11
Nell’ultimo decennio il problema dell’impatto ambientale delle attività umane è
entrato nelle agende politiche per le implicazioni di natura etica ed economica. È
sempre più percepito come una cattiva gestione dell’ambiente comporti
inevitabilmente crescenti costi sociali. Basti citare a titolo esemplificativo le spese
sanitarie per i soggetti che presentano manifestazioni asmatiche dovute
all’inquinamento da polveri sottili, come pure i costi sostenuti a causa dei disastri
ambientali dovuti ad eventi meteorologici inusuali, correlabili in qualche modo ai
cambiamenti climatici in atto.
Attualmente tutti i settori produttivi sono sempre più attenti all’impatto ambientale
delle loro attività e non fanno eccezione le attività agro-alimentari. Per giunta in alcuni
Paesi europei si sta affermando la tendenza di dichiarare l’impatto ambientale dei
prodotti alimentari mediante l’apposizione di etichette ambientali, onde consentire ai
consumatori di effettuare scelte ecosostenibili, analogamente a quanto già accade ad
esempio per gli elettrodomestici, ove sono recentemente entrate in vigore le nuove
energy labels (Direttiva 2010/30/UE:
http://www.casaeclima.com/index.php?option=com_content&view=article&id=8413:etichetta
tura-energetica-obbligatoria-in-tutta-europa&catid=924:latest-news&Itemid=171).
Lo studio sull’impatto ambientale dei prodotti e dei servizi utilizzati nella Comunità
Europea a 25 Paesi (EU25), eseguito da Tukker et al (2006), ha rilevato che il comparto
degli alimenti, bevande, tabacco e narcotici contribuisce per il 22-31% al riscaldamento
globale del Pianeta (Global Warming Potential, GWP). In particolare, le carni ed i
prodotti carnei contribuiscono in maniera prevalente, in quanto rappresentano il 12%
del GWP, il 24% del potenziale di eutrofizzazione (EP) ed il 10% del potenziale di
formazione di ozono fotochimico (Photochemical Ozone Creation Potential, PCOP) di
tutti i consumi. I prodotti lattiero-caseari concorrono al 5% di GWP, al 10% di EP ed al
4% di PCOP. I prodotti a base di cereali (pane, sfarinati, paste alimentari, etc.)
contribuiscono un poco più dell’1% di GWP e di PCOP ed al 9% circa di EP. Infine, la
frutta e le verdure (comprese quelle surgelate) danno un apporto del 2% circa di GWP,
EP e PCOP.
Nel 2007 in Italia le emissioni di gas-serra CO
2e
(pari a 553 Tg di anidride carbonica
equivalenti, CO
2e
) corrispondono ad un contributo emissivo pro-capite annuo di 9543
12
kg CO
2e
, il 18.8% del quale, ossia circa 1780 kg CO
2e
, è dovuto al settore agro-
alimentare (Castaldi et al., 2009).
Le emissioni di gas-serra potrebbero contrarsi anche con appropriati cambiamenti
nello stile di vita. Ad es., Eshel & Martin (2006) dimostrarono che le emissioni
specifiche di CO
2
associate alla produzione di prodotti alimentari di origine animale
variano notevolmente e che la sostituzione delle carni rosse con pollame ed uova,
come pure la sostituzione degli alimenti di origine animale con quelli di origine
vegetale, può ridurre le emissioni dei singoli consumatori, come pure la scelta di
guidare un’automobile ibrida ultraefficiente in alternativa ad un SUV. In particolare,
l’adozione delle Linee guida per una sana alimentazione della Società Italiana di
Nutrizione Umana (www.inran.it/INRAN_LineeGuida.pdf), che si ispirano alla
cosiddetta dieta mediterranea, permetterebbe di ridurre le emissioni del sistema agro-
alimentare da 104 a ca. 57 Tg CO
2e
/anno, salvaguardando non solo la salute umana,
ma anche l’ambiente, in virtù di minori consumi energetici, minore impatto potenziale
sul riscaldamento globale e del miglioramento della qualità dell’ambiente stesso per le
minori emissioni in aria, acqua, suolo, etc. (Moresi & Valentini, 2010).
Tra i settori dell’industria alimentare e delle bevande quello delle acque minerali è
oggetto da tempo di estese campagne ecologistiche per limitare il consumo di acqua
imbottigliata e per promuovere l'uso degli acquedotti pubblici. Ad es., negli Stati Uniti
le amministrazioni di New York e San Francisco hanno vietato l'uso di acqua minerale
negli uffici pubblici, mentre a Bundanoon, un piccolo centro dell'Australia a circa 150
km da Sydney, si è arrivati a proibire le bottiglie di minerale per contrastare l'abuso di
bottiglie di plastica e i costi ambientali legati al loro trasporto (Gualerzi, 2009).
D’altra parte, il mercato mondiale delle acque minerali riguarda circa 154 miliardi di
litri di acqua minerale in bottiglie di PET (polietilene tereftalato), per la cui produzione
(1 kg) si impiegano poco meno di 2 kg di petrolio e 17 l di acqua, rilasciando
nell'atmosfera 2,3 kg di CO
2e
, oltre ad altre sostanze inquinanti
(www.scribd.com/doc/47833949/PET-bottle-Audit).
13
Nel 2010 in Italia il consumo pro-capite annuo si è collocato intorno ai 186 litri ed è
cresciuto del 296% dal 1980 (Fig. I.1).
186
0
50
100
150
200
250
1980 1985 1990 1995 2000 2005 2008 2009 2010
anno
l/a
Figura I.1 Evoluzione dei consumi pro-capite di acqua minerale in Italia dal 1980 al 2010
(fonte Beverfood-Mineralacqua).
In Fig. I.2 si raffrontano i consumi procapite di diversi Paesi nel 2009: l’Italia con 193
l/a (di poco superiore al dato rilevato nel 2010) si colloca tra i Paesi con i consumi più
elevati ed è seconda solo agli Emirati Arabi.
0
50
100
150
200
250
300
350
Austria
Belgium
Brazil
China
Czech
Denmark
Finland
France
Germany
Greece
Hungary
Indonesia
Ireland
Italy
Japan
Mexico
Netherlands
Norway
Poland
Portugal
Romania
Russia
Saudi Arabia
Slovakia
Spain
Sweden
Switzerland
Turkey
Un. Ar.
UK
Ukraine
USA
Figura I.2 Consumi pro-capite di acqua minerale in alcuni Paesi nel 2009 (fonte Beverfood-
Mineralacqua).
14
Tabella I.1 Mercato italiano delle acque minerali nel 2009 e 2010 (fonte Beverfood-
Mineralacqua).
MERCATO ITALIA Unità di misura 2009 2010
Le società imbottigliatrici n° 168 165
Le marche di acque confezionate n° 292 290
Concentrazione mercato (primi 4 gruppi) % 52.2 52.0
Giro d'affari dei produttori M€ 2.200 2.100
Produzione
acque minerali Ml 12.200 11.900
altre acque confezionalte (boccioni e acque da tavola) Ml 200 200
Totale Ml 12.400 12.100
Consumi interni (minerali + altre confezionate) Ml 11.400 11.150
Consumi procapite (minerali + altre confezionate) litri 190 186
Mix consumi per tipo
- acque lisce naturali % 63 64
- acque frizzanti % 21 20
- acque effervescenti naturali % 16 16
Consumi per aree
- Nord-Ovest % 30 30
- Nord-Est % 19 19
- Centro + Sardegna % 26 25
- Sud e Isole % 25 26
Mix confezioni
- bottiglie in plastica % 78 79
- bottiglie in vetro % 20 18
- boccioni + brik % 2 2
Canali di vendita
- iper, super,superettes & discount % 70 71
- dettaglio tradizione + Door to Door % 10 10
- HoReCa, catering, vending % 20 19
La produzione complessiva del 2010 è stata operata da 165 società imbottigliatrici
(Tab. I.1), che complessivamente hanno imbottigliato un volume di 12,1 miliardi di litri
15
a fronte di 11,1 miliardi di litri consumati (Fig. I.3), cui corrisponde in un giro di affari di
2,1 miliardi di euro. I consumi sono ripartiti tra le varie tipologie di prodotto e nello
specifico il 16% del consumo è dato dalle effervescenti naturali, il 20% dalle frizzanti ed
il restante 64% dalle acque lisce (Tab. I.1).
0
2000
4000
6000
8000
10000
12000
14000
1980 1985 1990 1995 2000 2005 2008 2009 2010
anno
Miliardi di litri
anno
Figura I.3 Produzione ( ) e consumi ( ) di acque minerali in Italia nel periodo 1980-2010
(Fonte Beverfood- Minieralacqua)
Figura I.4 Indice di penetrazione delle bevande in Italia (fonte Beverfood:
http://www.beverfood.com/v2/modules/news/article.php?storyid=556).
16
Un’indagine ISTAT rileva che l’88,6% delle persone sopra i 14 anni dichiara di bere
acqua minerale; se a questo dato si aggiunge un indice di penetrazione (percentuale
famiglie acquirenti sul totale delle famiglie italiane) del 98%, è evidente come l’acqua
minerale sia la bevanda più diffusa ed acquistata dalle famiglie italiane (Fig. I.4).
In uno scenario economico così delineato si è ritenuto interessante studiare i danni
ambientali connessi alla produzione e distribuzione di acqua minerale. In effetti,
l’acqua minerale ha ormai sostituito il consumo dell’acqua proveniente dalla rete
dell’acquedotto e la crescita dei consumi procapite nell’ultimo trentennio, pur con la
lievissima flessione degli ultimi cinque anni, testimonia un mercato saturo, ma
consolidato. Con le continue esortazioni al consumo dell’acqua di rete (indicata come
meno dispendiosa in termini ambientali, sicura e sana, e, qualora sussistano poi dubbi
sulla salubrità dell’acqua di rubinetto, il cittadino è spesso oggetto di sollecitazioni
pubblicitarie per adottare trattamenti potabilizzanti domestici) è ragionevole pensare
che gli imprenditori del settore debbano adoperarsi per migliorare costantemente le
prestazioni ambientali per testimoniare di fatto l’eco-compatibilità della produzione,
se non vogliono vedere regredire, a fronte di una rinnovata consapevolezza ambientale
del cittadino italiano, il loro business.
Considerato che nel 2010 le confezioni più vendute, con il 79% di quota sul totale
prodotto in Italia (Tab. I.1), sono state le confezioni in PET, si è scelto in questo
elaborato di calcolare il Carbon Footprint della produzione e distribuzione di confezioni
in PET da 1,5 l di Acqua minerale naturale effervescente naturale Claudia nel l’anno
2010, reperendo tutti i dati di inventario e di trasporto direttamente presso l’impianto
di imbottigliamento di Acqua Claudia Srl di Anguillara Sabazia (RM).
17
CAPITOLO 1
CERTIFICAZIONE AMBIENTALE DI PRODOTTO
18
19
Con la crescente attenzione della comunità internazionale per i cambiamenti climatici
dovuti alle emissioni di gas climalteranti (green house gases, GHG), ha preso forma e
consistenza il fenomeno del cosiddetto green consumering, tipico dei consumatori
interessati a conoscere il contributo fornito dai prodotti in uso alla salvaguardia del
clima. Ne consegue che oggi le attività a protezione dell’ambiente delle aziende
produttrici di servizi o prodotti possono avvantaggiarle significativamente rispetto ai
concorrenti.
Il termine Food miles è un indicatore che ha acquistato un’ampia diffusione in GB. È
stato coniato da Tim Lang, ora Professore di Food Policy alla City University di Londra,
per evidenziare in maniera semplice al consumatore tutte le conseguenze esplicite ed
implicite di natura ecologica, sociale ed economica della produzione alimentare.
Esprime la distanza che un alimento percorre dalla produzione al consumo finale,
indipendentemente dalla scala di produzione e delle modalità di trasporto (aereo,
nave, treno, Tir, camion, camioncino, auto privata, bicicletta, piedi).
In Fig. 1.1 si riporta una tipica etichetta (Food mileage label) applicata su numerosi
prodotti commercializzati nella catena di supermercati Waitrose in GB.
Figura 1 .1 Tipica etichetta ecologica (Food mileage label) applicata su numerosi prodotti
commercializzati nella catena di supermercati Waitrose in GB.
Un altro sistema di etichettatura è rappresentato dal Carbon Footprint (impronta
ecologica o di CO
2
od indice di carbonio), che è stato adottato da numerose catene
commerciali dapprima in Gran Bretagna (Tesco, Marks & Spencer, Sainsbury’s) e poi in
Francia (Casino), Sud Corea (Cool), etc. (Fig. 1.2). Attualmente, in Svezia, è stato
applicato sia da Lantmannen, il maggior marchio agricolo svedese, che da Max, la più
grande catena di burger-restaurants, per etichettare prodotti e pietanze, dal pollo alla
20
pasta; quindi, in Svezia nei prodotti alimentari e nei menù nei ristoranti si riporta non
solo il valore energetico dell’alimento, ma anche le emissioni di CO
2
.
Figura 1.2 Tipiche etichette ecologiche (Carbon footprinting labels) applicate su numerosi
prodotti commercializzati nelle catene di supermercati Tesco (GB),
Cool (Sud Corea) e Casìno (F).
Analogamente, anche l’EPEA, associazione dei produttori ecologici dell’Andalusia, ha
deciso di riportare sugli alimenti in vendita in Spagna l’indicazione della quantità di
anidride carbonica generata per produrli e distribuirli.
Il Carbon Footprint fornisce informazioni sull’impatto climatico del prodotto ed indica
la somma delle emissioni di CO
2
lungo l’intera filiera. Per stimare questo indicatore
occorre applicare la metodologia life cycle assessment (LCA), in italiano analisi del ciclo
di vita. Con questa metodologia si calcolano le emissioni che si realizzano durante tutto
il ciclo di vita di un prodotto, di un processo o un servizio: è la cosiddetta analisi dalla
culla alla tomba (cradle-to-grave analysis), dai punti di preproduzione (quindi anche
estrazione e produzione dei materiali), alla produzione delle materie prime (MP) e
degli ingredienti alla trasformazione, alla distribuzione, all’uso (quindi consumo, riuso e
manutenzione), al riciclaggio ed alla dismissione finale, tenendo conto di tutti i
trasferimenti subiti dalle MP, dai semilavorati (SL) e dai prodotti finiti (PF). Il risultato di
questa procedura è detto Carbon Footprint, ossia impronta di carbonio.
21
La LCA è riconosciuta a livello internazionale attraverso la famiglia delle norme ISO
(International Organization for Standardization) 14000 (Lee & Inaba, 2004) e considera
gli impatti ambientali del caso esaminato nei confronti della salute umana, della
qualità dell'ecosistema e dell'impoverimento delle risorse, valutando inoltre gli impatti
di carattere economico e sociale. Gli obiettivi della LCA sono quelli di definire un
quadro completo delle interazioni con l’ambiente di un prodotto o di un servizio,
contribuendo a comprendere le conseguenze ambientali direttamente o
indirettamente causate e, quindi, dare a chi ha potere decisionale (ossia chi ha il
compito di definire le normative) le informazioni necessarie per stabilire i
comportamenti e gli effetti ambientali di una attività e per identificare le opportunità
di miglioramento o le migliori soluzioni per intervenire sulle condizioni ambientali.
Questa metodologia può essere impiegata per ottimizzare la performance ambientale
sia di un singolo prodotto (ecodesign) che di un’industria.
Figura 1.3 Fasi di analisi degli studi di LCA secondo le norme ISO 14000 (Lee & Inaba, 2004).
Le procedure per condurre studi LCA si articolano in 4 fasi distinte, come
schematicamente illustrato in Fig. 1.3:
1. la definizione dell’obiettivo e del campo di applicazione (Goal and Scope
Definition - ISO 14041), stabilendo altresì un’appropriata unità funzionale FU, in
22
modo da poter agevolmente comparare i risultati dello studio a quelli ottenuti
seguendo processi alternativi;
2. l’analisi di inventario del ciclo di vita (Life Cycle Inventory Analysis - ISO 14041),
esaminando i consumi di MP, di energia, le emissioni in aria, acqua o suolo, la
formazione di effluenti e residui solidi, etc. Relativamente all’industria
alimentare gli studi LCA fanno spesso riferimento allo schema in Fig. 1.4, dove
vengono evidenziati i materiali e le risorse naturali in ingresso ed i prodotti, i
sottoprodotti, gli effluenti ed i residui delle trasformazioni effettuate.
Figura 1.4 Fasi di analisi degli studi di LCA inerenti l’industria alimentare.
3. la valutazione dell'impatto ambientale del ciclo di vita (Life Cycle Impact
Assessment - ISO 14042) tramite alcune categorie di impatto. Quelle prese in
considerazione riguardano il riscaldamento globale (dovuto ai gas serra), la
formazione di smog, l’assottigliamento dello strato di ozono, l’eutrofizzazione, la
produzione di contaminanti tossici a livello ambientale ed umano, la
desertificazione, l’uso della terra, come il depauperamento dei minerali e dei
combustibili fossili. Dette categorie possono essere combinate in modo da
stimare diverse categorie di danni con conseguenze sulla salute umana, sui
raccolti, sui pesci, etc., come illustrato in Fig. 1.5.
23
Figura 1.5 Categorie di danni con conseguenze sulla salute umana, sui raccolti, sui pesci, sui
materiali plastici.
4. l’interpretazione dei risultati (Life Cycle Interpretation - ISO 14043), tenendo
conto dei margini di incertezza nelle assunzioni di partenza e verificando la
sensitività dei risultati a prefissati intervalli di variazione..
Le norme permettono di definire il livello di dettaglio dello studio in funzione
dell’obiettivo da raggiungere, regolano la fase di inventario e le modalità di
conversione dei dati elaborati su materiali e relativi processi in potenziali danni
ambientali attraverso procedimenti tecnici e secondo la seguente sequenza di fasi:
definizione delle categorie di impatto, classificazione, caratterizzazione delle emissioni
e delle risorse nelle categorie di impatto, damage assessment o caratterizzazione delle
categorie di impatto nelle categorie di danno, normalizzazione, valutazione.
I limiti di questa tecnica di valutazione, che possono mettere in dubbio la scientificità
del risultato, stanno nella disponibilità dei dati iniziali e nella loro accessibilità.
Nel contesto italiano, dove non esiste una banca dati ufficiale, diventa necessario far
riferimento a banche dati straniere con inevitabili approssimazioni dovute alla verifica
di trasferibilità dei dati. Ciò, unitamente alla spesso scarsa disponibilità delle aziende a
diffondere dati diretti su consumo e produzione di rifiuti, può rendere molto faticosa la
fase di Life Cycle Inventory.
24
Le banche dati più facilmente reperibili sono quelle presenti all’interno dei softwares
per l’analisi LCA, come nel caso del software SimaPro 7 che contiene le seguenti
banche dati: Ecoinvent, ETH, BUWAL250, Industry Data, IDEMAT 2001, LCA Food DK,
ecc.
Per la quantificazione degli impatti ambientali provocati dal flusso di materia e energia
attraverso il sistema, SimaPro 7 fornisce una serie di metodi Europei, Nord-Americani
ed altri per realizzare questa fase, tra cui si citano:
• CML 2 baseline 2000
• Ecoindicator 99
• EDIP 203
• IPCC 2007 (Global Warning Potential a 100 anni)
In particolare, l’Ecoindicator 99 è un metodo damage-oriented, che esprime gli impatti
in tre macro-categorie di danno, che racchiudono differenti categorie di impatto e che
si riferiscono:
• alla salute umana (Human Health – HH);
• alla qualità degli ecosistemi (Ecosystem Quality – EQ);
• alle risorse (Resources – R).
I danni sulla salute umana sono espressi in DALY (Disability Adjusted Life Years). In
questa categoria sono modellati i danni causati da tutte le sostanze che abbiano un
impatto sulla respirazione (composti organici ed inorganici), sulla carcinogenesi, sui
cambiamenti climatici e sullo strato di ozono; sono comprese in questa categoria
anche le radiazioni ionizzanti.
I modelli utilizzati comprendono quattro stadi:
1) Fate analysis: lega le emissioni (espresse come massa) ad un cambiamento di
concentrazione nel tempo.
2) Exposure analysis: lega le concentrazioni alle dosi, cioè quantitativi assunti dagli
organismi.
3) Effect analysis: lega le dosi alla quantità di effetti prodotti, come, ad esempio, il
numero e la tipologia di neoplasie.