Capitolo Primo - Introduzione
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primordiali semplici enzimi digestivi. L’impossibilità di masticare e
l’esigenza di dover ingoiare per intero le prede hanno fatto sì che questi
rettili sviluppassero un sistema di digestione extracorporeo, ovvero una
soluzione molto simile ai succhi gastrici degli altri animali, che permettesse
una parziale pre-digestione del cibo, in modo da rendere più agevole la
digestione dello stomaco. Le funzioni digestive di questa “saliva”
modificata, sono via via cambiate nel corso dell’evoluzione, diventando nel
tempo sempre più efficaci nei confronti di una determinata preda.
Il veleno di serpente è una soluzione di sostanza proteica, residuo
cellulare, materia grassa e sali di calcio, ammonio, cloruro di magnesio e
fosfati; contiene, inoltre, emotossina e neurotossina. L’emotossina
danneggia i vasi sanguigni e provoca un travaso di sangue nei tessuti,
edema esteso e scolorimento delle parti molli; la neurotossina attacca,
invece, i centri nervosi causando paralisi. Altri componenti dei veleni sono:
fattori che interagiscono con il sistema emostatico, l’emolisina, che provoca
la dissoluzione dei globuli rossi, l’agglutinina che produce l’agglutinazione
dei globuli rossi con i bianchi; altri fattori di intossicazione non meglio
stabiliti.
I polipeptidi di natura enzimatica e non costituiscono circa il 90% del
peso secco di un veleno; ciò spiega perché i veleni di serpente sono
considerati la più ricca secrezione proteica prodotta dai Vertebrati. Le
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proteine contenute nei veleni di serpente hanno diverse e molteplici attività
enzimatiche; si ritrovano, infatti, fosfolipasi, fosfomonoesterasi,
fosfodiesterasi, L-amminoacido ossidasi, acetilcolinesterasi, proteasi
(enzimi della classe delle serine esterasi e metalloproteasi), 5’ nucleotidasi,
ialuronidasi e NAD nucleosidasi (Stocker, 1990). Peptidi trovati nei veleni
di serpente comprendono, inoltre, citotossine, miotossine, cardiotossine ed
enzimi che interferiscono con l’aggregazione piastrinica.
Per il serpente il modo migliore per uccidere una preda è quello di
causarle una paralisi respiratoria o di procurarle un blocco circolatorio. La
somministrazione di veleno di serpente in animali solitamente produce un
abbassamento repentino della pressione sanguigna che conduce alla morte
per arresto cardiaco: così lo shock circolatorio, accompagnato anche da
emorragie interne, è una delle cause più frequenti di morte in seguito ad un
morso di serpente velenoso. L’iniezione di alte dosi di veleno conduce,
spesso, anche ad una morte dovuta alla formazione di coaguli intravascolari
e, quindi, a fenomeni di trombosi.
Le piccole dosi di veleno che solitamente vengono iniettate in un uomo,
in caso di morso accidentale da parte di un serpente, spesso conducono a
disturbi della coagulazione (sindrome da defibrinogenazione). I pazienti
morsi da serpenti velenosi si trovano spesso in un grave stato di
defibrinogenazione con livelli di fibrinogeno vicini allo zero e la
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conseguente impossibilità, da parte del sistema emostatico, di arrestare le
emorragie. Benché non sia la sola causa delle emorragie prodotte dal veleno
di serpente, la sindrome da defibrinogenazione certamente aggrava il
processo emorragico a carico dei vasi sanguigni, danneggiati, tra l’altro, da
altri componenti presenti spesso nello stesso veleno. La comparsa di
gonfiori ed edema in seguito ad un morso di serpente, è dovuta all’aumento
della permeabilità dei vasi sanguigni dovuta all’emotossina presente in
questi veleni.
Un numero elevato di proteine presenti nei veleni di serpente agisce sul
sistema emostatico dei Mammiferi. In particolare, tre gruppi di tali proteine
presentano, tra l’altro, un potenziale interesse clinico e farmacologico: gli
enzimi fibrinogenolitici (enzimi di tipo thrombin-like), enzimi fibrinolitici
ed inibitori dell’aggregazione piastrinica.
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1.2 La coagulazione del sangue
Normalmente tutte le emorragie, tranne le più imponenti, si fermano
rapidamente attraverso una serie di processi sequenziali: tale fenomeno
prende il nome di emostasi. In primo luogo, un trauma stimola le piastrine
(cellule ematiche non pigmentate e prive di nucleo) ad aderire ai vasi
sanguigni danneggiati e poi ad associarsi tra di loro così da formare una
barriera in grado di fermare le emorragie minori. Le piastrine aggregate e il
tessuto danneggiato iniziano, a questo punto, il processo di coagulazione
vero e proprio. Il coagulo (o trombo) si forma come risultato di una cascata
biforcata di reazioni proteolitiche che richiedono la partecipazione di quasi
20 diverse glicoproteine plasmatiche. Il coagulo è costituito da una
moltitudine di molecole di fibrina intrecciate in modo da formare una rete
fibrosa insolubile. La fibrina deriva dalla proteina plasmatica solubile
fibrinogeno attraverso una reazione proteolitica catalizzata dalla serina
proteasi trombina. Il fibrinogeno costituisce il 2 - 3% delle proteine
plasmatiche. Una molecola di fibrinogeno è costituita da tre paia di catene
polipeptidiche non identiche ma omologhe, Aα (di 610 residui), Bβ (di 461
residui) e γ (di 411 residui), e da quattro oligosaccaridi di circa 2,5 kDa
ciascuno, legati con un legame N-glicosidico due alla catena Aα e due a
quella Ββ . A e B rappresentano i fibrinopeptidi N-terminali di 16 e 14
residui amminoacidici rispettivamente che vengono rilasciati dalla molecola
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di fibrinogeno per azione della trombina. Studi al microscopio elettronico e
cristallografia ai raggi X a bassa risoluzione mostrano il fibrinogeno come
una molecola allungata di ~ 450 Å, costituita da due porzioni simmetriche
con due strutture nodulari a ciascuna estremità ed una al centro. Le sue sei
catene polipeptidiche sono unite da 17 ponti disolfuro, 7 all’interno di
ciascuna metà del dimero e 3 che legano questi due protomeri. La regione
centrale di ogni protomero ha una struttura superavvolta di tre α -eliche, di
cui le catene α , β e γ costituiscono ciascuna un componente. La trombina
idrolizza specificamente il legame Arg-X che tiene uniti i fibrinopeptidi A e
B alla macromolecola di fibrinogeno. La molecola di fibrina che ne risulta
si aggrega spontaneamente formando fibre che mostrano al microscopio
elettronico una struttura striata che si ripete ogni 225 Å. Questa distanza
regolare corrisponde esattamente alla metà della lunghezza di un monomero
di fibrina, suggerendo una associazione dei monomeri di fibrina per file
sfalsate di metà molecola. La rimozione dei fibrinopeptidi dal fibrinogeno
da parte della trombina espone dei siti, altrimenti mascherati, che mediano
l’associazione intermolecolare che porta alla formazione del coagulo.
L’aggregazione del fibrinogeno è inibita, invece, da repulsioni tra gruppi
che esibiscono la stessa carica. I fibrinopeptidi, infatti, hanno una elevata
carica negativa, a tal punto che la regione centrale del fibrinogeno, dove essi
risiedono, ha una carica di -8, mentre quella della stessa regione nella
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fibrina è +5. I segmenti laterali del fibrinogeno hanno ciascuno una carica
simile, -4, ma mantengono la stessa carica anche nella fibrina. La repulsione
tra i segmenti del fibrinogeno con carica simile ne impedisce
l’aggregazione, mentre l’attrazione tra la porzione centrale e i segmenti
laterali nella fibrina ne promuove l’associazione specifica. Tale è il
meccanismo di formazione del cosiddetto coagulo morbido che, come
indica il nome, è piuttosto fragile. Esso, però, è rapidamente trasformato in
un coagulo duro, più stabile, dal legame covalente tra molecole di fibrina
vicine, ad opera di una reazione catalizzata dal fattore stabilizzante la
fibrina (FSF o XIIIa). Il fattore XIIIa deriva dal fattore XIII per azione
diretta della trombina che provoca l’idrolisi specifica di un legame Arg-Gly
con il conseguente rilascio di un propeptide di 37 amminoacidi. Il fattore
XIIIa è una transglutaminasi che forma legami isopeptidici tra un residuo di
glutammina su una catena γ e un residuo di lisina su un'altra. Le catene α
sono collegate tra di loro in maniera analoga ma ad un ritmo più lento
I coaguli rappresentano, tuttavia, solo rimedi provvisori, che devono
essere eliminati con il progredire della rimarginazione della ferita. E’,
inoltre, indispensabile l’eliminazione di un coagulo che si sia
inopportunamente formato o liberato, correndo libero nel sistema
circolatorio. La fibrina è la molecola designata ad essere facilmente
idrolizza in un processo chiamato fibrinolisi. L’agente idrolitico è una
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serina proteasi plasmatica chiamata plasmina, un enzima che digerisce
specificamente il segmento a tripla elica della fibrina.
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1.3 Trombina e proteasi a serina
La trombina è una proteasi di tipo serinico che catalizza molteplici
reazioni nel corso della coagulazione del sangue, agendo, tra l'altro, come
potente attivatore dell'aggregazione piastrinica. Essa è costituita da due
catene polipeptidiche legate da un ponte disolfuro: una catena A di 49
residui amminoacidici e una B di 259. La catena B della trombina è
omologa alla serina proteasi tripsina ma agisce in modo più selettivo:
idrolizza solo particolari legami Arg-Gly di certe proteine. La trombina è
sintetizzata come uno zimogeno di 582 residui, la protrombina (II), che è
attivato da due reazioni catalizzate dal fattore di Stuart (X), a sua volta
prodotto nel passaggio precedente della cascata proteolitica. La trombina
idrolizza specificamente i legami Arg-Gly nelle catene Aα e Bβ del
fibrinogeno provocando il rilascio dei fibrinopeptidi A e B.
Le serina proteasi costituiscono una classe molto importante di enzimi
proteolitici tra cui la tripsina (enzima digestivo di origine pancreatica), la
chimotripsina (di origine e funzioni analoghe alla tripsina), l’elastasi, la
plasmina (che opera la dissoluzione dei coaguli), la callicreina (che é
implicata nel controllo del flusso ematico). Questi enzimi sono così
chiamati per il fatto che hanno un meccanismo catalitico comune basato su
di un residuo di serina particolarmente reattivo ed essenziale per la loro
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attività enzimatica. La chimotripsina, la tripsina e l’elastasi sono enzimi
digestivi che vengono sintetizzati nel pancreas e secreti attraverso il
duodeno. Tutti e tre gli enzimi catalizzano l’idrolisi di legami peptidici
(amidici), ma con diversa specificità per le catene laterali dei residui che
affiancano il legame peptidico suscettibile. Il modo più semplice per
stabilire la presenza di una serina attiva in una serina proteasi è la reazione
con il diisopropilfosfofluoruro (DIPF) che inattiva irreversibilmente
l’enzima. I residui cataliticamente essenziali in una serina proteasi sono,
oltre alla serina, un residuo di acido aspartico ed uno di istidina. Questi tre
residui formano una costellazione collegata da legami ad idrogeno chiamata
triade catalitica. Il meccanismo catalitico, quindi, di tutte le serina proteasi
è lo stesso e si basa sull’azione della triade catalitica, mentre la specificità è
dettata, invece, dalle singole caratteristiche strutturali.