Premessa.
La presente rIcerca si prefigge di ricostruire storicamente il
contenuto dell'opera di Carlo Melchionna, "Dissertazione istorica,
politica, legale, sulle novelle leggi del Re per le sentenze
ragionate, ossia l'esposizione delli Reali Dispacci de' 23
Settembre, e di 26 Novembre 1774. " pubblicata a Napoli nel 1775,
con l'intento di presentare alla "gioventù studiosa delle leggi" i
nuovi Dispacci del 1774, voluti dal sovrano Ferdinando IV
Borbone.
Nel corso della presente esposIzIOne CI SI soffermerà anche
sull' analisi di alcuni elementi essenziali alla ricostruzione
dell'ambiente storico in cui venne pensata e data alla luce l'opera
di Carlo Melchionna, quali la struttura giurisdizionale del Regno di
Napoli nel secolo XVIII, la connotazione feudale del territorio
meridionale ed il potere baronale che era, sul finire del secolo,
ancora dilagante.
Insieme poi allo studio dei connotati culturali ed ideologici di
Carlo Melchionna, nel presente lavoro non si potrà prescindere da
5
alcuni cenni alla figura del ministro Tanucci, ponendo in rilievo la
sua fama di grande riformatore; verrà inoltre effettuato un breve
ritratto della personalità di Ferdinando IV e del suo ruolo nella
formulazione dei Dispacci.
Questi provvedimenti si inserirono in quel movimento legislativo,
proprio del secolo XVIII, volto alla riforma dell'amministrazione
della giustizia, decretando l'obbligo di motivazione delle sente=e
ed il divieto di fondare le decisioni sulle opinioni dei giuristi.
Tali leggi, promulgate da Ferdinando IV, furono in realtà pensate e
progettate dal primo ministro di casa Borbone, Bernardo Tanucci,
al quale va riconosciuto tutto il merito sia riguardo alla iniziativa,
sia riguardo alla materiale redazione del testo.
Obiettivo del presente lavoro è dunque lo studio della
Dissertazione di Carlo Melchionna, l'analisi dei principi previsti
dai Dispacci, così come rielaborati e commentati dal giureconsulto,
nonché la ricerca dei motivi per i quali egli ritenga utile
l'elaborazione di un'opera che può essere considerata un trait
d'union tra la legge scritta e i destinatari della stessa.
6
CAPITOLO I
Panorama storico - politico del Regno di Napoli alla fine
del secolo XVIII.
Paragrafo 1 - La struttura del sistema giurisdizionale nella
seconda metà del sec. XVIII.
Il 1774 è l'anno in cui vedono la luce i Dispacci Tanucciani.
Il mondo della giustizia nel Regno napoletano attraversa un
periodo di travaglio che ha origini lontane. Il fulcro del problema lo
si rinviene nella mancanza di una giurisdizione gestita direttamente
dall'autorità del sovrano, che non riesce pertanto ad essere
centralizzata ed unitaria; una giurisdizione frammentata,
contraddistinta dalla presenza di una moltitudine di organi locali,
dotati di competenza su materie particolari o su categorie di
persone dotate di speciali privilegi. l Sovente inaspriva un violento
contrasto, percepibile soprattutto fra la giurisdizione ordinaria,
l A. De Martino, Antico regime e rivoluzione nel Regno di Napoli. Crisi e trasformazione
dell'ordinamento politico. Napoli 1972, pa go 60 e ss.
7
identificata con la classe dei magistrati, e quella feudale, la CUI
gestione era affidata aI Baroni: i due potenti fronti SUI quali si
disponeva la resistenza a quel processo di accentramento
2
propugnato dalla Corona.
La giurisdizione baronale nacque come concessione del Re, come
attività da svolgersi sempre e comunque sotto l'ala dell'autorità di
governo. Questo atto del sovrano fu Invece volutamente
interpretato dagli interessati come legittimazione ad appropnarsl
dell'attività giudiziaria, ritagliandosi cosÌ una grande sfera di
autonomia ed indipendenza, possibilità agevolata anche dalla
confusione legislativa che permetteva ai giudici di essere creatori
della legge.
3
Inoltre, mentre in origine il foro privilegiato era stato
concepito con competenze ben definite, col passare del tempo tali
2 De Martino, Antico regime cit., pago 61.
3 Sul grave problema della confusione legislativa, molte erano le voci di denuncia, vertenti
anche sulla mancanza di un codice chiaro. In un documento conservato in ASN, Archivio
Tommasi, Busta V. n. 39, in De Martino, Antico regime cit., il Tommasi osserva: "L'illimitato
numero di leggi con cui si giudicava senza la compilazione di un codice corrispondente ai
bisogni della nazione e con un rito così complicalO e suscettibile di eccezioni, rendeva quasi
arbitri della sorte dei cittadini quei giudici e quegli avvocati che con maggiore avvedutezza
degli altri lo vincevano nel conflitto delle opinioni. " Anche il duca di Campochiaro riscontra i
medesimi problemi: "Le leggi che regolano le sorti di tutti i sudditi, o Sire, eccello di alcune
prammatiche, e di tutti li reali dispacci, sono scritte in una lingua morta ed affatto straniera
alla nazione ... una tal confosione ad altro non conduce se non ad inceppare i progressi della
pubblica felicità applicandosi lo maggior parte de' Vostri sudditi nell'inviluppo giudiziario."
Ragionamento sull'assoluto diritto ed indipendente che possiede Vostra Maestà di dominare il
Regno di Napoli, in ASN, Archivio Borbone, Busta 240, in De Martino, Antico regime ciI.
8.
limiti vennero infranti. Non esistevano più, nella prassI, delle
regole fisse che determinassero le competenze, venendosi perciò a
creare una situazione di perenne conflittualità tra giurisdizione
feudale e regia. I baroni dimenticarono un principio essenziale,
quello che viene ricordato dal duca D'Ascoli: "la giurisdizione è
un potere che emana direttamente dal Principe, arbitro sovrano e
supremo delle leggi e delle azioni dei sudditi". 4 Questo assioma
verrà ad essere il punto cardine dei Dispacci del 1774, dei quali
Melchionna, nel suo commento, ribadirà la necessità e la saggezza.
I Baroni erano detentori dell'attività giudiziaria e gestori
dell'apparato socio economico, non riuscendo però la loro classe a
configurarsi come potere politico autonomo.
5
La gestione della
giurisdizione si trasformò in strumento di potere, pronto ad
intaccare la struttura giudiziaria; divenne la fonte di ricchezza del
ceto baronale, luogo di corruzione e di favoritismi che permise loro
di acquisire un sempre più grande potere economico e sociale.
6
E
, De Martino, Antico regime cit., pago 61.Il duca d'Ascoli compilò un manoscritto dal quale
ricaviamo importanti notizie storiche, conservato in ASN, Esteri, n.3577.
, De Martino, Antico regime cit., pago 61. Il duca di Campochiaro, in una epistola indirizzata al
duca D'Ascoli, afferma: "Le infinite molteplici giurisdizioni nella Capitale e nel Regno,
viziano tanto l'interna circolazione giudiziaria che necessariamente si deve cadere in errori
che ali 'animo vostro clementissimo mille e mille volle avranno recato dolore. "
6 De Martino, Antico regime cit., pago 53 e S5.
9
dal momento in cui lo scopo fu raggiunto, la reazione a qualunque
modifica apportata dal sovrano, era sempre stata molto forte e
decisa. Il potere baronale usufruiva a proprio vantaggio della
legislazione lacunosa e permissiva, facendo anche di quest'ultima
uno strumento per aumentare il proprio potere.
7
Il possesso del
potere giurisdizionale era un punto di forza della feudalità, potendo
facilmente trasformarsi in ricchezza attraverso la prassi inerente
alla vendita degli uffici di giustizia, della quale i Baroni avevano il
controllo.
8
Inoltre, nell'esercizio dell'attività giudiziaria, costoro
riUSCIVano ad essere immuni da qualsiasi verifica pubblica di
carattere strettamente giuridico, usufruendo di strumenti molto
potenti, soprattutto di natura economica.
Il campo d'azione dei Baroni riuscì a rimanere invariato per tutta la
prima metà del '700, nonostante gli sforzi della dinastia Borbone
volti a limitame la potenza.
9
I Baroni conoscevano infatti molti e
7 De Martino, Antico regime cit., pago 86 e 55.
8 Ajello, Il problema della riforma giudiziaria e legislativa nel Regno di Napoli durante la
prima metà del secolo XVIII. Napoli 1961, pago 112 e ss. Si ritiene che il potere baronale fosse
potenziato dalla sottomissione di milioni di vassalli, pertanto l'unica modalità atta a
distruggere la struttura feudale sarebbe stata quella di emancipare la totalità dei vassalli,
riconducendoli direttamente al potere centrale e nel farne strumento di opposizione proprio nei
confronti di quella classe baronale che aveva suscitato in loro tanto odio, accumulatosi nel
corso di secoli di sfruttamento. Pago 113
, Ajello, Il problema della riforma ci!., pago 186. E' nota la debolezza dei governi borbonici
nei confronti di richieste supportate da ingenti donazioni, espediente utilizzato dalla classe
lO
raffinati strumenti per conservare il loro potere. Innanzitutto essI
non osservavano le disposizioni del sovrano, le quali vemvano
modificate dalle rielaborazioni compiute da dottrina e
giurisprudenza. lO Questa radicata abitudine costrinse il governo
borbonico a continue reiterazioni di provvedimenti, che erano
spesso destinati a cadere nel nulla. Il
Nel campo penalistico il mezzo principale di gestione arbitraria
della giurisdizione è da rinvenire nella ampia discrezionalità nello
scegliere il giudice destinato a presiedere il tribunale baronale,
prassI che provocò la trasformazione dell'ammirIistrazione
giudiziaria in una lucrosa fonte di guadagno, In un sistema di
l
· , 12
permanente vena Ita.
baronale allo scopo di ottenere vantaggi nel campo della giurisdizione feudale. Fu infatti
conseguenza di donativi l'abrogazione delle norme emanate nel 1738, volte a porre sotto
controllo la giurisdizione feudale. Pago 108.
IO Il Doria osservava: "Molli Baroni si credono nelle loro terre più che sovrani, e perciò
disprezzano gli ordini dei tribunali superiori e alle volte anche i Dispacci. " In De Martino,
Antico regime cit.
Il Ajello, li problema della rif orma cit., pago 108 e ss.
I2 De Martino, Antico regime cit., pag.69. Un passo importante è dedicato alla descrizione della
frequente pratica delle composizioni e delle transazioni dei delitti. Il giudice, durante lo
svolgimento del processo, è sempre solo con l'imputato, "dunque, compilandosi da lui con
una estesa facoltà il processo, qua/ora giustamente od ingiustamente divenga reo, anziché
vedeme lo punizione in conseguenza ad esempio degli altri, dipenderà allora dalla volontà del
barone, a misura che possede de' privilegi, il permutare lo pubblica soddisfazione contro il
delinquente con l 'utile pecuniario a suo favore o del giudice slesso. " Queste parole sono del
duca di Campochiaro, il quale afferma che la giustizia si risolve sempre a vantaggio dei ceti
privilegiati. Se, inoltre, i processi si spostavano dalla giurisdizione baronale a quella regia, la
sorte dei cittadini non andava incontro ad alcun miglioramento, poiché la gestione della causa
spettava al subalterno. Sulla figura dei subalterni, vedi nota n.24. Sulla scelta del giudice da
parte del feudatario, vedi Cap.I, Paragrafo l, nota n.22 .
Il
Risulta evidente come il panorama brevemente descritto non SIa
altro che l'eredità del periodo feudale, le cui vetuste strutture
ancora caratterizzavano gran parte della fascia territoriale
europea.
13
Nel Regno meridionale, però, la configurazione feudale
del mondo giudiziario assume senz'altro dimensioni molto ampie,
con grandi difficoltà nel realizzare un rinnovamento del sistema,
nonostante si facciano frequenti i tentativi in questo periodo di
egemonia borbonica.
14
In sostanza si può affermare che la classe
baronale aveva interesse al mantenimento dello status qua, avendo
nelle proprie mani ciò che restava del mondo feudale.
15
Da alcune fonti viene rilevato il dato secondo il quale la feudalità
delle strutture del Regno di Napoli sia stata debellata proprio nella
seconda metà del '700.
16
Questa affermazione può ritenersi
veritiera se il riferimento viene effettuato alle prerogative baronali
13 De Martino, Antico regime ciL, pago 61. R. Ajello, Il problema della riforma cit., pago \09.
14 In G. Pepe, Tanucci, riformatore fallito in Ricerche storiche ed economiche in memoria di
Barbaga/lo, a cura di L. De Rosa, troviamo la seguente affermazione: "Nessuna dinastia
prerisorgimentale fu più aperta alle riforme della dinastia borbonica da Cario III a Francesco
II. "
" Ajello afferma che i baroni ed i legali si coalizzarono contro i sovrani illuminati e contro le
riforme che tentavano di modificare e modernizzare il sistema, fra le quali possono essere
annoverate la legge del 1774, fallita proprio a causa della potenza di opposizione del ceto
baronale. R. Ajello, La rivolta contro il formalismo, in La formazione slorica del diritto
moderno in Europa, Atti del III Congresso della Società Italiana del diritto, 1977, pag.754.
" W. Maturi, Interpretazioni sul Risorgimento. Lezioni di storia della storiografia, Torino
1962.
12
!il campo politico. In effetti è noto che il ceto privilegiato non
riuscì a coalizzarsi in un potere politico centrale, ma il terreno della
sua massima autorità fu quello giurisdizionale e sociale e non fu
facile privare la classe dei Baroni di quella posizione di grande
autonomia conquistata nel corso di secoli.
Il duca di Campochiaro scriveva al sovrano: "] Baroni, per
mantenersi nel diritto feudale, compongono e coprono all'occhio
del! 'alta giustizia mille disordini, mentre tanti vostri sudditi
volendo sfuggir il rigore delle leggi, or si ricoverano sotto la
protezione del! 'uno, ed ora dell 'altro come se il delitto non fosse
uno, non una la proprietà e sicurezza, né uno il Sovrano che
punisce quello e difende l'altro. " Da queste parole si evince che il
problema principale era dato dall'esistenza di un abuso, e quindi
l'unica soluzione possibile consisteva nella soppressione definitiva
della giurisdizione baronale. 17
Il baronaggio verrà gradualmente smantellato solo in seguito
all'affermarsi di nuovi strati sociali, quali la borghesia rurale e il
17 De Martino, Antico regime cit., pag.67.
13
medio ceto urbano, ma sarà necessario, a questo proposito,
attendere l'arrivo del secolo XIx.
18
Al di là della prassi delle corti locali, l'indipendenza dal potere
centrale la si riscontra anche nei "Tribunali Supremi". Questi erano
per la maggior parte di istituzione sovrana e i provvedimenti finali
venivano. pronunciati in nome del monarca. Tuttavia, questa grande
vicinanza al potere centrale rendeva difficile, per la classe degli alti
magistrati, considerarsi sottomessi alla volontà sovrana. Più che
sudditi si autodefinivano collaboratori, collocandosi su posizioni
conservatrici tendenti all'autonomia e all'indipendenza. Il Sacro
Regio Consiglio fu infatti un grande elemento frenante nei
confronti di quel processo di accentramento che la Corona
auspIcava SI realizzasse, anche perché dotato di potere
regolamentare e del diritto di interinazione, consistente nel
controllo della legittimità degli atti regi, ai fini della loro
preventiva registrazione.
19
I togati erano ormai protagonisti di un
ordine costituzionale su cui il potere regio aveva cercato a più
18 De Martino, Antico regime cit., pago 64.
1 9 A. Cavanna, Storia del diritto moderno in Europa. Le fonti e il pensiero giuridico. Milano
1982, pago 229 e ss.
14
riprese di influire, senza dimostrare un'effettiva forza di cambiarlo,
di fronte alla resistenza sorda dei tribunali.
Quali massimi organi giudiziari, i loro precedenti divennero
vincolanti, non per disposizione regIa ma per consuetudine,
assurgendo a vera e propna fonte di diritto. In tal modo
esercitavano una grande influenza nei confronti di tutti gli altri
organI e guidavano le tendenze delle opinioni legate al mondo
forense.
Non essendoci inoltre l'obbligo di motivare le decisioni finali,
venivano ribadite la sacralità e la segretezza delle sentenze,
consentendo ai magistrati la conservazione del loro potere, della
loro libertà d'azione e l'insindacabilità del loro operato.
20
La giurisdizione ufficiale era quella che assumeva connotazioni
differenti a seconda delle condizioni personali di attori e convenuti.
Le decisioni erano diverse, a seconda dei tribunali aditi, con la
conseguenza che un comportamento poteva essere ritenuto
illegittimo da un organo giudicante e assolutamente lecito presso
un altro. Da ciò possiamo comprendere la scarsa fiducia del popolo
20 M. Aseheri, Tribunali, giuristi e istitUlioni dal Medioevo all"età moderna, 1989, pago 109 e
ss.
15