario e inconsapevole della bambina con quello invece
“programmatico” del Lupo/Orco. Troviamo in un altro caso una bambina (Caterinella, in
F2) che minaccia per punizione di mangiarsi (come fosse lei stessa un Orco), un gatto, un
asino ed un cavallo se questi non danno ascolto al suo ordine.
Nel dizionario di antropologia (Fabietti, Remotti 2001, pp.140-142) rintracciamo
un’analisi storica della pratica, per cui viene indicato il fatto che sia stato Cristoforo
Colombo ad introdurre il termine “cannibali” (nella forma caniba o canibales) nella cultura
europea, menzionando gli abitanti delle Piccole Antille (Caribi) che venivano descritti da
quelli delle Isole Bahamas e di Cuba, come feroci guerrieri che si cibavano della carne dei
loro nemici. Risulta inoltre da questo dizionario che il Costume dell’antropofagia era già
conosciuto fin dall’antichità: Erodoto ne riferisce a proposito di un popolo asiatico vicino
agli Sciti, gli Androfagi; Strabone, Plinio il Vecchio e Tolomeo riportano notizie di costumi
antropofagici tra le popolazioni dell’Irlanda, dell’Alto Nilo, dell’altopiano Indoiranico e
dell’interno dell’Africa. A partire dal XVI secolo, con lo sviluppo dei viaggi e delle
esplorazioni nei continenti extraeuropei, le segnalazioni e le descrizioni di costumi
cannibalici provenienti da ogni angolo del mondo si moltiplicano.
Volhard (1949) registra oltre un migliaio di gruppi etnici presso i quali si riscontrano
pratiche che implicano il consumo di carne umana, la maggior parte delle quali si riferisce
all’Africa e all’Oceania. In conformità con le categorie interpretative della scuola storico-
culturale tedesca, in particolare con la teoria dei “cerchi culturali”, egli individua nel
cannibalismo gli elementi di una prticolare visione del mondo, propria di un determinato
stadio di sviluppo culturale: quello dei popoli dediti all’orticoltura. La pratica della
coltivazione avrebbe suggerito l’idea di una sostanziale analogia tra la pianta e l’uomo,
entrambe soggetti alla stessa vicenda ciclica di morte e rinascita. I rituali comprendenti
pratiche di cannibalismo sono quindi intesi ad assicurare la continuità della forza vitale,
attraverso la costante reiterazione di attività che rivelano la profonda relazione tra corpo
umano e piante coltivate. Sempre nel Dizionario di antropologia si passa all’analisi del
cannibalismo da parte di altri studiosi quali Tylor, Freud e Abraham, Harner ma nuovi
stimoli alla discussione sul cannibalismo sono stati provocati dalla pubblicazione del
volume di Arens (1980), che ha avuto notevoli ripercussioni sull’ambiente antropologico.
Arens sostiene infatti che, dopo aver analizzato attentamente la letteratura etnografica sul
cannibalismo, non è riuscito a rintracciare che pochissimi casi di osservazioni attendibili di
questo fenomeno: in conclusione esistono ben pochi dati affidabili sull’effettiva pratica
dell’antropofagia come costume culturale da parte di qualsiasi gruppo umano. Quello che
è diffuso universalmente è il costume di attibuire ad altri la caratteristica di cannibali: i
popoli circostanti, gli affini, i membri di un altro clan o gli appartenenti all’altro sesso. Ogni
gruppo umano tende a rafforzare la propria identità e a concepire la propria individualità in
quanto gruppo contrapponendosi ad altri gruppi, i quali vengono caratterizzati con tratti
distintivi opposti o “capovolti”. Così, i gruppi diversi, gli “altri”, vengono facilmente connotati
con categorie di “inumanità” quali l’incesto, la mancanza di regole morali, la stregoneria e il
cannibalismo. Queste tendenze ideologiche, sostiene Arens, si sovrappongono spesso
alle descrizioni etnografiche, provocando ogni sorta di malintesi e confondendo i fatti
concretamente accertati.
4.1.3 L’Inghiottimento. Propp e le radici storiche dei racconti di fate.
L’inghiottimento è il tipo di antropofagia cha fa la sua comparsa in R1, R2, F6. Qui è
evidente che le nonne e le bambine non vengono triturate dalla dentatura del Lupo, dato
che poi usciranno indenni (R2, F6) dal ventre della bestia.
Lucia Lazzerini, nella sua introduzione all’Audigier (2003) per spiegare le
motivazioni dell’inghiottimento da parte di Grinberge di Audigier, parla di “adoubement”,
iniziazione (Lazzerini 2003, p. 26). Questa diverrà d’ora in poi una parola-chiave
nell’ambito dell’argomento che stiamo trattando poiché è proprio a partire dal rito
d’iniziazione che avremo le risposte che stavamo cercando.
Il senso più profondo del rito d’iniziazione è riassumibile con le parole di Eliade
(Eliade 1988, pp. 1,2):
S’intende generalmente per iniziazione un insieme di riti e di insegnamenti orali, il cui scopo è la
modificazione radicale dello statuto religioso e sociale del soggetto da iniziare. Filosoficamente
parlando, l’iniziazione equivale a una mutazione ontologica del regime esistenziale. Al termine delle
prove cui viene sottoposto, il neofito gode di un’esistenza completamente diversa dalla precedente: è
diventato un altro.
L’attuale società occidentale non presenta, almeno all’evidenza, tracce di questi riti,
che servono, come abbiamo capito, a far entrare un membro giovane nel gruppo adulto.
Probabilmente qualcosa di simile si ha con il superamento di alcune “tappe” prestabilite e
istituzionalizzate come la maggiore età o il diploma, la laurea, la patente, il matrimonio,
che non hanno più valore di altri nello stabilire il raggiungimento della maturità. Di sicuro
anche il rito vero e proprio non dava la certezza di sviluppo intellettivo così come
l’intendiamo noi oggi, ma è, secondo me, evidente il fatto che le doti in cui doveva
primeggiare l’uomo primitivo erano (e sono in alcuni popoli) la forza fisica, il coraggio e
magari l’astuzia, queste sì fondamentali per la sopravvivenza.
Propp, oltre ad aver scomposto la narrazione fiabistica in “funzioni” (2000) ha
esposto la teoria secondo la quale il nucleo più antico delle fiabe magiche deriva da rituali
di iniziazione in uso nelle società primitive. La sua teoria poggia su alcuni dati
antropologici che riportano l’inghiottimento figurato da parte di un “mostro” e la
conseguente “rinascita” dell’iniziato; quest’ultimo, alla fine del rito, risulta rinvigorito,
rigenerato, un uomo nuovo.
Nell’ex nuova Guinea tedesca per la circoncisione veniva costruita una speciale casa. “Essa doveva
rappresentare il mostro Barlum che inghiotte i bambini.” Dai materiali di Nevermann sappiamo che
questo mostro chiamato Barlum ha la forma di drago. L’inghiottimento del neofita da parte di Barlum
non è soltanto una favola raccontata dalle donne; qui i neofiti devono entrare effettivamente in una
sua raffigurazione simbolica. Si tratta della casa della circoncisione alla quale gli indigeni della tribù
Jabim danno la forma di un mostro (Propp 2006, p. 346).
E ancora:
Nell’isola di Ceram (Oceania) il neofita viene gettato nella casa attraverso un’apertura avente la forma
delle fauci di un coccodrillo o del becco di un casoaro. Dicono che il giovane è stato inghiottito dal
diavolo (Propp 2006 p. 346).
Allo stesso modo i racconti fiabeschi propongono la fase in cui il protagonista-eroe
viene divorato per poi uscire rigenerato dal ventre del mostro. Infatti, in un caso (Grimm)
addirittura, Cappuccetto Rosso, dopo essere stata salvata dal ventre del lupo, viene
nuovamente “messa alla prova” in un episodio successivo, nel quale però la bambina non
dà ascolto al lupo e prosegue per la strada indicatale dalla madre, evitando così di cadere
in errore. Ciò dimostra che il “soggiorno” nel ventre del lupo l’ha in qualche modo resa più
consapevole.
Dall’introduzione all’Audigier ricaviamo altri dati che ci permettono di ipotizzare
perché venga utilizzato il procedimento dell’inghiottimento nelle fiabe; scrive Lucia
Lazzerini:
Certamente la motivazione profonda del rito e dei miti ad esso collegati va ricercata nella credenza
che la sconvolgente discesa nelle viscere del mostro conferisse all’iniziando prerogative magiche, e
soprattutto (nelle società di cacciatori) il potere sugli animali selvatici. Lo stesso mito del dio-padre
Cronos divoratore dei propri figli adombra forse la trasmissione di facoltà divine attraverso
l’inghiottimento; ed emblematico è il caso di Giona che acquista il dono della profezia, secondo il
racconto biblico, dopo il soggiorno nel ventre della balena (ma non si dimentichi il minuscolo epigono
Pinocchio, che dopo l’avventura “in corpo al pescecane” muore come burattino e rinasce come
ragazzo) ( Lazzerini 2003, pp. 28-29).
Altri dati interessanti ci vengono da Eliade (1988, p. 189) il quale parla di “morte
iniziatica” (Propp la definisce “morte temporanea”, 2006, p. 214) come di un momento
fodamentale nel rito d’iniziazione, momento che serve a rendere il più reale possibile la
fine di una fase di vita e l’inizio di un’altra:
La morte iniziatica diventa la condizione sine qua non di ogni rigenerazione spirituale e, in utlima
analisi, della sopravvivenza dell’anima, e anche dell’immortalità. [...]
Non bisogna mai perdere di vista che la morte iniziatica significa insieme la fine dell’uomo “naturale”,
non culturale, e il passaggio a una nuova modalità d’esistenza: quella di essere “nato allo spirito”, cioè
“che non vive unicamente in una realtà immediata”. La morte iniziatica fa dunque parte integrante del
processo mistico mediante il quale si diventa un altro, plasmato secondo il modello rivelato dagli dèi o
dagli antenati mitici.
Quindi il passaggio di un neofita attraverso la capanna iniziatica rappresenta la
“morte rituale” ed una sorta di “regressione allo stato embrionale” (Eliade 1988, p. 61), e
ciò avvalora la tesi per cui il ritorno di alcune immagini archetipiche come la capanna o la
foresta in fiabe o racconti popolari avvicini chiaramente ad ancestrali riti iniziatici.
Un altro esempio (Eliade 1988, pp. 75-79) sul significato simbolico del mostro
divoratore traspare con particolare evidenza nel culto segreto australiano chiamato
Kunapipi (“la vecchia”, “la nonna”). Qui il rito iniziatico si polarizza attorno a due temi
complementari: da una parte il regressus ad uterum degli adolescenti, dall’altra la loro
permanenza nel ventre del serpente in cui sono ingoiati. L’iniziando torna simbolicamente
nel ventre materno come individuo, mentre ne esce come parte del creato e della Terra
Madre, depositaria dei segreti della vita e della morte, sorgente della fecondità universale:
ne uscirà “morto” all’antica condizione (infantile), ma in realtà ri-generato, come il seme
che deve morire nel grembo della terra per fiorire a pienezza di vita.
Nelle fiabe è quindi più viva la memoria degli antichi traumi iniziatici, Propp scrive infatti:
La fiaba non ha conservato soltanto le tracce delle concezioni sulla morte ma anche quelle di un rito,
un tempo estremamente diffuso, strettamente legato a queste concezioni; il rito dell’iniziazione della
gioventù al sopraggiungere della maturità sessuale. (Propp 2006, p. 174).
Abbiamo visto alcuni esempi di riti ancor oggi in uso presso popoli primitivi grazie ai
quali ci risulta più chiara l’idea di Propp.
Nella struttura della fiaba si ripete la struttura del rito; in particolare, secondo lui, la fiaba
ha cominciato a vivere come tale quando l’antico rito è caduto, lasciando di sè solo il
racconto. La fiabe, insomma, sarebbero nate “per caduta dal mondo sacro al mondo laico:
come per caduta sono approdati al mondo infantile, ridotti a giocattoli, oggetti che in ere
precedenti sono stati oggetti rituali e culturali. Per esempio le bambole, la trottola.” (Rodari
2001, p. 73). La teoria di Propp ha un fascino particolare perché istituisce un legame
profondo – qualcuno dirà a livello di “inconscio collettivo” - tra il ragazzo preistorico che
visse i riti di iniziazione e il bambino storico che vive proprio con la fiaba una sua prima
iniziazione al mondo dell’umano. “L’identificazione tra il piccolo ascoltatore e il Pollicino
della fiaba che la madre gli narra, alla luce di quella teoria [Propp], non ha solo una
giustificazione psicologica: ne ha una ben più profonda, radicata nell’oscuro del sangue.”
(Rodari 2001, p.73).
Attorno al primitivo nucleo magico le fiabe hanno raccolto altri miti desacralizzati,
racconti di avventure, leggende, aneddoti, usi e tradizioni popolari mentre accanto a
personaggi magici hanno schierato i personaggi del modo contadino (per esempio il
“furbo” o lo “sciocco”).
4.1.4 Lo Squartamento.
Lo squartamento (anche se non viene direttamente nominato) compare in F6, in cui
Balladoro descrive una morte atroce per la mamma delle tre ragazze che viene, appunto,
tagliata a pezzi.
In effetti, anche lo smembramento fa la sua apparizione nell’ambito dell’iniziazione,
in particolare di quella sciamanica nell’America del nord e del sud, in Africa e in Indonesia
(Eliade 1992, pp. 74-79). Esso può aver luogo mediante il sogno, la malattia o un vero e
proprio rito (ad esempio rompendo un cocco che simbolizzi il cranio) e l’elemento centrale
è sempre lo stesso: morte e resurrezione simboliche del neofita, che comportano uno
smembramento del corpo eseguito in forme diverse (spezzettamento, taglio, apertura del
ventre, ecc. ). Si è quindi in presenza di una cerimonia che simboleggia, ancora una volta,
la morte del candidato e la sua resurrezione in vesti completamente rinnovate.
4.1.5 Struttura trifasica del racconto e del mito. Allontanamento; Inghiottimento; Ritorno
dell’eroe rigenerato.
La distinzione dell’inghiottimento nell’ambito della fiaba e particolarmente tra quelle
osservate in questa tesi ci è stata utile a comprendere proprio quegli elementi che ci
risultavano difficili da interpretare. È quindi possibile osservare che alcune delle nostre
fiabe (R1, R2, F6) rispettano un procedimento a tre fasi: abbiamo l’inevitabile
allontanamento dell’eroe da casa e l’incontro con l’antagonista, l’inghiottimento dell’eroe
da parte dell’antagonista, il ritorno alla vita dell’eroe rigenerato (R2, F6). Per Perrault
l’inghiottimento è definitivo (R1) così come sempre nel Tipo A (F2, F3, F4, F5). Non si può
poi non osservare il fatto che nelle altre fiabe, in cui non abbiamo traccia
dell’inghiottimento, tale momento potrebbe essere sostituito in modo figurato dal viaggio
dell’eroe attraverso il bosco, ecco che allora ciò che abbiamo detto potrebbe valere per
tutte le fiabe del nostro corpus, incluso il Cappuccetto Rosso di Perrault. In tutte abbiamo,
infatti, un percorso che l’eroe (le bambine) compiono per raggiungere, secondo i casi, la
casa dello “Zio Lupo” (F1, F2, F3, F4, F5) o la casa della nonna o della mamma (R1, R2,
F6). Per quanto concerne, invece, la terza fase, diremo che essa è propria solo delle fiabe
dei Grimm e di Balladoro, dato che, come già detto, non v’è possilità di ritorno per gli “eroi”
degli altri racconti.
4.2 Seconda Parte: elementi folklorici “contestuali” nel corpus.
4.2.1 I luoghi della fiaba in Veneto: Il Filò.
È necessario, innanzitutto, aprire una parentesi sulla narrazione delle fiabe nel
Veneto perché proprio in questa regione esisteva una tradizione particolare chiamata
“Filò”. Essa costituiva un momento fondamentale nella vita dei contadini in quanto luogo di
ritrovo per il lavoro invernale, ma anche di incontro, discussione, gioco e svago.
Menzionare il Filò è doveroso non solo perché faceva parte integrante della vita,
prettamente contadina, dei veneti, ma anche perché deve aver avuto un ruolo
fondamentale sull’aggiunta di tratti tipici nelle fòle (favole) che ivi si narravano.
La fiaba, qualunque origine abbia, è soggetta ad assorbire qualcosa dal luogo in cui è narrata, un
paesaggio, un costume, una moralità o per solo un vaghissimo accento o sapore di quel paese, il
grado in cui si sono imbevute di questo qualcosa veneziano o toscano o siciliano […] diventando in
questo modo carattere distintivo se non autentico (Calvino 1971, p. XXI).
Calvino stesso, nella sua raccolta di fiabe, dà al Veneto, in quanto, scrigno di
racconti, un posto di privilegio, dopo la Toscana e la Sicilia. La tradizione orale veneta ha
un luogo di espressione eccellente, il “Filò” appunto. Ma cos’era di preciso questa usanza?
Scrive Coltro:
Le profonde trasformazioni avvenute in questi ultimi decenni hanno conciliato abitudini secolari. Una di
queste è certamente il “filò”, la veglia serale che i contadini facevano durante i mesi più freddi
dell’anno (Coltro 1982, p. 41).
E ancora scrive Bernardi:
(Il Filò) era una costumanza obbligata ma a cui nessuna famiglia contadina avrebbe mai rinunciato. Al
cedere dell’autunno, quando le giornate si accorciano precipitosamente e i crepuscoli conoscono i
primi brividi della bruma, il popolo delle campagne cercava scampo al freddo dentro a una stalla
amica, riunendosi in brigate numerose presso qualche famiglia che disponesse di uno spazio
maggiore e con più capi di bestiame. Ai fiati delle bestie era affidato il riscaldamento, e stando insieme
risultava sufficiente un solo lumicino per tutti, così da risparmiare la preziosa sostanza illuminante
(olio, grassi, resine, petrolio, o la prima luce elettrica, una lampadinetta da poche candele) (Bernardi
1992, intro).
In questo ambiente povero si andarono via via delineando usi e tradizioni molto
importanti per il folklore veneto: mentre le donne filavano e gli uomini aggiustavano gli
attrezzi, nelle lunghe ore di veglia si potevano aprire tempi e spazi per le narrazioni orali.
Un ruolo di particolare rilievo assume qui il contafole:
Ma il momento magico del filò che passava dalla povertà quotidiana allo splendore della creazione
fantastica, scaturiva dai racconti dei contafole, detti anche poeti. La trama delle loro fole ripete schemi
e argomenti noti in tutto il mondo (D. Coltro 1982, p. 44).
Il contafole (narratore, raccontafavole) è quindi una figura che ricorre sempre nelle
memorie del filò e che veniva spesso contesa. “Per averli, le famiglie si tassavano a turno,
accumulando un qualche piccolo compenso in natura, che in via principale poteva
consistere in un capace bicchiere di vero vino [...] oppure in una modesta misura di
tabacco” (Bernardi 1992, p. 25). Egli era ritenuto un’inesauribile riserva di racconti
fantastici ed emozionanti.
Storie di assassini, di fantasmi, di personaggi leggendari e paurosi come el Barba Sucòn, di folletti
bizzarri come el Massariòl, e principesse, orchi, streghe, santi, bambini e morti. L’inizio, nel silenzio
generale, rotto solo dal trapestio dei bovini, era sempre il medesimo: Jèra ‘na volta..., l’illo tempore di
tutte le narrazioni mitiche.
Come appena detto allora, la nostra “Zio Lupo” dev’essere circolata con sicuro
successo tra i filò in Veneto fino ad arrivare ai nostri giorni come fiaba, meno diffusa di
altre, ma ancora carica dei suoi motivi spaventosi e al tempo stesso divertenti.
4.2.2 Il Carnevale nel Veneto.
Come già accennato nel primo capitolo (par.1.2 a), le fiabe del corpus contengono
quasi tutte (sono escluse la F5, in cui Zorzùt parla di castagne, e la F6 in cui Balladoro
menziona dei panettoncini veronesi) un elemento comune: le frittelle. Ora, è noto che
queste ultime appartengono al gruppo di pietanze tipiche del periodo del Carnevale in
zona Veneta. Il riferimento al Carnevale avviene in modo abbastanza esplicito quando, ad
esempio, in F1 Bernoni parla “dell’arrivo del momento di fare le frittelle” o in F2 Marson
scrive che “era giunto il tempo in cui tutti facevano le frittelle, tutti facevano le castagnole”.
In F3 ed F4 madre e figlia preparano semplicemente le frittelle, ma viene scontato
pensare, almeno per un veneto, che il periodo temporale sia proprio quello del Carnevale.
Apriremo, quindi, una parentesi sulle origini storiche e sul significato di tale ricorrenza
molto importante, in tutta Italia, ma, in modo particolare, nel Veneto e a Venezia.
Innanzitutto bisogna specificare che è detto carnevale il tempo che intercorre tra Natale ed
il mercoledì delle ceneri.
Carnevale - da carnem levare - segnava l’inizio del periodo quaresimale durante il
quale per penitenza era obbligo non mangiar carne; prima di questo periodo di restrizione,
quindi, era opportuno godersi le ultime licenziosità e allegrie.
In realtà per ritrovare l’origine dei canti carnascialeschi si deve arretrare di molto
tempo, ben più in là della civiltà cristiana; si deve guardare all’era pagana e alle prime
civiltà agresti (Bonoldi, Colombo 1981, p. 74). Per esempio, nel Carnevale si è trasferita la
festa dei saturnali dell’antica Roma, festa in onore del Dio Saturno, per il solstizio
d’inverno: il carro dell’abbondanza è sacro a Cerere, dea dei campi e della fertlità; Bacco
sta vestito con una tunica color vinaccia e lo inghirlandano i viticci e i pampini; una
maschera detta muso da do musi ricorda in modo curioso il Giano bifronte (Bonoldi,
Colombo, Barbieri 1981, p. 74).
L’inizio del Carnevale è, secondo alcuni, il 26 Dicembre (S. Stefano), giorno in cui, un
tempo, era d’uso “aprire” le stagioni teatrali in molte città. Altri lo inaugurano il 17 Gennaio,
Sant’Antonio Abate protettore delle bestie domestiche e delle stalle. Altri, ancora, il 2
Febbraio, giorno della Purificazione di Maria o “della Candelora”. Molte manifestazioni, che
si credono tipiche del solo Carnevale, si ritrovano dislocate a partire da San Martino (1
Novembre) fino a San Giovanni (24 Giugno) a copertura dell’intero arco di tempo di riposo
ed inizio della stagione agricola. Esse sono ispirate ai riti di ringraziamento e propiziazione
di origine arcaica e infatti il Carnevale è il rito di maggior durata temporale tra quelli
propiziatori che contemplano, nello scopo, l’augurio di un anno agricolo prospero (Secco
1988, p. 11). I riti si ispirano al tripudio e al divertimento, allo star bene: lo scherzo, la
burla, la satira sono praticamente d’obbligo, e hanno anch’essi valore propiziatorio, di
augurio per l’andamento dell’anno che arriva.
La comune volontà di propiziare il cibo si manifesta, per Carnevale, specie nel
mondo agricolo e nei ceti meno abbienti, con la preparazione di dolci in quantità e di
pietanze a base di maiale (Secco 1988 , p. 28).
Allo stesso modo in cui ogni stagione produce frutti diversi, ogni ricorrenza popolare ha le
sue diverse manifestazioni in dolci. Quindi, se nel periodo dell’Epifania il dolce tipico è la
pinza “ora è per i cròstoi e fritòe, che si dividono offrendoli reciprocamente tra famiglie”
(Secco 1988, p. 28).
Oltre ad un accentuato carattere gastronomico, il Carnevale rivestiva, e in parte
riveste ancora, il ruolo di ‘aggregante’ sociale. Lo scopo propiziatorio era collegato ad un
bisogno di socialità primario, che è poi stato l’unico a sopravvivere nel tempo. Ai pranzi
esageratamente copiosi si unì ben presto la possibiltà di travestirsi e mascherarsi per
diventare altro da sè.
Fin dalla metà del duecento era stato concesso a Venezia l’uso, divenuto presto abuso, delle
maschere, e di qui continui decreti limitativi perché troppe volte la maschera si faceva strumento di
frode. [..] nel 1461 dal Consiglio dei Dieci sono addirittura vietate tutte le maschere [...] Ma le proteste
devono essere state così efficaci che nel Seicento le maschere vengono permesse, ma solo di
carnevale; poi si continua a tirare e ad allentare le briglie alternamente per tutto il secolo e per il
successivo, quando la maschera diventa d’uso comune (Mazzarotto 1980, p. 116).
Chiunque, travestito, poteva accedere in pieno incognito fino al Doge, e il Doge
stesso, almeno in teoria, poteva mescolarsi al popolo per le calli. Non era più possibile
riconoscere e distinguere il ricco dal povero perché a Carnevale i ruoli potevano anche
venir invertiti.
Concludiamo qui questo paragrafo che voleva essere solo un accenno alla tradizione
del Carnevale e non si proponeva certo di esaurire un tema che presenta innumerevoli
risvolti e sfaccettature.