12
quale intrattengono rapporti economici alquanto intensi come vedremo in seguito
(perlomeno nel loro ruolo di esportatori verso l’Unione Europea). Inoltre, ed è questo
l’aspetto più importante, condividono livelli di sviluppo economico ed industriale assai
differenti da quelli dei vicini europei, con ulteriori dislivelli all’interno dei tre contesti
nazionali.
La domanda che sorge spontanea riguarda il motivo del ritardo accumulato nel
processo evolutivo in campo economico. In particolare è importante comprendere se è
possibile rapportare il grado di sviluppo del capitalismo arabo e islamico ai canoni di
quello occidentale, quindi se ha senso parlare di capitalismo in questi contesti
istituzionali con la stessa facilità adoperata per lo società avanzate. Per questo motivo
faremo un salto temporale sulle formazioni capitalistiche contemporanee per stabilire la
posizione occupata in passato e nel tempo attuale dalle entità statali di nostro interesse,
a sostegno di questa operazione si ritiene utile ricordare quanto affermato da un grande
economista del passato secondo cui “…non so cosa renderebbe più conservatore un
uomo, se il non conoscere null’ altro che il presente, oppure null’ altro che il passato
1
”,
mantenendo costante il nostro intento principale che rimane quello di definire quali
sono stati gli impedimenti all’affermarsi di un modo di produzione capitalistico
avanzato (o di qualsiasi altro di modo di produzione) nei paesi di matrice araba e
islamica.
A questo punto desidero esprimere una considerazione di tipo personale nei
confronti del tentativo di analisi che siamo in procinto di intraprendere. La
consapevolezza di affrontare un argomento che a mio parere non gode dell’interesse
meritato da parte delle comunità scientifiche suggerisce che il tempo degli
approfondimenti in materia di “aree arretrate” sia stato sorpassato, infatti a partire dagli
anni settanta è evidente la ripresa delle analisi socio – economiche che riguardano i
paesi sviluppati, a causa della crisi che ha colpito il sistema economico mondiale creato
nel secondo dopoguerra. Infatti lo stimolo generato dalla nuova situazione
(contemporanea crescita dell’ inflazione e della disoccupazione) provoca un rinnovato
interesse per i fattori istituzionali con lo scopo di comprendere i nuovi problemi e per
trovare spunti e suggerimenti per l’ azione [Trigilia 1998].
1
John Maynard Keynes, The End of Laissez – Faire, in Trigilia C. (1998) Sociologia Economica, Il
Mulino, Bologna.
13
In questo contesto sono venute a mancare le condizioni fondamentali tratte dalla
teoria keynesiana, 1)la politica della piena occupazione basata sul deficit spending; 2) le
nazionalizzazioni; 3) la programmazione economica e 4) il welfare state, tali idee di
fronte alla globalizzazione hanno perso la loro forza propulsiva [Pellicani 2002, pag.
320]. Nel mondo sviluppato ed industrializzato infatti il problema dello sviluppo si
configura come non programmabile, perlomeno rispetto a quanto è avvenuto negli anni
del secondo dopoguerra fino alla crisi sistemica di metà anni settanta. Da un punto di
vista delle politiche economiche, si assiste ad una tendenza generalizzata nel mondo
occidentale (anche in Giappone), l’obiettivo primario dei gruppi di governo non è più la
lotta alla disoccupazione ma il contenimento del tasso d’inflazione. Questo cambio di
contesto ha implicato mutamenti anche su di un piano strettamente politico, in quanto i
partiti di sinistra orientati al modello keynesiano di sviluppo, hanno intrapreso una
strada che per esempio abbandona la politica delle nazionalizzazioni in favore delle
privatizzazioni delle holding statali. La nuova realtà globale giustifica il nuovo corso
negli studi sociali interessati alla modernizzazione ed allo sviluppo economico.
Tuttavia siamo persuasi dall’idea che il contrasto sempre crescente tra il mondo
prospero e sviluppato dei paesi industrializzati e l’insieme di territori che ancora non
godono dei favori portati dalla modernizzazione rappresenta una delle problematiche
decisive per il futuro della società mondiale. I recenti fatti internazionali
2
, le azioni
dimostrative dei fondamentalisti islamici contro obiettivi simbolici delle avanguardie
occidentali, devono essere interpretati alla luce di questa problematica, ovvero il
desiderio di quei popoli che chiedono di godere dei frutti della modernizzazione. In
queste società il fallimento dell’azione statale in tema di sviluppo, ha ampliato la forza
dei movimenti estremisti, considerati come nuovi portatori di riscatto economico e
sociale. Almeno per certi aspetti, siamo di fronte ad una situazione molto simile a quella
delineatasi nell’immediato dopoguerra quando i paesi del terzo e del quarto mondo
desideravano allinearsi al mondo industriale [Rodinson 1968], nelle forme quanto più
possibile complementari alle culture ed alle civiltà di riferimento.
2
Il più emblematico è stato sicuramente l’attentato contro le torri gemelle dell’11 Settembre 2001.
Tuttavia a partire dagli anni ’90, il “risentimento” islamico per la mancata modernizzazione si è
manifestato in altre circostanze, ricordiamo la guerra civile algerina tra forze governative e estremisti
religiosi, che godevano del sostegno di parte della popolazione e le lotte per la liberazione della Palestina.
14
Non bisogna dimenticare inoltre che la storia umana è una storia delle civiltà ed il
suo sviluppo non è pensabile a prescindere da questi termini, nel corso della storia
infatti le culture hanno rappresentato per l’uomo la più importante fonte di
identificazione [Huntington 1996]. A questo punto è chiaro che astrarre dalle peculiarità
storiche e culturali per determinare i modi di produzione e le formazioni sociali non è
possibile, solo aprendo una finestra sulla storia del sistema economico interstatale
moderno (basato sul sistema di produzione capitalistico), si possono ottenere quei
chiarimenti utili al nostro scopo, quello di individuare il ruolo delle economie arabe
nord africane nel sistema globale.
15
1.1 La formazione dei “blocchi” economici arabi nel contesto mondiale.
Le scuole di pensiero che tentano di dare delle spiegazioni al sistema interstatale
mondiale abbracciano differenti punti di vista ed è assai complicato stabilire quale sia
quello vincente, un fatto è certo, chi scrive non ha gli strumenti né la competenza per
caricarsi di un tale fardello ma può cogliere le impressioni riportate dagli autori delle
varie “fazioni”, i quali spesso concordano nell’affermare che una parte di verità si trova
in tutte le interpretazioni. Del resto non è semplice negare che il fenomeno della
globalizzazione come lo si intende oggi, ha avuto origine a partire dal secondo
dopoguerra con la suddivisione e la spartizione di aree d’influenza operata dalle due
grandi potenze che hanno dominato la scena internazionale fino alla caduta dell’Unione
Sovietica e dei regimi dell’Europa orientale. Tale fenomeno ha poi subito un’ulteriore
accelerazione negli anni Novanta del XX secolo, con il venire meno delle barriere
ideologiche e superando il mondo bipolare della Guerra Fredda a favore del mondo
delle Civiltà [Huntington 1996], che ha preso forma a partire dal 1990, all’interno del
quale un elemento chiave del quadro politico mondiale diventa l’interazione tra potere e
cultura occidentale da un lato e potere e cultura delle civiltà non occidentali dall’ altro
[Huntington pag. 25, 1996].
Un’interpretazione di questo tipo è senz’altro valida ed allo stesso tempo utile ma
viene ulteriormente perfezionata da quella via interpretativa che fa risalire le origini
dell’assetto mondiale contemporaneo all’epoca della prima età moderna ovvero al
periodo compreso tra il XVI e XVII secolo, una definizione alquanto suggestiva di tale
arco temporale è Il lungo XX secolo.
3
Questo tipo d’interpretazione unita alla
suddivisone dello spazio mondiale per appartenenza culturale fornisce un’importante
chiave di lettura di quali sono state le formazioni sociali ed i modi di produzione che si
sono affermate nel mondo moderno, una volta superato il modo di produzione feudale.
La prima considerazione da affrontare riguarda la formazione dei blocchi all’interno del
mondo moderno (che può essere esso stesso definito come mondo delle civiltà), in
particolare la suddivisione delle attività economiche mondiali che ha prodotto
conseguenze anche tra le attuali interconnessioni nazionali, ha determinato il formarsi
3
Titolo dell’ opera di Giovanni Arrighi (1994) Il lungo XX secolo, Il Saggiatore, Milano.
16
della dicotomia definita come Centro – Periferia [Amin 1977; Arrighi 1994; Hopkins,
Wallerstein 1997].
L’economia mondiale basata sul sistema di produzione capitalistico e la relazione
tra stati centrali e stati periferici si realizza attraverso la suddivisione dei mezzi di
produzione e l’accumulazione del capitale necessario a garantire la prosperità di chi ha
ottenuto posizioni vantaggiose all’interno del sistema interstatale. Il rapporto duale
centro – periferia si traduce anche in termini di ineguaglianze dei livelli di benessere le
quali si sono manifestate su scala mondiale, variando sia da un punto di vista geografico
che da un punto di vista storico, riflettendo l’andamento dei cosiddetti cicli di
accumulazione [Arrighi 1994]. Il “sistema mondo” attuale si fonda su pilastri che ne
formano la struttura portante, tra questi ricordiamo il fascio di relazioni interstatali, le
strutture del sapere, i sistemi di welfare e la produzione distribuita su scala mondiale. Il
punto di svolta decisivo nella storia che ha condotto al sistema che oggi conosciamo, si
è avuto con il passaggio dalla filosofia e teologia alla scienza moderna, quale principale
metafora organizzativa del sapere, secondo i canoni della disciplina newtoniana
[Hopkins, Wallerstein pag. 19, 1997].
Il soggetto motore del sistema interstatale non può essere altro che lo stato nazione
considerato in senso moderno, dal principio a gestire le relazioni internazionali sono
state le potenze europee, alle quali si sono aggiunte in seguito le entità nazionali
generatesi come conseguenze dei due principali cicli di decolonizzazione, il primo che
ha coinvolto le Americhe nel periodo compreso tra il 1775 ed il 1825, il secondo che si
è manifestato fino alla fine degli anni sessanta del XX secolo con l’ingresso del terzo
mondo e dei paesi produttori di petrolio e di materie prime. La fase della maturità di tale
sistema viene raggiunta intorno alla metà del Novecento, nel momento in cui lo stato
nazionale si fa carico dell’erogazione dei servizi sociali necessari al conseguimento
della crescita economica, determinando un doppio effetto ovvero l’aumento del costo
del lavoro con la conseguente riallocazione delle attività industriali nei paesi della
periferia per quello che riguarda le attività ad alta intensità di manodopera a basso costo.
Il raggio di azione delle imprese industriali espande i propri orizzonti geografici. Di pari
passo i paesi del centro accrescono ulteriormente l’intensità delle reciproche relazioni e
la stessa periferia vede rafforzarsi il proprio ruolo nello scacchiere mondiale in quanto
da questa area provengono le materie prime necessarie ai paesi del centro (su tutte il
petrolio).
17
A partire dal decennio ottanta si assiste ad un’ulteriore evoluzione dei rapporti tra la
periferia ed il centro, se nel periodo precedente la forma di investimento prevalente è
stata quella operata dall’impresa multinazionale, si passa ad una fase in cui i paesi
destinatari assumono un ruolo più attivo grazie a forme di reciproca collaborazione
realizzate attraverso joint-venture in settori quali la produzione di autoveicoli, materiale
elettronico, macchinari e strumenti di precisione [Hopkins, Wallerstein pag. 72, 1997].
In questo periodo la produzione industriale nei paesi della periferia cresce a livelli
ancora più sostenuti che nei paesi del centro, ad esempio tra il 1986 ed il 1990 tale dato
si attesta intorno all’ 8,2%. Da un punto di vista orientato all’evoluzione sociale
ricordiamo che il processo di decolonizzazione che ha investito la periferia e la
semiperiferia, ha anche provocato la creazione di impieghi sotto il controllo statale tali
che consentissero un consolidamento della base sociale nei regimi post-coloniali, è il
caso delle burocrazie statali.
Tali mutamenti avvenuti nella periferia hanno fatto sì che s’invertissero delle
tendenze multisecolari all’interno del sistema mondo, tra cui spicca l’avvio della
modernizzazione del terzo mondo (realizzatasi con forti irregolarità geografiche come
vedremo), che a partire dal 1945 vive un periodo di relativa prosperità economica
caratterizzato da investimenti nelle infrastrutture e introduzione di servizi sociali e
sanitari di base, favoriti dalla nascita prima di movimenti nazionalisti e poi
anticoloniali. Inoltre nei paesi periferici produttori di petrolio si sono registrati ingenti
profitti dalla vendita di questa materia prima, spesso investiti in settori lontani dai veri
bisogni della popolazione, è il caso delle ingenti spese militari su cui torneremo nel
secondo capitolo.
Di pari passo un mutamento epocale si manifesta nei paesi del centro all’interno dei
quali lo stato ha da sempre svolto un ruolo molto attivo. A partire dagli anni settanta
viene rivalutato il settore privato che, con discrezione, si sostituisce a quello statale in
materia di sevizi sociali e sanitari con un ridimensionamento dei sistemi di welfare, tali
mutamenti hanno origine nel paese guida della civiltà occidentale, gli Stati Uniti
d’America. Il sistema interstatale così come lo conosciamo, si è avviato sulla strada di
un deciso cambiamento a partire dalla metà degli anni settanta e le prospettive di
sviluppi futuri sono state delineate in un doppio senso, da una parte la teoria che
prevede una sostanziale continuità con il periodo precedente corretta da qualche
aggiustamento, quale lo spostamento del centro egemonico verso il continente asiatico
18
con la Cina paese guida della civiltà sinica [Huntington 1996]. Una prospettiva di crisi
sistemica è quella che vede sempre più accentuato il fenomeno già avviato di riduzione
del peso dello stato nella regolazione della vita economica e sociale, la rivoluzione
completata nel 1989 ha segnato la fine del sogno della modernità, nel senso che lo stato
non viene più considerato all’altezza di perseguire gli obiettivi di eguaglianza e di
liberazione degli uomini [Hopkins, Wallerstein 1997].
Un cambiamento di questo genere, il cui arco di riferimento temporale è il periodo
2000 – 2025, comporta conseguenze assai diverse nei paesi del centro rispetto a quelli
della periferia. Infatti i paesi in via di sviluppo o di recente sviluppo vedranno
indebolirsi il ruolo dello stato quando ancora non sono stati raggiunti quegli standard di
vita propri delle società industriali, determinando così il rafforzamento di quei
movimenti antistatalisti che assumono le sembianze dei fondamentalismi religiosi
(islamici nel nostro caso) e la rinnovata affermazione dei separatismi etnici. Tali
movimenti paradossalmente sono legittimati dai fallimenti degli stati periferici nella
costruzione delle istituzioni che consentissero la diffusione del benessere economico tra
le varie componenti delle loro popolazioni. In questa sede si ritiene che le èlite politiche
non abbiano favorito la trasformazione delle società di riferimento, in modo da uscire
dalla posizione di paesi periferici nel sistema mondiale interstatale. Per questo motivo
non è del tutto corretto parlare di capitalismo per le società periferiche, anche nel caso
dei paesi nordafricani oggetto della nostra attenzione, perlomeno per il periodo in cui
l’occidente viveva il periodo di massima espansione (nel secondo dopoguerra). Tuttavia
come abbiamo accennato in precedenza si rende necessario un salto per meglio
comprendere la formazione capitalistica di quel sistema interstatale di cui abbiamo
tracciato un rapido profilo nei passaggi precedenti.
Le formazioni statali periferiche si sono originate in quelle aree geografiche
conosciute come Terzo Mondo, una zona in cui prima del secondo conflitto mondiale la
presenza occidentale si rivelava sotto forma dei regimi coloniali, una volta raggiunta la
formale indipendenza politica sono cresciute delle regioni post-coloniali, all’interno
delle quali vengono praticate delle politiche militari tipiche della prima età moderna,
all’interno di quadro internazionale mondiale di tipo post-moderno [Arrighi 1994]. Una
situazione di questo tipo non è molto diversa da un punto di vista degli stadi storici della
formazione del sistema internazionale capitalistico.
19
Tale sistema di organizzazione della produzione ha le sue radici più profonde nella
società italiana del XV secolo, in particolare nelle città stato in cui si afferma una
borghesia commerciale nelle repubbliche di Genova e Venezia.
Proprio dai modelli che nascono in queste città ha origine il capitalismo moderno,
meglio conosciuto come successione di egemonie mondiali o successione di cicli
sistemici di accumulazione, la cui alternanza si fonda sul passaggio da transazioni di
tipo commerciale ad altre di tipo finanziario [Arrighi 1994]. In una realtà di questo
genere il soggetto dominante, l’area del centro, era rappresentata dalle città italiane che
detenevano il predominio nell’ accumulazione del capitale finanziario mentre una zona
periferica arretrata rispetto all’Europa si formava a sud del Mediterraneo in seguito al
declino dell’impero arabo, per esempio la città di Genova nel XV secolo possedeva
degli insediamenti coloniali in Nord Africa [Braudel 1982, pag. 71].
A partire da questo periodo si delinea la forma dell’economia mondiale
contemporanea attuale basata sull’alternanza dei cicli egemonici di accumulazione, che
sono passati attraverso i secoli prima dagli olandesi agli inglesi per arrivare al ciclo
attuale (sviluppatosi a partire dall’ ultimo quarto del XIX secolo), in cui la potenza
dominante è quella statunitense che ha già imboccato la via del declino [Arrighi 1994] e
sulla suddivisione tra paesi centrali e paesi periferici. Tale distinzione è stata tradotta
nei termini di economie autocentriche (paesi centrali), i cui elementi costitutivi (settori
produttivi, produttori e consumatori, capitale e lavoro) sono integrati in una singola
realtà internazionale, ed economie extravertite (paesi periferici) dove l’unità degli
elementi costitutivi si rivela su scala internazionale. Per fare un esempio ricordiamo che
i paesi del Terzo Mondo non dispongono delle risorse finanziarie necessarie a coprire i
rischi provenienti dalle fluttuazioni economiche internazionali [Arrighi pag. 406]. Infatti
una tendenza che si sviluppa a partire dagli anni settanta del XX secolo è quella di
trasferire i capitali “occidentali” in eccesso verso quei paesi detti semiperiferici che
dispongono di riserve consistenti ed a buon mercato di petrolio greggio, determinando
ulteriori difficoltà per gli stati che non dispongono di tali risorse.
Un movimento dei capitali che segue un andamento di questo tipo implica che il
capitale centrale muove verso la periferia se e solo se può trovarvi una remunerazione
migliore. Per questa ragione possiamo parlare di capitalismo come forma di
organizzazione della produzione nei paesi della periferia, tenendo ferma la definizione
di economie extravertite per quanto riguarda tali contesti nazionali. In genere nei paesi
20
capitalistici della periferia, siano questi produttori di petrolio o minerari in genere,
oppure basati su economie di piantagione, gli investimenti stranieri si concentrano nei
settori produttivi destinati all’esportazione [Amin 1978]. A questo punto appare chiaro
che le relazioni tra il centro e la periferia, per quanto sbilanciate a favore delle economie
autocentriche, rappresentano una costante nel sistema economico mondiale e sono per
certi aspetti essenziali per il suo funzionamento.
In questa sede non s’intende di certo negare l’evidenza dello squilibrio creatosi tra i
paesi centrali e quelli periferici, tuttavia non si ritiene corretto condividere le ipotesi di
un occidente “imperiale” che ha saccheggiato le risorse dei paesi emergenti
impedendone uno sviluppo autonomo. L’intento seguito riguarda l’aspetto delle
problematiche interne ai paesi oggetto del nostro studio, ovvero di stabilire quali sono
stati (e se sono esistiti) gli impedimenti insiti nella sfera culturale, tali da ostacolare o
rallentare lo sviluppo economico endogeno ed autodiretto.
Il modello teorico a cui faremo riferimento è quello della pluralità dei percorsi di
modernizzazione, che non necessariamente riflettono le forme assunte dalle società
occidentali. La modernizzazione s’intende correlata al concetto di civiltà, focalizzando
particolare attenzione alla dimensione culturale [Trigilia 1998] ed all’unione di
modernizzazione e preservazione dei valori, costumi ed istituzioni autoctone di una data
società [Huntington 1996]. Riportiamo un’affermazione emblematica del contesto
culturale di nostro interesse (civiltà araba) : “…Noi sauditi desideriamo modernizzarci,
ma non vogliamo necessariamente occidentalizzarci
4
”. Per queste ragioni la nostra
attenzione da questo momento in poi si sposta su quelle formazioni del capitalismo
periferico che interessano gli stati di cultura araba e religione islamica, in modo da
avere un quadro di riferimento appropriato alle condizioni economiche e sociali nord
africane di nostro interesse.
Il mondo arabo nord africano ha sofferto forse più di altre aree geografiche il
periodo coloniale dominato dalle potenze europee. Infatti in questi territori si erano già
parzialmente formate delle istituzioni economiche e sociali derivanti dalla dominazione
araba antica e da quella ottomana più recente. L’urto provocato dalle potenze europee
[Rodinson 1968] ha rallentato questo processo di sviluppo economico e sociale che
potrà riprendere soltanto con l’ondata di decolonizzazione. Ricordiamo inoltre che il
colonialismo europeo (nel nostro caso, di impronta francese ed italiana) non si è mai
4
Bandar bin Sultan , New York Times (10 Luglio 1994), in Huntington (1996) Lo scontro delle civiltà.
21
posto il problema di estendere a queste colonie i valori democratici dell’Illuminismo. I
coloni pur introducendo il diritto amministrativo e l’istruzione non conducono questi
territori alla progressiva industrializzazione, infatti le attività che vengono favorite,
rispondono agli interessi della potenza coloniale che le gestisce direttamente [Mutti
1973]. Per esempio le autorità coloniali francesi furono attente ad evitare di estendere la
legge francese ai soggetti musulmani, rispettarono anzi la shari’a (legge islamica) che
fu più volte messa in discussione dal FLN (Fronte di Liberazione nazionale algerino),
contribuendo al fallimento dell’universalismo offerto dal capitalismo borghese
occidentale [Amin 1997].
Nel mondo arabo (così come in quello orientale), lo sviluppo capitalistico interno è
stato molto più tardivo rispetto a quanto è avvenuto in Occidente. Tali aree geografiche
erano inserite nel sistema mondiale interstatale ma relegate ad un ruolo marginale, una
posizione ricoperta anche oggi se confrontata con quella degli stati altamente
industrializzati. Soltanto nella seconda metà del XIX secolo le vecchie classi feudali
incominciarono a trasformarsi in grandi proprietari capitalisti che producevano per il
mercato mondiale [Amin pag. 320, 1977]. A dire il vero e per dovere di precisione
cronologica, i primi timidi tentavi di modernizzazione sociale in senso capitalistico del
mondo arabo, si sono manifestati nella prima metà dell’Ottocento in Egitto sotto la
spinta della leadership di Mohammad Alì (1805-49) a partire dal 1816, con programmi
di industrializzazione di tipo statalista (una concezione molto diffusa nel mondo arabo
contemporaneo, come vedremo in seguito).
La formazione capitalistica del mondo arabo contemporaneo presenta tre fasi
distinte, la prima è conseguenza della maturazione delle élite intellettuali arabe ed
ottomane
5
, consapevoli del pericolo e della potenza europea, a cui segue la fase della
colonizzazione operata dalle potenze occidentali, per arrivare a quel periodo che inizia a
partire dal ’50 con l’avvio della decolonizzazione. Durante questa fase l’area araba
avverte che l’indipendenza politica è una condizione necessaria ma non sufficiente al
superamento della dipendenza economica dall’occidente e deve essere supportata da
un’azione modernizzante autoctona. Viene ripreso quel processo di nahda (rinascita
araba) iniziato nel XIX secolo, infatti dopo la lotta antimperialista si realizza l’ascesa di
una nuova classe sociale, la piccola borghesia moderna delle città, fenomeno che
5
Durante il regno del sultano Abdul-Hamid (1774-1789), le élites dell’Impero Ottomano si erano rese
conto che l’Europa aveva acquisito una posizione di superiorità economica netta. (Pellicani L. (2002)
Dalla società chiusa alla società aperta, pag. 382)
22
accompagna il crescente desiderio di unità araba, passaggio che si rivelerà assai lento e
difficoltoso come vedremo in seguito (limitatamente al discorso relativo all’integrazione
economica). Va detto che tale sentimento di coesione non ha fatto presa sulle società
nordafricane, a beneficio di una rinascita del sentimento nazionale dei paesi del
Maghreb [Amin 1977].
Il periodo di partenza dell’azione modernizzante operata dai governi arabi coincide
con gli anni sessanta e settanta (quando in Occidente inizia a declinare il modello del
secondo dopoguerra), grazie alla crescita dell’apparato burocratico negli stati arabi,
innanzitutto dal punto di vista dell’espansione del ruolo economico e sociale dello stato,
in linea con quanto avviene nel mondo non sviluppato dove il ruolo preminente in
materia di modernizzazione lo hanno svolto le élite politiche [Mutti 1973]. A partire dal
decennio ottanta anche nel mondo arabo, spesso in conseguenza ad un cedimento delle
pressioni internazionali, viene dato avvio ad un primo processo di privatizzazione senza
verificare gli effetti prodotti dalle politiche pubbliche del periodo conosciuto come della
burocratizzazione.
Durante tale fase la carenza di investitori privati e per contrastare il rischio di
internazionalizzazione dei capitali, il potere pubblico agisce in molteplici direzioni, in
materia economica, sociale e politica. In questo senso non siamo in grado di parlare di
capitalismo in senso stretto per quanto riguarda i paesi arabi. In particolare non sono
soddisfatti i fondamentali canoni weberiani caratterizzanti un sistema di organizzazione
della produzione in senso capitalistico. Viene a mancare quella fondamentale spinta
proveniente dal basso che il sociologo tedesco vedeva nelle classi imprenditoriali di
fede protestante. La burocratizzazione che ha investito le società arabe e che nell’attuale
fase di privatizzazione ha ancora ramificazioni assai articolate, ha indotto tali contesti
nazionali verso l’idealtipo weberiano del capitalismo politico strettamente confinante
con il socialismo di stato [Trigilia 1998].
La prevalenza del monopolio pubblico sui mezzi di produzione induce a confermare
la situazione di un capitalismo lontano dal modello industriale di stampo occidentale,
infatti viene meno l’appropriazione dei mezzi di produzione da parte della classe
borghese (che come abbiamo detto in precedenza è presente, in misura limitata) con il
conseguente impiego di forza lavoro salariata, per accrescere il saggio di profitto. Le
società arabe, che in questa sede potremmo definire modernamente burocratizzate, non
rispecchiano la contrapposizione generatasi nel primo periodo industriale europeo, in
23
quanto è il settore pubblico a farsi carico del conseguimento dei profitti e del pagamento
dei salari. Una situazione di questo tipo ha prodotto importanti conseguenze, per
esempio con la formazione di una stratificazione sociale ed economica basata sullo
schiacciamento di masse sempre più vaste verso il basso in contrapposizione alle élite
sempre più ristrette e sempre più ricche [Operti 2002].
La conquista dell’indipendenza di tali popoli musulmani non ha determinato
sostanziali mutamenti nei rapporti di dipendenza dei loro paesi rispetto ai centri
dell’economia mondiale, con l’accentuazione della debolezza della struttura economica
generando ulteriore sottosviluppo. Quanto affermato in precedenza rappresenta un
quadro forse un po’ troppo semplificato ma si tratta di una base di partenza utile a
comprendere che la fase di transizione dei paesi arabi verso la modernizzazione e verso
il mercato in senso economico, non si riduce alla creazione di un capitalismo politico
puro ma determina un quadro più complesso all’interno del quale agiscono molteplici
interessi ed organizzazioni (nel ruolo di concorrenti, controparti o intermediari) [Ayubi
1993]. Da ricordare che la regolazione degli interessi economici e sociali in gioco nel
mondo arabo, è influenzata da un contesto differente da quello occidentale. Se nei paesi
industrializzati si assiste alla contrattazione tra potere politico ed economico su di un
piano di parità tra gli attori, altrettanto non avviene nei paesi musulmani dove alcuni
gruppi borghesi neopatrimoniali godono di particolare attenzione rispetto ad altri,
esclusi e marginalizzati come vedremo nel quarto capitolo. Intendiamo dire che
l’apparato statale funziona a vantaggio dei gruppi economici ad esso collegati, in genere
attraverso legami clientelari.
La consapevolezza di trattare paesi con livelli di sviluppo inferiori a quelli
occidentali deve anche indurre ad un’ulteriore riflessione che riguarda la dicotomia di
pubblico/privato in relazione alla proprietà delle aziende e quindi alla proprietà dei
mezzi di produzione con le relative implicazioni sociali (ruolo dell’ imprenditoria nel
sistema economico e dei lavoratori salariati). Il tema della proprietà nei paesi in via di
sviluppo non è di vitale importanza nel momento in cui si voglia misurare l’efficienza
ed il grado di crescita delle imprese. Per fare un esempio, nel mondo arabo
l’organizzazione pubblica si è rivelata più flessibile e propensa a rispettare le regole di
quanto non fosse l’organizzazione privata, risultati emblematici circa l’infondatezza del
pregiudizio che riguarda le differenze tra pubblico e privato nel mondo arabo
[Cunningham 1989, in Ayubi 1993]. Ciò non toglie che nei contesti arabi di nostro
24
interesse, dove è diffusa la presenza statale nel mondo della produzione, fenomeni legati
alla corruzione ed al favoritismo di gruppi legati alle élite di potere, rappresentano forse
l’ostacolo più difficile per la modernizzazione economica.
Paragonare i paesi più industrializzati a quelli meno sviluppati in termini di
capitalismo moderno o politico, può generare a mio parere delle incomprensioni. Infatti
studiosi di origine araba che meglio conoscono la realtà dei propri contesti istituzionali,
sottolineano come i paesi progrediti hanno raggiunto un livello di privatizzazione
elevato in accordo con la struttura economica di base, attinente alla produzione ed alle
forze di produzione, per non parlare della struttura legale e politica. Altrettanto non si
può dire per i paesi less developed, all’interno dei quali convivono differenti sistemi
produttivi (per esempio economia informale e sommersa) e lo stato è in grado di
assumere un grado di autonomia più elevato. Paradossalmente le politiche
complementari al sistema capitalistico, vengono realizzate attraverso le strutture statali
sotto forma di public policy. Gli esempi più convincenti nell’ambito delle riforme
economiche sono dati da quegli stati arabi la cui presenza nel tessuto produttivo
nazionale è diffusa (i casi di Tunisia ed Egitto sono tipici nel mondo arabo).
Risulta evidente che lo stato è posto al centro dei processi di sviluppo economico e
sociale, creando strutture più o meno corporative ai fini dell’inquadramento della
società da parte dell’apparato statale ed istituzionale. Gli esempi di cui ci serviamo
derivano ancora dal caso dell’Algeria, dove lo stato si è fatto artefice di un vasto
progetto di sostegno delle imprese in fase di industrializzazione e della Tunisia che pur
manifestando atteggiamenti alquanto liberali, si caratterizza per la politicità del proprio
capitalismo. Nel primo caso, la soluzione adottata nel periodo post-coloniale vede la
nazionalizzazione quasi totale ma parziale del capitale produttivo [Raffinot,
Jaquemomnt 1977]. Tale azione statale ha prodotto risultati concreti, su tutti una
profonda scossa della struttura sociale, con l’affermazione di una nuova classe di operai
e di imprenditori pubblici ma anche privati, allo stesso tempo però si registra la
proliferazione di mercati clandestini, illegali e non autorizzati che implicano il crescente
desiderio di autonomia avvertito dalle società civili. La domanda che abbiamo già posto
in precedenza trova quindi una parziale risposta nel classificare il modello capitalistico
arabo come “politicamente orientato”, in alcuni casi si potrà parlare di forme di
socialismo di stato proprio come viene definito da Max Weber e come spesso con
troppa enfasi è stato acclamato da diversi leader politici arabi nordafricani (i presidenti
25
di Algeria e Libia su tutti). Premettiamo inoltre che la prima fase orientata alla
modernizzazione nei contesti istituzionali di cui ci occuperemo (Algeria, Libia e
Tunisia), si è fondata su modelli di sviluppo prevalentemente provenienti dall’esterno.
Due sono i “tipi ideali” che possiamo utilizzare quale quadro di riferimento, un
nazionalismo liberale orientato al capitalismo e varie forme di socialismo, che una volta
trapiantate nella regione non hanno raggiunto risultati soddisfacenti in termini di
sviluppo socioeconomico.