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Introduzione - Carlo Azeglio Ciampi a Palazzo Chigi: un uomo solo al comando?
Quella di Carlo Azeglio Ciampi appare, ad oggi, una figura il cui ricordo è ancora vivo nella maggior parte degli
italiani: in questo senso, è indiscutibilmente il suo ruolo di capo dello Stato - ricoperto dal 1999 al 2006 - ad
avergli conferito tale popolarità, con un elemento di forte novità - tra gli altri - caratterizzato dalla costante
presenza al suo fianco della moglie, la sig.ra Franca Pilla, divenuta una vera e propria “First lady”. Tuttavia,
anche da capo dello Stato, Ciampi ha mantenuto saldi alcuni principi metodologici e caratteriali che lo hanno
sempre contraddistinto: la trasparenza nelle scelte, le quali debbono essere condivise con tutti i soggetti
coinvolti - che così, quindi, vengono corresponsabilizzati; un forte senso dello Stato (declinato, durante il
settennato al Quirinale, in una fortissima valorizzazione del concetto di “patria” e dei suoi simboli); una
continua valorizzazione del pluralismo delle idee e del confronto dialettico.
Ciononostante, inserire la personalità di Carlo Azeglio Ciampi nel “confine temporale” del suo settennato alla
Presidenza della Repubblica (1999-2006) appare un’operazione che è quanto meno riduttiva, in quanto il suo
contributo al Paese è stato fondamentale anche in altre fasi storiche precedenti: è Governatore della Banca
d’Italia dal 1979 al 1993 (succedendo a Paolo Baffi, arrestato nell’ambito delle drammatiche vicende legate
al Banco Ambrosiano); presidente del Consiglio dei ministri dal 1993 al 1994 (chiamato da Oscar Luigi Scalfaro
nel pieno della bufera di Mani Pulite e della crisi finanziaria della lira); ministro del Tesoro, del Bilancio e della
programmazione economica dal 1996 al 1999 (con il principale obiettivo, suo e dell’intero governo Prodi, di
consentire al nostro Paese il risanamento dei conti pubblici e di partecipare sin dall’inizio alla moneta unica).
Nello spazio di questo elaborato, ci occuperemo in particolare della permanenza di Carlo Azeglio Ciampi alla
guida di Palazzo Chigi, dagli ultimi giorni di aprile 1993 al maggio 1994. Un periodo di svolta per il Paese,
travolto dalle inchieste della procura della Repubblica di Milano che hanno sconvolto il sistema partitico della
cosiddetta “Prima repubblica”, unitamente alla drammatica situazione in cui versavano i nostri conti pubblici
- con il rapporto debito pubblico/PIL per il 1993 al 115% e la lira uscita dal Sistema Monetario Europeo.
Ciò premesso, è da dire che in una trattazione sul contesto italiano della primavera del 1993 non si può non
tenere in adeguata considerazione quello che accade in quella stagione relativamente alle trasformazioni del
sistema partitico, in crisi già da diverso tempo e decimato dalle inchieste giudiziarie (le tante piccole o grandi
“Mani Pulite” sparse in quel momento in quasi tutte le città italiane). Si può ben comprendere come, in un
Paese come il nostro, che non ha mai conosciuto l’alternanza (anzi, in cui per quasi 50 anni c’è stata una
conventio ad excludendum nei confronti del più grande partito comunista dell’intero mondo occidentale), la
portata dirompente dell’elemento giudiziario, unita ad una vivace attività referendaria, porti a cambiamenti
molto rilevanti del quadro complessivo.
Per diverse autorevoli voci, è la necessità di portare a compimento una riforma dell’ordinamento elettorale
il motivo che ha portato alla nascita del governo Ciampi. Già nel giugno del 1991, quando a Palazzo Chigi c’è
ancora Giulio Andreotti e la cosiddetta “fine della Prima repubblica” sembra in là da venire, si tiene nel nostro
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Paese un referendum abrogativo, avente per oggetto l’abolizione, dal nostro ordinamento elettorale, della
possibilità per gli elettori di esprimere una preferenza multipla, in luogo dell’introduzione di una preferenza
unica; il leader del movimento promotore del referendum elettorale è il giovane esponente democristiano
Mario Segni (figlio dell’ex presidente della Repubblica Antonio, ndr). Con un’affluenza elevata, pari al 62.5%
degli aventi diritto - nonostante il leader socialista Craxi abbia suggerito agli italiani di andare al mare anziché
a votare - e con il 95% di voti favorevoli, è un vero e proprio successo per il movimento referendario, oltre
che un vero boomerang per “la vecchia politica”.
Un altro colpo alla struttura quasi cristallizzata del sistema partitico della cosiddetta “Prima repubblica” arriva
con le elezioni politiche tenutesi il 5 e 6 aprile 1992: la Democrazia cristiana, seppur ancora saldamente primo
partito del Paese, scende per la prima volta sotto la soglia del 30% dei consensi; il nuovo soggetto di sinistra,
il Partito democratico della sinistra (nato un anno prima a Rimini dalle ceneri del Partito comunista italiano,
in seguito all’uscita dei “cossuttiani” di Armando Cossutta
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) si ferma al 16%; mantengono relativamente i
propri consensi il Psi, il Pri e il Pli.
Ma il vero dato eclatante di quella tornata elettorale è costituito dall’exploit politico di un nuovo partito, la
Lega nord, guidata dal lombardo Umberto Bossi, passato dallo 0,42% delle elezioni politiche del 1987 all’8,5%
del 1992: un partito con fortissime tendenze federaliste - per non dire secessioniste - conformatosi come un
raccoglitore del malcontento del Nord verso i partiti tradizionali. Divenuto celebre, in questo senso, il coro
lanciato da parecchi esponenti leghisti: “Roma ladrona, la Lega non perdona”.
La composizione del Parlamento uscita dalla tornata elettorale del 1992, quindi, non consegna al Paese delle
maggioranze di governo facilmente configurabili. Come se non bastasse, a ciò si aggiunge la presenza di quel
fenomeno noto come “ingorgo istituzionale”: infatti, il 28 aprile 1992 (con tre mesi di anticipo rispetto alla
scadenza prevista) il presidente della Repubblica Francesco Cossiga rassegna le proprie dimissioni.
Se la partita sulla nomina dei presidenti dei due rami del Parlamento si chiude in tempi relativamente brevi,
con l’elezione del democristiano Oscar Luigi Scalfaro alla guida di Palazzo Montecitorio (eletto al IV scrutinio,
il 24 aprile 1992) e la riconferma del repubblicano Giovanni Spadolini alla Presidenza del Senato (eletto al III
scrutinio, tenutosi anch’esso il 24 aprile), di assai più difficile risoluzione appare la partita riguardante il nuovo
capo dello Stato, quindi quella del nuovo governo. La prima si risolve soltanto il 25 maggio 1992, sotto l’onda
emotiva dovuta alla strage di Capaci - in cui perdono la vita il giudice Giovanni Falcone, sua moglie Francesca
Morvillo e tre agenti di scorta - ed al tentativo eversivo di questa nei confronti delle istituzioni democratiche,
che in quel momento sembrano “brancolare nel buio”: con 672 voti, al XVI scrutinio, risulta eletto presidente
della Repubblica il democristiano Oscar Luigi Scalfaro (appena eletto presidente della Camera dei deputati -
sullo scranno di Montecitorio, lo sostituirà l’esponente pidiessino Giorgio Napolitano). La seconda, relativa
alla formazione del nuovo esecutivo, si risolve soltanto il 28 giugno, con il giuramento del primo governo
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Questa corrente, nel congresso del Pci di Rimini del 1991, sceglie di non aderire al nascente soggetto politico della
sinistra - il Pds - e di fondarne uno nuovo, che prende il nome di “Rifondazione comunista”.
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guidato dall’esponente socialista Giuliano Amato, indicato al capo dello Stato dal segretario del Psi Bettino
Craxi, e da questi preferito ad altri socialisti, quali Claudio Martelli o Gianni De Michelis.
Avviata dal governo Amato una politica severissima di risanamento delle disastrate finanze pubbliche - con il
sostegno di una maggioranza di quadripartito (Dc, Psi, Psdi, Pli) decimata dagli avvisi di garanzia emessi nei
confronti di ministri e parlamentari (di maggioranza ma non solo) - non si ferma nel frattempo l’attività del
movimento referendario guidato da Mario Segni, che raccoglie le firme per chiedere l’indizione di un secondo
referendum, avente ad oggetto l’abolizione del voto proporzionale per il Senato. Il referendum si tiene nelle
giornate del 18 e 19 aprile 1993, ed i risultati, contrariamente alle aspettative (almeno in termini assoluti del
risultato), rendono questo secondo referendum un vero trionfo: infatti, con un’affluenza alle urne del 77%
degli aventi diritto al voto, i voti a favore dell’abolizione del voto proporzionale per il Senato raggiungono
quasi quota 29 milioni, con una percentuale dell’82,74%.
Quel referendum, che ha visto una ferma opposizione soltanto del Msi di Fini e di Rifondazione comunista, e
sul cui risultato lo stesso leader referendario non avrebbe scommesso - “Personalmente […], non sono così
ottimista. Metterei la firma per arrivare al settanta per cento”
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- sortisce degli effetti che costituiscono un
vero e proprio terremoto per i vecchi partiti, e forse rappresenta il fattore scatenante della crisi di un governo
Amato già in difficoltà da diverse settimane, soggetto alle logiche vetuste e superate di una maggioranza di
quadripartito travolta dagli avvisi di garanzia e sempre più scollata dalla realtà del Paese - il quale, invece, è
chiaramente intenzionato a voltare pagina ed iniziare il capitolo del “maggioritario”.
Passano soltanto quattro giorni ed il 22 aprile 1993 Giuliano Amato rassegna le dimissioni sue e del governo,
dopo aver detto nel proprio discorso alle camere di dimissioni che si è davanti ad un comandamento indotto
dagli esiti del referendum - ossia la riforma della legge elettorale - e che il governo da lui guidato sino a quel
momento, nato sotto il vecchio sistema dei partiti, non può assolvere a quel comandamento. Tuttavia, appare
chiaro a tutti che “se esce di scena Amato, è tutto il vecchio Caf (Craxi-Andreotti-Forlani) che viene travolto
dalle richieste di autorizzazione a procedere […]”
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Ma i segnali di difficoltà per il governo guidato da Giuliano Amato iniziano già qualche settimana prima: è il
5 marzo 1993 quando l’esecutivo presenta il cosiddetto “pacchetto Conso”
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, un insieme di provvedimenti
legislativi volti alla depenalizzazione del reato di finanziamento illecito ai partiti, con carattere retroattivo -
una risposta politica a Tangentopoli, nelle intenzioni del Governo; un “colpo di spugna” della vecchia politica,
la percezione dell’opinione pubblica. Un’opinione pubblica, scandalizzata, che esprime tutto il proprio sdegno
e il proprio dissenso per l’operazione. Ed anche sulla base di questo moto di ribellione collettiva, il capo dello
Stato, Oscar Luigi Scalfaro, decide di non firmare quel decreto. Il governo resta in carica, ma ormai ha i giorni
contati.
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Mario Segni, La rivoluzione interrotta. Diario di quattro anni che hanno cambiato l’Italia, Milano, Rizzoli, 1994, p. 216.
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Carol Mershon, Gianfranco Pasquino, Politica in Italia. I fatti dell’anno e le interpretazioni. Edizione 94, Bologna, il
Mulino, 1994, p. 55.
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Dal nome dell’allora ministro di Grazia e Giustizia, Giovanni Conso.