5
massima aspirazione è quella di andare in tournée con la bella prima
attrice d’una compagnia di teatranti capitata per caso nel suo castello.
Questo capocomico-dandy recita con assoluta disinvoltura il proprio
dramma, mescolando l’Amleto di Shakespeare con quello di Laforgue,
alternando e intrecciando passi tratti dall’uno e dall’altro lavoro,
interpolando versi di Gozzano, brani di musica sinfonica e motivi di
canzoni napoletane.
La spirale di derisioni e di incidenti, di travisamenti e di interruzioni
conserva tuttavia, in Hamlet come negli altri spettacoli di Bene, un
vortice di beffarda malinconia che altro non è se non il malessere
dell’attore, dal quale il teatro può però sollevarsi verso il “poetico”. Il
caleidoscopio di citazioni, di lacerti di testo de-contestualizzato è
condizione obbligatoria affinché tale “passaggio verso la poesia” possa
compiersi. Nella “scrittura di scena” del Nostro, infatti, il Testo è
interscambiabile spazzatura, relitto del “teatro tolemaico” da usare,
violentandolo, per sgombrare il campo dall’equivoco della
“rappresentazione” e della “letteratura”. Così tutto il “ciclo delle letture”,
di Dante, Majakovskij, Leopardi, Dino Campana dà a Bene l’occasione
irripetibile di affermare il principio della “musicalità del verso” come
“risonar del dire oltre il concetto”. La voce dell’attore si volge, in questo
caso, a testimoniare la scissione tra significato e significante della parola
6
poetica, e dona al significante il massimo risalto, identificandolo con
l’elemento in cui quella “musicalità” si fa “corpo”.
È questa la chiave di volta “copernicana” di tutto il lavoro di Carmelo
Bene. Per cogliere appieno la portata di una simile innovazione ci è
sembrato opportuno –più che declinare un impalpabile lessico filosofico,
come spesso hanno fatto e fanno certi esegeti, anche “accreditati”-
lavorare sui testi, entrare nel “cantiere” degli spettacoli beniani,
studiando con attenzione il gioco delle citazioni, delle suture, del
montaggio e dello smontaggio dei materiali scenici. La presente
indagine, pertanto, prenderà in esame alcuni esempi della produzione del
Nostro, come altrettanti “campioni” di essa, applicandovi l’approccio
sociologico della “teoria della ricezione”. Il criterio selettivo si orienterà
in direzione di quegli spettacoli -cinematografici, televisivi o teatrali –
intorno ai quali disponiamo di abbondante documentazione testuale e
audiovisiva: i film, innanzitutto, ma anche due esiti finali del “ciclo di
Shakespeare”, Hamlet Suite e Macbeth Horror Suite, senza tralasciare,
naturalmente, una tra le più alte prove del “ciclo delle letture”, i Canti di
Leopardi. Siamo convinti, infatti, che l’analisi attenta e puntuale di
queste opere –nonché, nella misura in cui lo consente la documentazione
disponibile, delle precedenti versioni di esse- sia sufficiente a fornire
un’idea esatta del lavoro compiuto da Carmelo Bene sui testi e sui
materiali extra – testuali (lo specifico filmico, televisivo e teatrale, il
7
rapporto col Mito e con la Storia, l’uso del linguaggio musicale e così
via). La scelta di prendere in considerazione dei film, degli eventi teatrali
e dei “concerti” per voce solista permette, infatti, di vedere la “macchina
attoriale” beniana all’opera mentre svolge la propria azione “de-
costruttiva” del linguaggio in tutti i campi dello spettacolo: prima
“corrodendo” il Mito quando esso si esprime per mezzo di immagini
cinematografiche, poi “esautorando” sui palcoscenici la figura del
“Grand’Attore” della tradizione europea, infine dando il massimo di
risonanza -nel corso delle letture in versi- al significante della parola
poetica, ormai libero dalla schiavitù del significato. Di sicuro il metodo
di indagine prescelto presenta caratteristiche evidenti –peraltro volute- di
“parzialità” ed “empirismo”. Proprio per questo, tuttavia, ci è sembrato
particolarmente adatto a rendere ragione di un’arte “lacerata”,
inconcepibile senza un’estetica del “frammento significante” in virtù
della quale ogni spettacolo si fa “eco musicale” di quanto resta del
“Teatro”.
8
CAPITOLO PRIMO
Una biografia
Tracciare un curriculum vitae di Carmelo Bene, attore, regista, autore –
in una parola, artifex – rischia di risolversi in un’impresa vana, o
addirittura fuorviante, se si prende alla lettera quanto lo stesso Bene
dichiara all’inizio della sua recentissima autobiografia, scritta in
collaborazione con Giancarlo Dotto:
Il tempo non esiste. Non mi sento nato e non mi sento cristiano, tantomeno cattolico.
Non festeggio, né lutteggio i miei anniversari. In quanto all’anagrafe, rifiuto
categoricamente certificati e date, imputabili semmai a quello sfaccendato di Aloysius
Lilius
1
.
1
Carmelo Bene, Giancarlo Dotto, Vita di Carmelo Bene, Milano, Bompiani, 1998, p. 7-8. (Tutte le citazioni tratte da quest’opera,
salvo indicazione differente, devono attribuirsi a Carmelo Bene)
9
Questi, medico ed astronomo vissuto nel XVI secolo, viene definito poco
dopo dall’autore come “un mascalzone patentato”, reo di aver realizzato
nel 1582, su commissione del pontefice Gregorio XIII, la stesura del
progetto da cui sarebbe sortito “l’orrore metafisico” del calendario detto
appunto “gregoriano”. Colpa imperdonabile, “muraglia cinese contro
l’innocenza del divenire, che non dovrebbe ammettere certificazioni
come la carta del tempo”
2
. E d’altra parte questo “essere fuori dalla
storia”, questo perseguire costantemente “lo smarrimento delle genti”
sarà sempre un motivo portante di tutta la produzione beniana, in
particolar modo, come vedremo, del Lorenzaccio tratto da Alfred de
Musset.
Ma l’“abbandonarsi”, l’“uscir fuori dai modi per pervenire là dove non
v’ha più modo”, in cui consiste l’ideale umano ed artistico di Bene, può
causare qualche problema se applicato nel contesto di una tesi di laurea.
Sarà prudente, quindi, in questa sede, ripetere pedissequamente con il
famigerato Lilius che il primo settembre del 1937 Carmelo Pompilio
Realino Antonio Bene nacque in quel di Campi Salentina, in provincia di
Lecce, da Umberto Bene e Amelia Secolo, per la precisione alle 9:30 del
mattino
3
.
2
Ivi, p. 8.
3
Comune di Campi Salentina, Ufficio dello Stato Civile, estratto per riassunto dal Registro degli atti di nascita dell’anno 1937, Parte
1, Numero 181.
10
L’omaggio bieco e sfacciato a quell’acerrimo nemico del divenire
innocente che fu papa Gregorio non deve far dimenticare, comunque,
l’importanza dell’humus culturale e antropologico salentino nella
formazione del futuro autore di
Nostra Signora dei Turchi e di Giuseppe Desa da Copertino – A
boccaperta. La fortissima impronta del “Sud del Sud dei santi”, di un
certo “barocco” rutilante di colori e allo stesso tempo scarnificato e
“mortuario”, rimarrà, infatti, come un marchio stilistico inconfondibile
dell’intera opera di Bene. Nessuna ombra di regionalismo, certo, ma pure
non si può dar torto a Giancarlo De Cataldo quando afferma:
C’è, insomma, un tipo culturale leccese che è addirittura un tipo fisico: donne alte e
snelle, eleganti e altere, vagamente snob, uomini bellissimi – come da ragazzo fu Bene
– nelle cui fattezze si sublimano i tratti più nobili delle razze predatrici e di quelle
predate, intessuti di astuta concretezza e melanconica dissipazione, inclini all’azione
guerriera come alla meditazione e al fatalismo, architetti di opere immortali quanto
sensibili al vizio sino a sprofondare nella più completa perdizione. Grandi aristocratici,
qualunque ne sia il censo, hanno in odio le convenzioni borghesi e i giudizi formulati
sul metro della normalità: esseri altri e alteri, si ritengono votati comunque all’idolatria
del sublime
4
.
4
Giancarlo De Cataldo, Terroni, Milano, Theoria, 1995, p. 120.
11
Già in una precedente autobiografia del 1983, Sono apparso alla
Madonna- Vie d’(h)eros(es), l’attore pugliese aveva evocato “queste
origini reali e immaginarie insieme”, ricordando quanto esse fossero state
fondamentali per quanto poi sarebbe seguito del suo “non esserci”. Senza
una “siffatta premessa etnica”, scriveva Bene, egli non sarebbe mai
potuto accedere
all’essere senza fondamento, alla spensieratezza, a un’arte teatrantesi che inscena la
sospensione del tragico dopo Nietzsche, la irrappresentabilità, il piano d’ascolto in
quanto dire, la femminilità come abbandono, la fine del teatrino conflittuale dell’io e
delle sue rappresaglie, la mancanza di che si consiste
5
.
In questo universo salentino, paradisiaco e “stupendo” (nel senso
etimologico del termine), l’esperienza religiosa, il servir messa tre o
quattro volte al giorno, si risolve in un primo approccio al “rito” scenico,
successivamente rinnegato. Sarà proprio “il culto come oltraggio al dio
assente” a suggerire a Bene la sua “rivoluzione” teatrale “copernicana”,
la “sospensione del tragico”, il già ricordato “rifiuto d’esser nella storia”,
in qualunque storia, “anche e soprattutto in scena”.
5
Carmelo Bene, Sono apparso alla Madonna – Vie d’(h)eros(es), in Opere, Milano, Bompiani, 1995, p. 1054.
12
Sin dall’infanzia e dalla prima adolescenza, dunque, “teatro” per
antonomasia, sarà, secondo Carmelo Bene, solo quello “lirico”: suoni,
luci, fasti, sperpero, spettacolo “dove innanzitutto non si parlava come
nella vita”
6
. Un gustoso episodio raccontato in Sono apparso alla
Madonna dimostra come il futuro demolitore della figura dell’attore –
interprete fosse già all’opera in nuce da bambino. Così infatti Bene
ricostruisce la sua prima, estraniata esperienza di spettatore del teatro “di
prosa”:
“Quando cantano?” importunavo la nonna.
“Ignorante, questi non cantano, parlano.”
“Parlano e son pagati?”
“E perché no, vuoi che parlino gratis?”
“Ma il teatro è lo stesso dove si viene a sentir la musica e cantare.”
“Uff! questi non c’entrano con la musica. Non hanno voce.”
“E allora, che ci siamo venuti a fare?” Non mi capacitavo. Mi pareva sempre che quelli
in scena stessero accordandosi tra di loro. “Ma se parlano dei fatti loro, perché allora
non parlano più piano? Si sente tutto!”
“Ignorante! ignorante! mi domando che sarà di te da grande. E non mi fai capire un
accidenti.”
“Ma che t’importa, se son fatti loro?”
“Come ‘son fatti loro’?” E s’inquietava in dialetto leccese la mia nonna. “Andiamo
via!” E si alzava. “Sabato sera c’è Aureliano Pertile, andiamo via ti dico. Queste cose tu
non le puoi capire.”
6
Ivi, p. 1112.
13
Non le capivo, infatti, e son trascorsi più di trent’anni, e “quelle cose” non le intendo
ancora
7
.
Una così precoce attitudine alla vanificazione del concetto di “attore”
inteso come colui il quale “passa due ore sulla scena, presente il
pubblico, per mettersi d’accordo con gli altri attori, e non canta mai”,
sfocia, il primo ottobre del 1959, nell’esordio di Carmelo Bene,
ventiduenne, sul palcoscenico del “Teatro delle Arti” di Roma,
capocomico e protagonista nel Caligola di Albert Camus. Lo spettacolo,
pur maltrattato da una certa parte della critica, rivelò al pubblico “un
attore nuovo, pieno d’idee e di mezzi tecnici fino allo spreco”
8
, come
scriverà in seguito Giovanni Galloni sull’“Unità”. Trionfo davvero
inaspettato, quindi, per un anarchico di genio che prima di debuttare,
pressoché adolescente, era stato capace di frequentare senza alcun
profitto due accademie di recitazione romane, la “Sharoff” e la “Silvio
D’Amico”, portandovi per giunta lo scompiglio. Nella sua Vita l’attore
salentino ricorda una battutaccia ripetuta spesso, a quei tempi, nei
corridoi della “D’Amico”: “Come va? Non c’è Bene, grazie”
9
.
7
Ivi, p. 1112-1113.
8
Giovanni Galloni, citato da Carmelo Bene in Sono apparso alla Madonna, in Opere, cit., p. 1061.
9
Carmelo Bene, Giancarlo Dotto, Vita di Carmelo Bene, cit., p. 44.
14
Negli anni successivi Carmelo Bene mette in scena – o meglio, volendo
usare le sue stesse parole, toglie di scena – “situazioni” teatrali che
ritorneranno ciclicamente lungo tutto l’arco della sua carriera. Del 1960,
infatti, è la prima edizione di Spettacolo-concerto Majakovskij, allestita
presso il Teatro alla Ribalta di Bologna con musiche di Sylvano Bussotti.
Nel 1961, a Roma, è la volta dell’adattamento scenico di Pinocchio, da
Carlo Collodi, e dell’Amleto di Shakespeare, ambedue dati al Teatro
Laboratorio. Salomè, da Oscar Wilde, vede la luce nel ’64 sempre a
Roma, al Teatro delle Muse. Di nuovo un palcoscenico della capitale,
quello del Teatro Beat 72, ospita nel 1966 la prima di Nostra Signora dei
Turchi.
Gli anni fra il 1968 ed il 1973 circoscrivono quella che Bene definisce la
sua “parentesi eroica”, “il ciclo della dépense” cinematografica: due
cortometraggi, Hermitage (1968) e Ventriloquio (1970), e cinque
lungometraggi, Nostra Signora dei Turchi (1968), Leone d’argento al
Festival di Venezia di quell’anno, Capricci (1969), Don Giovanni
(1971), Salomè (1972) e Un Amleto di meno (1973).
Il successivo ritorno al teatro mostra un Carmelo Bene più consapevole
della validità dell’apporto che l’elettronica e le nuove tecnologie, apprese
mediante l’esperienza del set, possono arrecare alla sua nuova
concezione della scena. I cinque film consecutivi, “diretti, prodotti,
15
«scemografati», decorati, vestiti, calzati, registrinterpretati”
10
in proprio,
confermano nell’artista salentino l’idea che anche l’immagine è ascolto.
“Le posture del corpo, le poggiature del capo, gli abbandoni, tutto è
musica”
11
. Siamo alla nascita della macchina attoriale “tritalinguaggio –
rappresentazione – soggetto – oggetto – Storia”
12
. Dalle macerie del set,
nota Giancarlo Dotto, fuoriesce un monaco estremo con il magnetismo di
un Rasputin e gli strumenti modernissimi finalmente adeguati allo scopo
e all’alta velocità con cui è necessario perseguirlo: lo schianto inteso
come sottrazione perpetua. La lezione di Eduardo De Filippo e quella di
Salvador Dalì spingono Bene da un lato ad una concezione più
imprenditoriale di sé artista, dall’altro alla pratica del “depensamento”
come apice di un fare teatro che, prendendo le mosse da Antonin Artaud
– in particolare da Il teatro e il suo doppio - lo trapassi “realizzandolo”,
ben al di là di quanto allo stesso Artaud era bastato animo di fare.
Questo Teatro con la lettera maiuscola sfugge al ricatto incrociato
dell’utile e del dulce, a qualsiasi retorica del delectare e del monere:
10
Carmelo Bene, Sono apparso alla Madonna – Vie d’(h)eros(es), in Opere, cit., p. 1132.
11
Giancarlo Dotto, Vita di Carmelo Bene, cit., p. 310.
12
Carmelo Bene, Autografia d’un ritratto, in Opere, cit., p. XIV.
16
Ma il teatro (se autentico) è un non-luogo. Non ha da essere compreso. È nientemeno
che irrappresentabile […] Non ha “messaggi” da distribuire. Il teatro (se è tale)
comunica un bel niente. È depensamento antidialettico e privo di coscienza collettiva.
Risveglia energie dimenticate. Il suo scopo non è consolatorio. È inumano. Anti-
terapeutico. Capite? Anti! Eutanasiaco. Il teatro è un altrove che trasforma in uomini i
cittadini, e non viceversa […] Il Teatro non fa né piangere né ridere: aliena! Ordunque:
se lo Stato lo “assiste”, sta finanziando un attentato. Un crimine. Un incessante e
qualitativo progetto di strage. Il Teatro, beninteso
13
.
Romeo e Giulietta (storia di W. Shakespeare), secondo C.B., in prima
assoluta al Teatro Metastasio di Prato il 17 dicembre 1976, segna, per
ammissione dello stesso Carmelo Bene, la svolta di tutto il suo teatro, la
sua prima “avocazione – frantumazione in tutti i ruoli”. Dopo sei recite
Franco Branciaroli dà forfait per ragioni di salute, ed è sostituito da un
attore mimo, Luca Bosisio, che recita un Romeo diciottenne, in play-
back come tutti gli altri attori. Da allora in poi il play-back diventerà
“l’espediente tecnologico – teologico” principe, nell’opera beniana, per
situare la voce “al di là del soggetto”
14
. È soltanto l’inizio di un proficuo
“ciclo” shakespeariano, che immediatamente dopo continua con il
Riccardo III, da W. Shakespeare, secondo C.B. (Cesena, Teatro Bonci,
13
Carmelo Bene, Giancarlo Dotto, Vita di Carmelo Bene, cit., p. 315.
14
Ivi, p. 323.
17
22 dicembre 1977) e con Otello, o la deficienza della donna, da W.
Shakespeare, secondo C.B. (Roma, Teatro Quirino, 18 gennaio 1979).
La rapida messa a punto della macchina attoriale tritalinguaggio
attraverso l’incursione nel teatro elisabettiano prelude all’“avventura
concertistica del poema sinfonico (s)drammatizzato”, “in che l’orchestra
dalla Macchina Attoriale s’innesta al canto dei soli, del coro e alla massa
sinfonica orchestrale”
15
. Tre le tappe fondamentali: Manfred, di Byron,
musiche di R. A. Schumann, traduzione italiana, regista e voce solista
C.B. (orchestra e coro dell’Accademia di Santa Cecilia, Roma,
Auditorium di Via della Conciliazione, 6 maggio 1979), Hyperion, di B.
Maderna, suite dall’opera per flauto, oboe, voce recitante, coro e
orchestra (da F. Hölderlin), traduzione italiana, adattamento, voce
solista C.B. (orchestra e coro dell’Accademia di Santa Cecilia, Roma,
Auditorium di Via della Conciliazione, 23 novembre 1980), Egmont (un
ritratto di Goethe), versione italiana ed elaborazione da Goethe, musiche
di L. van Beethoven, voce solista C.B. (orchestra dell’Accademia di Santa
Cecilia, Roma, Piazza del Campidoglio, 30 giugno 1983).
15
Carmelo Bene, Manfred, in Opere, cit., p. 921.
18
La ricerca incessante della “musicalità” intesa come “lo spirito della
musica, formatore di miti”, di cui parla Friedrich Nietzsche ne La nascita
della tragedia, il perseguire forsennato ciò che è altro da “musica
eccitante o musica evocativa, cioè o uno stimolante per nervi insensibili e
consunti o musica descrittiva”
16
, si manifestano, in questo stesso periodo
dell’attività di Carmelo Bene, nel ricorso sempre più frequente alla
pratica della “lettura”. È l’ennesimo, straordinario “ciclo”, aperto dalla
quinta edizione di Spettacolo – concerto Majakovskij (Majakovskij-Block
– Esenin-Pasternak) (Perugia, Teatro Morlacchi, 21 settembre 1980) e
proseguito con Divina Commedia, “Lectura Dantis” per voce solista
(Bologna, Torre degli Asinelli, 31 luglio 1981), Canti orfici, poesia e
musica (per D. Campana) (Milano, Palazzo dello Sport, 13 marzo 1982),
Mi presero gli occhi…, da F. Hölderlin e G. Leopardi (Torino, Teatro
Colosseo, 3 novembre 1983), L’Adelchi di A. Manzoni in forma di
concerto (Milano, Teatro Lirico, 23 febbraio 1984), Canti di G. Leopardi
(Recanati, Piazza Leopardi, 12 settembre 1987).
16
Friedrich Nietzsche, La nascita della tragedia, in Opere 1870/1881, Roma, Newton Compton editori, 1993, p. 165.