2
sulla sensazione di ottenere la comprensione da parte del rispettivo partner, allora il legame può
rappresentare una fonte di sicurezza e protezione di fronte ad esperienze più o meno drammatiche e
difficili.
La ricerca ha avuto la possibilità di essere realizzata e condotta grazie soprattutto alla
collaborazione della dr.ssa Heyman e del prof. Bruno Brusoni, rispettivamente cardiologa e
Primario del Reparto di Cardiologia e U.C.C. dell’Azienda Ospedaliera Fatebenefratelli e
Oftalmico di Milano che, insieme al personale medico del suddetto reparto, hanno gentilmente
offerto la loro disponibilità ad attuare il progetto, permettendo la somministrazione di due strumenti
e di un’intervista ai pazienti ricoverati.
Il presente lavoro si articola in due parti. La prima parte è stata suddivisa in due capitoli: il
primo capitolo si è focalizzato esclusivamente sulla presentazione e la descrizione, da un punto di
vista biologico e medico, di alcune delle più frequenti patologie cardiovascolari che possono
colpire i pazienti.
Il secondo capitolo, invece, ha considerato gli aspetti psicologici e clinici inerenti la relazione
di coppia, nel tentativo di spiegare e chiarire in che cosa consiste il patto di coppia tra due partner
coinvolti in un legame, ma anche quali fattori di protezione e di rischio intervengano nel
determinare la qualità del rapporto e la sua stabilità, senza dimenticare che l’impatto critico della
malattia sulla coppia genera necessariamente delle reazioni nei coniugi, che spesso mettono in atto
meccanismi di difesa per allontanare la preoccupazione e il disagio generati mentre, in altri casi, i
partner sono in grado di adottare strategie di coping adeguate alla gestione e al superamento
dell’evento critico. Questi argomenti sono stati affrontati tentando di cogliere e comprendere i
comportamenti e gli atteggiamenti più frequenti all’interno della relazione della coppia provata e
debilitata dal dramma della malattia.
La seconda parte è a sua volta stata suddivisa in due capitoli: il terzo capitolo è stato dedicato
ad una descrizione quanto più accurata possibile degli strumenti che sono stati effettivamente
utilizzati nel corso della ricerca per valutare l’evoluzione della relazione di coppia in seguito alla
malattia. Innanzitutto è stata proposta l’intervista clinica di coppia, che ha permesso di
comprendere meglio la storia della coppia, dai primi momenti della conoscenza tra i partner fino al
riconoscimento, da parte di entrambi, di essere effettivamente uniti da un legame molto forte e
sincero. Successivamente sono stati sottoposti alle coppie due strumenti particolari: la Inclusion of
Other in the Self Scale e il Couple Life Space, utilizzati allo scopo di ottenere informazioni
aggiuntive e chiarificatrici relative alla modalità di percezione della relazione e dell’influenza della
malattia su di essa, in seguito alla sua manifestazione improvvisa.
Nel quarto capitolo, è stato introdotto il progetto di ricerca: sono stati presentati gli obiettivi, la
metodologia comprendente il campione di indagine, gli strumenti utilizzati, la procedura e la
modalità di analisi dei dati. In seguito, sono state descritte ed interpretate le informazioni ottenute
3
da ogni singola coppia, per potere infine compiere una analisi trasversale dei dati, che consentisse
una lettura complessiva dei dati ricavati durante ogni incontro con i partner.
Le conclusioni hanno dato la possibilità di verificare la validità delle ipotesi formulate
all’inizio del progetto, cogliendo quegli aspetti e quei comportamenti, che facilmente si riscontrano
nei pazienti e nelle mogli costretti a subire un’esperienza drammatica e traumatica, ma anche le
diverse modalità di affrontare e gestire la situazione, dalla consapevolezza del rischio al tentativo di
negazione e rimozione dell’avvenimento accaduto. Inoltre, è stato possibile comprendere se e come
la relazione di coppia si sia evoluta positivamente in seguito alla crisi, garantendo la serenità,
l’armonia e la stabilità al rapporto, sebbene messo a dura prova dalla malattia.
4
PRIMA PARTE
CAPITOLO 1
LE MALATTIE CARDIOVASCOLARI: ASPETTI BIOLOGICI E MEDICI
Le malattie cardiovascolari sono responsabili del 44 % di tutti i decessi in Italia e, in generale,
nonostante importanti differenze tra Paesi, sono la causa principale di morte in tutto il mondo.
Recenti dati epidemiologici hanno evidenziato il rapido aumento di mortalità cardiovascolare nei
Paesi dell’est europeo, ma anche un incremento delle patologie cardiache nei Paesi più sviluppati, a
causa di una diminuzione delle malattie infettive e malnutrizione ed un progressivo aumento di
patologie correlate allo stile di vita.
I fattori psicosociali coinvolti nello sviluppo di malattie cardiache includono aspetti
dell’ambiente sociale e professionale. Infatti, i tempi oppressivi, l’alta richiesta di concentrazione,
l’elevata responsabilità impiegata nelle attività quotidiane svolte, le richieste eccessive in ambito
lavorativo, ma anche il limitato e scarso potere decisionale in diversi contesti della vita delle
persone, sono associati ad un alto rischio di sviluppare malattie cardiache. Occorre aggiungere,
inoltre, che tali eventi possono essere vissuti come traumatici dai soggetti coinvolti e, di
conseguenza, generare un elevato livello di stress che, come è noto, rappresenta una delle principali
cause dell’insorgenza di cardiopatia.
I sintomi prodotti dalle malattie cardiache derivano più frequentemente da ischemia
miocardica, da alterazioni della contrazione e/o dal rilasciamento del miocardio, da ostruzioni al
flusso ematico o da anomalie del ritmo o della frequenza cardiaca.
L’ischemia, generalmente, si manifesta con dolore toracico, mentre la riduzione della funzione
di pompa del cuore induce astenia e affaticabilità oppure, quando è particolarmente grave, cianosi,
ipotensione, sincope, aumento della pressione intravasale a monte del ventricolo insufficiente,
anomala ritenzione di liquidi che, a loro volta, determinano dispnea, ortopnea ed edema sistemico o
polmonare. Un’ostruzione al flusso di sangue, quale si verifica nelle stenosi valvolari, può dar
luogo a sintomi simili a quelli che derivano dallo scompenso cardiaco congestizio, anche in
presenza di una funzione miocardica normale o vicina alla norma. Le aritmie cardiache si
sviluppano spesso improvvisamente. I segni e sintomi che ne risultano, quali palpitazione, dispnea,
angina, ipotensione e sincope, insorgono rapidamente e possono scomparire con la stessa rapidità
con cui si sono sviluppati.
Uno dei criteri utili per la valutazione del paziente con sospetta cardiopatia e anormalità della
funzione miocardica o coronarica a riposo è la comparsa di disturbi durante l’esercizio: perciò una
storia di dolore toracico e/o dispnea che compaiono solamente durante l’attività è caratteristica di
5
cardiopatia, mentre la situazione opposta, ossia la comparsa dei sintomi a riposo e la loro
remissione durante l’esercizio fisico è raramente osservabile in pazienti con cardiopatie organiche.
I pazienti con malattie cardiocircolatorie possono peraltro essere asintomatici, sia a riposo sia
durante l’esercizio fisico, ma possono presentare anomalie obiettive, quali soffi cardiaci, aumento
della pressione arteriosa sistemica, alterazioni dell’elettrocardiogramma, o dell’ombra cardiaca alla
radiografia al torace. Talvolta viene riscontrata la presenza di un’ischemia silente in pazienti
sottoposti a esame ergometrico o ad elettrocardiogramma ambulatoriale.
Le malattie del cuore e del circolo sono molto frequenti ed è per tale motivo che anche i
pazienti sono in grado di riconoscere i primi sintomi: solo occasionalmente attribuiscono
erroneamente sintomi non cardiaci a malattie cardiovascolari organiche. La diffusione del timore
per le malattie di cuore nel mondo occidentale, unita ai connotati profondamente emotivi propri
della funzione di questo organo, determinano in persone con sistema cardiovascolare normale lo
sviluppo di sintomi, che mimano quelli delle malattie organiche. Talvolta risulta complicato
interpretare correttamente anche i sintomi dei pazienti con malattie cardiovascolari note poiché
questi, oltre ad avere sintomi causati dalla loro malattia reale, possono presentarne anche altri di
natura funzionale, riferibili al sistema cardiovascolare: la distinzione tra segni e sintomi
direttamente dipendenti dalla cardiopatia organica da quelli non direttamente correlati, è un
obiettivo diagnostico importante, anche se spesso difficile. Nei pazienti con malattia
cardiovascolare è pertanto fondamentale porre particolare cura nello stabilire non solo una diagnosi
corretta, ma anche una diagnosi completa, tenendo in considerazione l’eziologia, le alterazioni
anatomiche e fisiopatologiche, la gravità dell’alterazione funzionale.
1.1 Infarto miocardico acuto
Nei paesi occidentali, l’infarto miocardico rappresenta una delle cause più frequenti di
ricovero. Negli Stati Uniti, ogni anno si verificano 1,5 milioni di infarti miocardici, mentre in Italia
si stimano circa 120.000 casi. La mortalità dell’infarto miocardico acuto è dell’ordine del 30%:
poco più della metà delle morti avviene prima che il soggetto colpito dall’attacco riesca a
raggiungere l’ospedale. Sebbene la sopravvivenza successiva all’ospedalizzazione sia migliorata
nel corso degli anni, un ulteriore 5-10% dei pazienti che sopravvive alla fase acuta decede nel corso
del primo anno. Negli Stati Uniti il numero complessivo dei decessi per infarto non ha subito
variazioni significative; il rischio di morte e di recidive di infarto miocardico non fatale persiste
anche a distanza di tempo.
L’infarto miocardico è generalmente la conseguenza di una brusca diminuzione del flusso
ematico coronarico, che segue a un’occlusione trombotica di un’arteria coronaria precedentemente
colpita da aterosclerosi. La progressione della lesione aterosclerotica fino al punto in cui si ha la
6
formazione del trombo è un processo complesso correlato al danno vascolare. Tale danno viene
prodotto o facilitato da fattori quali il fumo di sigaretta, l’ipertensione e l’accumulo di lipidi. Nella
maggioranza dei casi, l’infarto si manifesta quando nel contesto di una placca aterosclerotica si
verificano fissurazioni, rotture o ulcerazioni e, in condizioni che favoriscono la trombogenesi
(fattori locali o sistemici), si forma un trombo murale che porta all’occlusione coronarica.
Seppur più raramente, un infarto può essere anche causato da un’occlusione embolica di
un’arteria coronarica, da anomalie congenite, spasmo coronarico ed un’ampia varietà di patologie
sistemiche, in particolare di origine infiammatoria.
La gravità del danno miocardico determinato dall’occlusione coronarica dipende dall’area
irrorata dai vasi colpiti, dall’entità dell’occlusione, dalla presenza di fattori naturali che possono
dare luogo ad una lisi precoce e spontanea del trombo occlusivo, dall’apporto ematico proveniente
da vasi collaterali e dalla richiesta di ossigeno da parte del miocardio, il cui rifornimento ematico è
stato improvvisamente ridotto.
Tra i pazienti che presentano un maggior rischio di infarto miocardico acuto, vi sono i soggetti
con angina instabile, fattori multipli di rischio coronarico, e angina instabile di Prinzmetal. Fattori
eziologici meno frequenti comprendono la tendenza all’ipercoagulazione, l’embolia coronarica, le
collagenopatie vascolari e l’abuso di cocaina.
Sebbene in circa la metà dei casi d’infarto non si riscontri la presenza di fattori precipitanti,
spesso si possono identificare come cause scatenanti l’esercizio fisico, gli stress emotivi e alcuni
disturbi di carattere medico o chirurgico. L’infarto miocardico può verificarsi in qualsiasi momento
del giorno o della notte, ma si manifesta con maggiore frequenza al mattino, nelle prime ore dopo il
risveglio. Il sintomo più comune lamentato dai pazienti affetti da infarto miocardico acuto è il
dolore, a volte descritto come il peggiore dolore mai provato. Tale dolore è di tipo viscerale,
profondo: viene normalmente descritto come un dolore gravativo, costrittivo od oppressivo. In
genere, dal punto di vista qualitativo, è simile al dolore dell’angina pectoris, ma di solito è più
intenso e prolungato; abitualmente interessa la regione precordiale e/o l’epigastrio e, nel 30% dei
casi circa, si irradia alle braccia. Le altre zone meno comuni di irradiazione comprendono
l’addome, il dorso, la mandibola e il collo. Una localizzazione del dolore all’epigastrio e
l’atteggiamento del paziente, che spesso nega di avere un attacco cardiaco, possono disorientare e
indurre ad una diagnosi errata di indigestione. Il dolore può irradiarsi fino alla regione occipitale,
ma non al di sotto dell’ombelico: spesso è accompagnato da astenia, sudorazione, nausea, vomito,
tremori e ansietà. Solitamente, inizia quando il paziente è a riposo; nei casi in cui insorga durante
uno sforzo, tuttavia, non si risolve con l’interruzione dell’attività, a differenza di ciò che accade
comunemente nell’angina pectoris. Circa la metà dei soggetti con infarto miocardico presenta
prodromi di angina instabile.
Anche se il dolore è il sintomo più frequente, a volte esso non è presente: almeno il 15-20%
degli infarti miocardici avviene senza dolore. La frequenza di infarti silenti è maggiore nei pazienti
7
con diabete mellito, e aumenta con l’età. Nell’anziano, l’infarto miocardico si può presentare con
un quadro di dispnea improvvisa, che può progredire verso l’edema polmonare.
Altre modalità meno frequenti di insorgenza dell’infarto miocardico, con o senza dolore, sono
l’improvvisa perdita di coscienza, la presenza di uno stato confusionale, una sensazione di
profonda astenia, la comparsa di un’aritmia, la presenza di un’embolia periferica o, più
semplicemente, l’improvvisa ed inspiegabile caduta della pressione arteriosa. Il dolore infartuale
ricorda talora il dolore della pericardite acuta, dell’embolia polmonare, della dissezione acuta
dell’aorta, o della costocondrite. Di tali patologie occorre tenere conto, ai fini di una diagnosi
differenziale.
Nell’ambito di un trattamento medico permanente, gli interventi di rivascolarizzazione
meccanica costituiscono episodi di fondamentale importanza, tuttavia non sostituiscono il continuo
intervento terapeutico che deve essere adeguato alla sintomatologia e deve modificare i fattori di
rischio.
Il bypass aortocoronarico è una metodica ampiamente diffusa tra pazienti infartuati. In
genere viene utilizzato un tratto di vena (di solito la safena), che funge da connessione tra l’aorta e
l’arteria coronaria, distalmente al punto della lesione ostruttiva. Una valida alternativa è
rappresentata dall’anastomosi tra l’arteria mammaria interna e l’arteria coronarica distalmente alla
stenosi.
L’intervento è relativamente sicuro, con una mortalità inferiore all’1% quando è svolto da un
team chirurgico esperto su pazienti selezionati, con funzione ventricolare sinistra normale, e non
affetti da gravi malattie concomitanti. La mortalità intraoperatoria e postoperatoria aumenta con
l‘aumentare della disfunzione del ventricolo sinistro e con l’inesperienza del team chirurgico.
L’efficacia e i rischi dei bypass aortocoronarici variano notevolmente, in base alla selezione dei
casi e all’abilità ed esperienza dell’équipe chirurgica, tanto che di ciò si deve tenere conto quando
un paziente sia considerato candidato a questo intervento.
Nel corso del primo anno, si osserva un’occlusione dei bypass venosi in una percentuale
compresa tra il 10 e il 20% dei pazienti; la percentuale di chiusura è dell’ordine del 2% per anno
nel corso dei successivi 5-7 anni, e di circa il 5% annuo successivamente. La pervietà del bypass a
lungo termine è migliore nel caso di impianti di arteria mammaria interna; nei pazienti che
presentano lesioni del discendente anteriore, il bypass con l’arteria mammaria interna garantisce
una sopravvivenza migliore, rispetto al bypass venoso.
Dopo una rivascolarizzazione completa, l’85% dei pazienti presenta una risoluzione completa,
o comunque significativa dell’angina. Anche se in genere questo risultato è associato alla pervietà
del bypass e ad una rivascolarizzazione reale, la sintomatologia può migliorare anche come
risultato di un infarto del segmento ischemico, oppure per effetto placebo.
Il bypass aortocoronarico non sembra ridurre la frequenza di infarto miocardico nei pazienti
che presentano una cardiopatia ischemica cronica; l’infarto miocardico intraoperatorio interessa il
8
5-10% dei casi ma, nella maggioranza degli episodi, questi infarti sono di piccole dimensioni.
L’intervento riduce la mortalità sia nei pazienti che presentano una stenosi del tronco comune, sia
in quelli con una malattia travasale associata ad una ridotta funzione ventricolare sinistra.
Comunque, nei pazienti che presentano una vasculopatia di uno o due rami con angina stabile
cronica e funzione ventricolare sinistra normale, o nei pazienti con lesioni a carico di un solo vaso e
funzione ventricolare depressa, non vi è alcuna evidenza che il bypass aortocoronarico migliori la
sopravvivenza. Controversi sono i dati riguardo all’efficacia dell’intervento, per quanto riguarda la
sopravvivenza dei pazienti che presentano una funzione ventricolare sinistra depressa e una
vasculopatia ostruttiva di due rami coronarici, uno dei quali sia il discendente anteriore.
Generalmente, le indicazioni all’intervento di bypass sono basate sulla gravità dei sintomi,
sull’anatomia delle coronarie e sulla funzione ventricolare: il candidato ideale è un paziente di
sesso maschile, di età inferiore ai settanta anni, che non presenta altre malattie associate, che ha
sintomi molto molesti e non adeguatamente controllati dalla terapia medica, che desidera condurre
una vita più attiva e presenta alcune stenosi gravi delle arterie coronariche, con un’evidenza
obiettivabile di ischemia miocardica, come causa delle precordialgie. In questi pazienti, si può
prevedere con certezza un netto miglioramento sintomatologico; nel caso in cui sia associata anche
una disfunzione ventricolare sinistra, l’intervento di bypass può anche migliorare la sopravvivenza.
1.2 Cardiopatia ischemica
Ischemia significa mancanza di ossigeno, dovuta ad una perfusione inadeguata. La
cardiopatia ischemica è una condizione dovuta a diverse eziologie di alterata funzione cardiaca,
conseguente ad una discrepanza tra la disponibilità di ossigeno e la domanda metabolica del
miocardio.
La causa più comune di ischemia miocardica è rappresentata dalla malattia aterosclerotica
delle arterie coronariche epicardiche. Restringendo il lume di questi vasi, l’aterosclerosi provoca
una riduzione assoluta della perfusione miocardica a riposo, o limita un appropriato incremento
della perfusione quando la domanda è aumentata. Il flusso coronarico può anche essere ridotto a
causa di trombi arteriosi, di spasmo e, raramente, di emboli coronarici, come di restringimenti
ostiali secondari ad aortite luetica.
L’ischemia miocardica può manifestarsi anche in caso di domanda di ossigeno del miocardio
aumentata oltre la norma, come nell’ipertrofia ventricolare grave dovuta ad ipertensione o a stenosi
aortica, oppure anche nei casi di riduzione della capacità di trasporto dell’ossigeno da parte del
sangue, come nelle gravi anemie o in presenza di carbossiemoglobina. Non di rado, possono
coesistere due o più cause di ischemia, come un’aumentata domanda di ossigeno legata a ipertrofia
ventricolare sinistra e una riduzione della perfusione secondaria ad aterosclerosi coronarica.
9
Il circolo coronarico normale è influenzato in maniera preponderante dalle richieste
miocardiche di ossigeno; tali richieste sono soddisfatte grazie alla capacità del cuore di variare
considerevolmente le resistenze vascolari coronariche, e quindi del flusso coronarico, mentre il
miocardio estrae una quota di ossigeno elevata e relativamente fissa. Normalmente, le arteriose di
resistenza intramiocardiche dimostrano un’enorme capacità di dilatazione; nel corso dell’esercizio
fisico o in caso di stress emotivo, la necessità di un aumentato apporto di ossigeno determina una
modificazione del tono delle resistenze vascolari coronariche, che in tal modo regolano la
perfusione di sangue e quindi la disponibilità di ossigeno del miocardio (regolazione metabolica).
Questi stessi vasi si adattano ad alterazioni fisiologiche della pressione arteriosa, in modo tale da
mantenere un flusso coronarico a livelli appropriati alle necessità del miocardio (autoregolazione).
Sebbene le grandi arterie epicardiche coronariche siano capaci di vasocostrizione e di
rilasciamento, generalmente nelle persone sane si comportano come condotti di diametro
relativamente costante e vengono perciò chiamate “vasi di capacitanza”, mentre le arteriose
intramiocardiche presentano normalmente modificazioni estreme del tono, e quindi vengono
chiamate “vasi di resistenza”.
L’ischemia può essere anche determinata da un’anomala costrizione o dall’assenza di una
normale dilatazione dei vasi di resistenza coronarici. In questi casi si parla a volte di angina
microvascolare.
L’inadeguata ossigenazione provocata dall’aterosclerosi coronarica può provocare disturbi
transitori delle funzioni meccaniche, biochimiche ed elettriche del miocardio. L’episodio ischemico
di solito interessa un segmento del miocardio del ventricolo sinistro e determina una istantanea
alterazione dei normali meccanismi di contrazione e di rilasciamento muscolare. La relativamente
scarsa perfusione del subendocardio provoca una più intensa ischemia di questa porzione della
parete.
L’ischemia di ampi segmenti del ventricolo provoca un’insufficienza ventricolare sinistra
transitoria e, nel caso in cui siano coinvolti i muscoli papillari, può comparire un’insufficienza
mitralica. Quando gli eventi ischemici sono transitori, il sintomo caratteristico è l’angina pectoris,
ma quando sono prolungati possono determinare una necrosi miocardica, con o senza il quadro
clinico dell’infarto miocardico acuto.
L’aterosclerosi coronarica è un processo focale, che provoca un’ischemia non uniforme. Di
conseguenza, i disturbi regionali risultanti a carico della contrattilità ventricolare provocano
discinesie segmentali, che possono ridurre significativamente l’efficienza di pompa del miocardio.
I meccanismi responsabili di questi disturbi meccanici sono rappresentati da un ampio spettro di
anomalie della struttura, della funzione e del metabolismo cellulare. Quando è ossigenato
correttamente, il miocardio normale catabolizza gli acidi grassi e il glucosio ad anidride carbonica
ed acqua. In caso di anossia grave, gli acidi grassi non possono essere ossidati e il glucosio viene
metabolizzato a lattato; il ph intracellulare si riduce, così come le riserve miocardiche di fosfati ad
10
alta energia, l’adenosinatrifosfato (ATP) e la creatinafosfato. L’alterazione funzionale della
membrana cellulare causa la perdita di potassio e l’ingresso di sodio all’interno dei miociti. La
reversibilità o meno del danno, e l’eventuale sviluppo di necrosi miocardica sono determinati dalla
gravità e dalla durata dell’inadeguata perfusione. L’ischemia causa anche modificazioni
elettrocardiografiche ed instabilità elettrica, dal momento che quest’ultima può portare alla
tachicardia ventricolare o alla fibrillazione ventricolare.
La maggioranza dei pazienti che muoiono improvvisamente a causa di una cardiopatia
ischemica decede per un’aritmia ventricolare maligna, indotta dall’ischemia.
1.3 Pneumopatia ostruttiva cronica
Si tratta dell’eziologia più frequente di cuore polmonare cronico. Si definisce cuore
polmonare la dilatazione del ventricolo destro, in risposta all’aumento del postcarico causato da
malattie che interessano il torace, i polmoni e la circolazione polmonare. Tale condizione è a volte
associata a scompenso ventricolare destro, in cui si osserva un aumento della pressione
telediastolica transmurale destra, non dovuta all’aumento della portata ventricolare destra. Una
disfunzione cronica del ventricolo destro rappresenta di rado una causa di scompenso ventricolare
destro, ma può insorgere nel caso coesistano una condizione di cuore polmonare e una cardiopatia
ischemica.
Nella pneumopatia ostruttiva cronica, la dilatazione ventricolare destra fa seguito
verosimilmente all’ipertensione polmonare medio-lieve, spesso rilevabile in presenza di bronchite
grave ed enfisema. La pressione sistolica in arteria polmonare risulta notevolmente inferiore ai
livelli pressoché sistemici, che caratterizzano le cardiopatie congenite e i soggetti con ipertensione
polmonare primitiva. Lo scompenso ventricolare destro, secondario a pneumopatia ostruttiva
cronica, spesso insorge durante un episodio acuto nel contesto di un’insufficienza respiratoria
cronica, con un peggioramento improvviso dell’ipossiemia.
Nelle pneumopatie ostruttive croniche, l’ipertensione polmonare consegue alla
vasocostrizione polmonare generalizzata indotta da ipossia, acidosi e ipercarbia alveolari, agli
effetti meccanici dell’aumentato volume polmonare sulla vascolarizzazione polmonare, alla
distruzione del letto microvascolare nelle aree enfisematose e, a volte, all’aumento della viscosità
ematica secondario a policitemia.
L’ipertensione polmonare aumenta ulteriormente durante uno sforzo, mentre si riduce
rapidamente facendo respirare ossigeno puro al paziente.
Nei soggetti con cuore polmonare secondario a pneumopatia ostruttiva, a causa della frequente
abitudine al fumo, si osservano spesso alterazioni funzionali ischemiche a carico delle sezioni
sinistre. L’aumento della pressione in arteria polmonare può in parte essere conseguente
11
all’aumento della pressione atriale sinistra, provocato dalla compromissione funzionale. Circa il
50% dei pazienti deceduti a seguito di cuore polmonare associato a patologie ostruttive delle vie
aeree mostra all’esame autoptico segni di ipertrofia ventricolare sinistra.
L’instaurarsi di un’insufficienza ventricolare destra complica di frequente l’evoluzione del
cuore polmonare, nei pazienti affetti da pneumopatie ostruttive, in cui si sviluppa un’insufficienza
ventilatoria con ipossia e ipercarbia. Se il flusso nelle vie aeree risulta ulteriormente compromesso
dall’aggravarsi dell’ostruzione, oppure da fenomeni asmatici, l’ipossia e l’ipercarbia conseguenti
provocano un aumento della portata cardiaca, causato dalla vasodilatazione arteriolare sistemica ad
esse attribuibile; si aggrava pertanto il vasospasmo polmonare ipossico, con possibile insorgenza di
aritmie sopraventricolari e ventricolari.
Il fegato risulta apprezzabile alla palpazione e dolente, poiché dilatato e dislocato in seguito
all’abbassamento del diaframma; talvolta si riscontra anche un reflusso epatogiugulare.
Un’esacerbazione dell’ostruzione delle vie respiratorie innalza la pressione intratoracica,
ostacolando il ritorno venoso, aumenta la pressione venosa giugulare e può causare edema
periferico, anche in assenza di scompenso cardiaco. Tale innalzamento della pressione venosa,
conseguente all’ostruzione delle vie aeree, non è associato ad un aumento della pressione
transmurale del ventricolo destro, indice di scompenso ventricolare destro. L’ipertensione venosa
dovuta ad un’ostruzione del flusso aereo si riduce, talvolta rapidamente, con la regressione
dell’ostruzione.
All’anamnesi, spesso si rileva la presenza di tosse produttiva e dispnea, di solito associate a
sibili respiratori. La presenza di dispnea impedisce al paziente di compiere persino sforzi di minima
intensità. L’anamnesi registra frequentemente ricoveri d’urgenza, conseguenti ad infezioni delle vie
respiratorie, talvolta gravi, tali da richiedere la ventilazione meccanica. Durante l’ossigenoterapia,
il paziente può mostrare sonnolenza; in altri casi, però, si rilevano sintomi di ipercarbia, quali
emicrania, confusione mentale e vomito, un quadro sintomatologico che, unitamente al riscontro di
opacità della pupilla ottica, corrisponde alla cosiddetta sindrome da “pseudotumor cerebri”.
L’ipossia secondaria a ipoventilazione tende a presentare maggiore gravità durante le ore
notturne, soprattutto nel caso si manifestino episodi di apnea ostruttiva dovuti a forme gravi di
russamento.
1.4 Insufficienza mitralica
L’insufficienza mitralica grave, in circa un terzo dei pazienti, è causata da una cardiopatia
reumatica cronica. A differenza della stenosi mitralica, caratterizzata dall’ispessimento diffuso dei
lembi valvolari associato a depositi calcifici e che colpisce soprattutto le donne, l’insufficienza
mitralica è più frequente negli uomini.
12
La cardite reumatica provoca l’irrigidimento, la deformazione, la retrazione delle cuspidi
valvolari, la fusione delle commissure, l’accorciamento e la fusione delle corde tendinee.
L’insufficienza mitralica può essere una malattia congenita, ma anche essere secondaria alla
necrosi di un muscolo papillare in corso di infarto miocardico, oppure essere provocata da una
dilatazione aneurismatica del ventricolo sinistro, che coinvolge la base di un muscolo papillare.
Durante gli eventi ischemici, che colpiscono un muscolo papillare o il miocardio a esso adiacente, è
inoltre possibile che si verifichi la comparsa di una insufficienza valvolare transitoria.
L’insufficienza mitralica può essere secondaria alla dilatazione ventricolare sinistra, o causata da
fattori responsabili della dilatazione dell’annulus mitralico e della dislocazione laterale dei muscoli
papillari, interferendo nella corretta posizione dei lembi valvolari.
Tra le varie cause dell’insufficienza mitralica, una delle più importanti è rappresentata dalla
cosiddetta sindrome del prolasso del lembo mitralico, dovuta ad un anomalo allungamento delle
corde tendinee e/o alla presenza di ridondante tessuto valvolare a livello della cuspide posteriore,
condizionante il prolasso delle cuspidi in atrio sinistro.
Indipendentemente dalla eziologia, l’insufficienza mitralica grave tende ad essere progressiva,
poiché la dilatazione atriale sinistra è responsabile dello sviluppo di tensioni anomale a carico del
lembo posteriore mitralico, che viene spinto lontano dall’orifizio valvolare, provocando un
ulteriore deterioramento dell’apparato valvolare. Analogamente, la dilatazione del ventricolo
sinistro provoca un ulteriore incremento del rigurgito valvolare che, a sua volta, causa un ulteriore
allargamento dell’atrio sinistro e del ventricolo sinistro. Si viene a determinare, in tal modo, una
sorta di circolo vizioso da cui consegue l’aforisma: “l’insufficienza mitralica predispone
all’insufficienza mitralica”.
I pazienti con grave insufficienza mitralica cronica si lamentano soprattutto di astenia, dispnea
da sforzo, e ortopnea. Le valvole mitrale e aortica sono adiacenti perciò, in caso di insufficienza
mitralica, le resistenze allo svuotamento del ventricolo sinistro si riducono. Di conseguenza, il
ventricolo sinistro durante la fase sistolica invia sangue anche all’atrio sinistro. La rapida riduzione
del volume del ventricolo provoca una brusca diminuzione della tensione parietale, e quindi una
progressiva riduzione del post carico ventricolare sinistro, con la conversione di una parte notevole
dell’attività contrattile del ventricolo in accorciamento. Il meccanismo di compensazione iniziale
dell’insufficienza mitralica consiste in un maggiore svuotamento sistolico del ventricolo sinistro.
Con l’aggravarsi della malattia, si osserva un progressivo incremento del volume telediastolico del
ventricolo, accompagnato da un deterioramento della funzione ventricolare. Questo fenomeno è
spesso associato ad una diminuzione della gittata cardiaca anterograda. L’entità del rigurgito varia
direttamente in funzione della pressione ventricolare sistolica sinistra e della dimensione
dell’orifizio rigurgitante; quest’ultima, a sua volta, viene influenzata in maniera notevole dal grado
di dilatazione del ventricolo sinistro.
13
Il trattamento chirurgico è indicato nei pazienti con insufficienza mitralica grave fortemente
sintomatici, che non possono svolgere una attività lavorativa normale o attività quotidiane di
routine, nonostante una terapia medica ottimale, ma anche nei pazienti in cui si riscontra una
disfunzione progressiva del ventricolo sinistro, indipendentemente dalla severità dei sintomi.
L’intervento operatorio può essere indicato anche nelle fasi più avanzate della malattia.
Solitamente, i risultati dell’intervento chirurgico migliorano progressivamente, così come il quadro
clinico generale, ma talvolta residuano gradi variabili di disfunzione miocardica.
La terapia chirurgica dell’insufficienza mitralica, soprattutto se causata da deformazioni
dell’apparato valvolare con presenza di esiti cicatriziali e calcificazioni a livello dei lembi
secondari a malattia reumatica, esige la sostituzione della valvola con una protesi; in una crescente
percentuale di pazienti, specialmente in presenza di grave dilatazione dell’annulus, lembi fluttuanti,
prolasso mitralico, rottura di corde tendinee oppure endocardite infettiva, risulta possibile
intervenire tramite la ricostruzione dell’apparato valvolare (valvuloplastica mitralica) e/o
dell’annulus (annuloplastica mitralica). Il ricorso alla valvuloplastica è comunque preferibile
ogniqualvolta sia possibile, poiché il rischio operativo è circa la metà (2-4 %) di quello connesso
alla sostituzione valvolare. Inoltre è possibile evitare le complicanze associate nel lungo periodo
all’impianto di protesi in posizione mitralica, quali complicanze tromboemboliche ed emorragiche,
qualora si tratti di protesi meccaniche, oppure insufficienza o rottura della valvola, in caso di
utilizzo di protesi biologiche. La valvuloplastica mitralica, infine, non compromette la funzione
ventricolare sinistra, poiché conserva l’integrità dei muscoli papillari e dell’apparato sottovalvolare.
1.5 Stenosi aortica
Questa valvulopatia interessa un quarto di tutti i pazienti con lesioni valvulari. Circa l’80% dei
pazienti adulti con stenosi aortica valvolare sintomatica, è di sesso maschile.
La stenosi aortica può essere congenita, secondaria a malattia reumatica, oppure provocata da
calcificazioni degenerative delle cuspidi aortiche di eziologia sconosciuta.
La caratteristica emodinamica principale è costituita dall’ostruzione del tratto di efflusso del
ventricolo sinistro, che determina un gradiente pressorio tra il ventricolo sinistro e l’aorta. In
condizioni sperimentali, una brusca ostruzione del tratto di efflusso del ventricolo sinistro
determina una dilatazione del ventricolo, ed una riduzione della portata cardiaca; viceversa, nella
realtà, l’ostruzione può essere presente già alla nascita oppure aumenta in modo graduale nel corso
del tempo, consentendo il mantenimento di un meccanismo compensatorio, rappresentato dalla
ipertrofia ventricolare sinistra, che tende a ridurre a valori normali lo stress sistolico parietale. È
pertanto possibile lo sviluppo di gradienti transvalvolari significativi, senza una riduzione
apprezzabile della portata, né dilatazione ventricolare sinistra, né sintomi.
14
La stenosi aortica raramente assume rilevanza clinica o emodinamica, fino a quando l’area
valvolare non si riduce ad almeno un terzo del normale in età adulta. Nella maggior parte dei
pazienti con stenosi aortica pura o prevalente, si può avere un progressivo aumento dell’ostruzione,
senza comparsa di sintomi fino a cinquanta, settanta anni. I tre sintomi principali sono: la dispnea
da sforzo, l’angina pectoris e la sincope. Spesso, l’anamnesi è costituita da sintomi di difficile
inquadramento, quali per esempio l’astenia ingravescente e la dispnea, nonostante una graduale
riduzione dell’attività fisica. La dispnea è causata dall’incremento della pressione capillare
polmonare, provocato dall’aumento della pressione telediastolica dell’atrio e del ventricolo sinistri,
secondario a sua volta alla dilatazione ventricolare sinistra e/o alla ridotta compliance. L’angina
pectoris, in genere, compare più tardivamente, e riflette la discrepanza tra le aumentate richieste
miocardiche di ossigeno e la ridotta perfusione. L’aumento delle richieste di ossigeno è dovuto
all’aumento della massa miocardica e della pressione intraventricolare, mentre la diminuita
disponibilità di ossigeno è causata dalla frequente presenza di coronaropatia e alla compressione
dei vasi coronarici da parte del miocardio ipertrofico. Perciò, nella stenosi aortica non sempre
l’angina pectoris è associata alla presenza di una coronaropatia organica. La sincope da sforzo è
invece causata dall’ipotensione arteriosa, dovuta alla vasodilatazione che si verifica nei muscoli
che stanno sostenendo l’esercizio, e alla contemporanea inadeguata vasocostrizione dei muscoli a
riposo, da una situazione di portata cardiaca non aumentabile oppure dalla rapida riduzione della
portata, provocata da una aritmia.
Nel trattamento di un paziente affetto da stenosi aortica, la decisione più importante e difficile
riguarda l’indicazione all’intervento chirurgico. I criteri di indicazione all’intervento, i risultati di
tale intervento e la tecnica chirurgica differiscono in modo considerevole, a seconda dell’età del
paziente e della eziologia della valvulopatia.
Negli adulti con stenosi aortica calcifica, è quasi sempre necessario ricorrere alla sostituzione
valvolare. L’intervento è generalmente indicato per i pazienti con stenosi aortica grave e
disfunzione ventricolare sinistra, anche se sono asintomatici. L’intervento chirurgico, se possibile,
deve essere eseguito prima che compaiano i sintomi di insufficienza ventricolare sinistra, che
comportano un aumento del rischio operatorio (15-20%), ma anche perché l’insufficienza
ventricolare sinistra potrebbe persistere dopo l’intervento. Nei pazienti, che presentano una stenosi
aortica grave associata ad una coronaropatia, si può ottenere un importante miglioramento delle
condizioni cliniche ed emodinamiche, con un intervento di rivascolarizzazione miocardica
mediante bypass aortocoronarico, associato alla sostituzione valvolare aortica. Circa il 15% delle
valvole biologiche, dopo dieci anni presenta segni di alterata funzione, che ne rendono necessaria la
sostituzione; una percentuale approssimativamente uguale di pazienti con protesi meccaniche
sviluppa complicanze emorragiche significative, come conseguenza del trattamento con
anticoagulanti. L’intervento di sostituzione valvolare è generalmente seguito da una regressione dei
segni di ipertrofia ventricolare sinistra.