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nonostante tutto, è ancora viva e vitale. Quali sono allora le
possibilità che il Sud offre ai suoi giovani? Come mai vi è ancora
una tendenza all’emigrazione verso il Nord del Paese e verso altri
Stati?
A queste e ad altre domande vuole cercare di rispondere questo
lavoro, anche e soprattutto alla luce dei dati più recenti e di altri
lavori sull’argomento ben più autorevoli. Per fare questo è
necessario anzitutto tentare di delineare un non facile quadro socio-
economico del Mezzogiorno d’Italia, passando per il mercato del
lavoro meridionale e soprattutto per la qualità della formazione in
quest’area del Paese. Occorre tenere nella debita considerazione la
particolare realtà nella quale i giovani meridionali si trovano a
formarsi. Questa realtà culturale presenta un atteggiamento talvolta
avverso alla modernità e, per l’aspetto che interesserà,
all’investimento in capitale umano.
Si passerà poi ad analizzare il capitale umano come causa ed effetto
dei divari di sviluppo del Mezzogiorno, per poi arrivare ad
esaminarne la formazione prima a livello nazionale e poi nella
specifica realtà meridionale.
Infine, si tenterà di formalizzare, con un modello teorico ad hoc, la
funzione del reddito da lavoro in relazione al tempo speso nello
studio per verificare quanto conviene investire in un anno
3
d’istruzione addizionale. Per quest’ultima fase del lavoro, è tuttavia
necessario precisare che appare fin d’ora piuttosto riduttivo cercare
di stabilire una “convenienza” o meno di un anno d’istruzione
addizionale solo in base alla possibilità di reddito da lavoro
addizionale che i soggetti più istruiti sarebbero in grado di
guadagnare, nella convinzione che una società più istruita sia anche
più civile. Il Mezzogiorno ha bisogno anche di una società più
civile per decollare definitivamente.
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PREMESSA
Il Capitale Umano è un termine creato da Theodore Schultz e
reso popolare da Gary Becker, entrambi professori dell'università
di Chicago e premi Nobel per l'economia. Si ha la “creazione” di
capitale umano tutte le volte che un uomo acquisisce conoscenze
o capacità che migliorano la sua efficienza produttiva (ad
esempio permettendogli di lavorare con macchine più
complesse). Il capitale umano si acquisisce in due modi: con
l'esperienza (ciò spiega perché una persona con più esperienza è
meglio retribuita di un principiante) o con la formazione. La
costituzione di capitale umano, poiché rende coloro che lo
acquisiscono più produttivi, genera un aumento del loro reddito.
Si tratta quindi di un investimento, esattamente come
l'investimento in attrezzature produttive: ognuno calcola il costo
dell'investimento (ad esempio il tempo passato a fare corsi di
formazione, la rinuncia a un salario che questa formazione
implica) e il suo rendimento (il flusso di redditi supplementari
che tale formazione comporta). E ognuno può quindi
determinare, in base alle proprie attitudini personali e al rischio
di abbandono della formazione, quale durata e quale tipo di
formazione renderà di più e fino a che punto è utile seguire una
5
formazione.
La teoria del capitale umano è fondamentalmente neoclassica,
poiché fornisce una base razionale e individualistica alla
decisione di proseguire o meno nei propri studi. È comprensibile
quindi che abbia suscitato le riserve di molti economisti che, pur
riconoscendo l'utilità della formazione nel generare aumenti di
produttività, sono dubbiosi sul fatto che questa formazione
obbedisca a un calcolo costi/benefici di tipo individuale. Ciò
significherebbe cancellare ogni componente sociale o collettiva,
e riconoscere implicitamente che coloro che continuano gli studi
sono più dotati. Non si può però non ammettere che il capitale
umano appartiene alla persona e non può diventare proprietà
dell'istituzione che lo utilizza. Questo fa capire meglio perché le
imprese siano reticenti a finanziare la formazione continua: si
rischia infatti di veder svanire l'investimento fatto (il costo della
formazione), a favore di un concorrente che non ha finanziato
questa spesa, ma che invece ne trarrà vantaggio.
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CAPITOLO 1
QUADRO SOCIO-ECONOMICO DEL
MEZZOGIORNO
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1.1 SEGMENTAZIONE DEL MERCATO DEL
LAVORO MERIDIONALE
Se si guarda al problema del sottosviluppo del Mezzogiorno dal
punto di vista del mercato del lavoro, la pubblicazione di stime del
volume di lavoro irregolare a livello regionale, elaborate in ambito
Istat [Abbate, 1998], ha portato una nuova chiarezza sui caratteri
specifici del mercato del lavoro del Sud. Per troppo tempo, infatti,
si è concentrata genericamente l'attenzione sulla disoccupazione
meridionale, sui suoi livelli e sulle sue dinamiche, senza mettere in
relazione questo pur grave fenomeno con la qualità
dell'occupazione e con i relativi livelli salariali di fatto.
Solo ricostruendo, pur con le necessarie semplificazioni, il
funzionamento di tutto il ciclo di vita (individuale e sociale) del
capitale umano del Sud è possibile individuare oggi i codici
perversi che riproducono il sottosviluppo nell'area meridionale.
Innanzitutto, considerando il complesso dei lavoratori, le quote più
alte di irregolari (denotando con questo termine i lavoratori che
prestano la loro opera in condizioni salariali/normative/contributive
inferiori a quelle contrattuali e/o legali) si concentravano, nel 1981,
nel Mezzogiorno: il 15% in Sardegna; il 25% in Molise e
Basilicata; il 29% in Campania; il 30% in Puglia; il 33% un Sicilia
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e il 38% in Calabria. In Italia, in media, gli irregolari erano il 13%;
ma se il Centro-Nord era al 6,2%, il Sud era al 28,2%.
Depurando l'universo degli irregolari dal lavoro autonomo e
puntando l'attenzione solamente sul lavoro dipendente, ne deriva un
quadro ancora più drammatico: nelle regioni meridionali il 26,2%
dei dipendenti non risultava avere un regolare rapporto di impiego,
contro il 4,5% delle regioni del Centro-Nord. Inoltre, nel
Mezzogiorno la quota dei lavoratori dipendenti "in nero" nei settori
industriali era del 13,5% (con punte del 18,9% in Sicilia e del
30,3% in Calabria), mentre al Centro-Nord era di appena il 3%.
Nell'industria delle costruzioni al Sud un lavoratore su due era
irregolare, contro uno su cinque al Centro-Nord. Per gli anni
successivi al 1981, l'ISTAT non pubblica dati comparabili, ma le
stime dell'evoluzione degli irregolari su tutto il territorio nazionale
[Baldassarini 1998] segnalano la stazionarietà del fenomeno nel
corso del tempo; ciò lascia presumere che anche le dimensioni del
mercato del lavoro irregolare meridionale (circa 1,8 milioni di
lavoratori: poco meno della metà di quello regolare) si possano
ipotizzare stabili nel tempo.
Tali cifre chiariscono come per il Sud il problema del lavoro non sia
solo e soltanto una questione di quantità (lavoro che manca), ma
soprattutto un fatto di qualità (che tipo di lavoro e a che prezzo
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viene offerto e domandato). E così, simmetricamente, il problema
della disoccupazione non risiede tanto nella sua pur rilevante
quantità, quanto nei suoi modelli di generazione intertemporale.
In altri termini, il problema è chiarire quale sia oggi, nel
Mezzogiorno, il "salario d'accettazione". Oggi, dopo decenni di
trasferimenti facili e un quarantennio di interventi straordinari, in
una situazione segnata da una diffusa illegalità e da una sensibile
sottoproduzione dei beni relazionali insiti nel rispetto delle regole
etiche dell'economia e della convivenza civile.
E’ possibile individuare nel Sud due modelli di offerta di lavoro
(nelle famiglie), distinti e coesistenti, a cui corrispondono due
diversi livelli di equilibrio salariale e quindi due diversi segmenti
del mercato del lavoro. Anzitutto un "modello urbano ricco", in cui
i trasferimenti facili, il peso di un settore pubblico clientelare, un
più basso livello dei prezzi rispetto al Nord, l'evasione fiscale e
contributiva, l'assistenzialismo, ecc. contribuiscono a garantire un
salario di riserva (ovvero un salario d'accettazione) relativamente
alto.
In questo modello, i giovani disoccupati "urbani ricchi", ad alta
scolarizzazione, possono aspettare a lungo il posto di lavoro in
condizione di non-lavoro (ufficiale), dando vita al noto fenomeno
della disoccupazione di attesa; possono, cioè, innalzare i requisiti
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qualitativi e salariali della soglia di accettazione del lavoro,
appoggiandosi sul sistema familiare in termini di reddito e/o usando
la scuola e l'università come parcheggio in attesa di un posto
"buono".
Tale modello ha un elevato livello di stabilità e un'alta capacità di
propagazione. Sulla base di questi pochi caratteri del modello
urbano ricco, si possono trarre alcune semplici conseguenze
economico-sociali:
1) i disoccupati inseriti in questa logica non reagiscono facilmente
ad una domanda puramente quantitativa;
2) non sono conflittuali;
3) sono soprattutto addensati nelle classi giovanili;
4) esprimono consumi pro-capite relativamente alti;
5) rappresentano uno strato socio-politico facilmente soggetto alle
pratiche clientelari e favorevole al mantenimento dello status quo;
6) sono il prodotto di un Sud sprecone, (in)spiegabilmente ricco e
pigro;
7) non hanno nessuna intenzione di muoversi dal luogo di residenza
(nè per motivi di studio nè di formazione e lavoro);
8) la disoccupazione, o meglio l'inoccupazione, di questo segmento
dell'offerta di lavoro, pur essendo di massa, è "di attesa"; ed è
pertanto spuria (volontaria), intesa in senso neoclassico.
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All'opposto del mercato del lavoro si colloca un "modello marginale
povero" (tanto urbano che rurale e interno), in cui carenza
strutturale di domanda di lavoro, frequenti abbandoni scolastici e
comunque bassa scolarità e formazione professionale,
disgregazione familiare e sociale, scarsa qualità dei servizi pubblici,
lavoro nero e irregolare, illegalità diffusa determinano un salario
d'accettazione notevolmente più basso della media e rendono
impossibile l'attesa del lavoro "buono" in condizione di
disoccupazione esplicita e prolungata e debole la resistenza alla
domanda di attività irregolari o addirittura illegali.
Anche il modello marginale povero, seppure con tassi di rotazione
occupazione-disoccupazione molto più rapidi, è a suo modo stabile
e autoriproduttivo, con notevoli effetti di alterazione etica del
concetto stesso di lavoro e di convivenza sociale. La
disoccupazione associata a questo modello di offerta è caratterizzata
da alcuni tratti salienti:
1) non è conflittuale, ma è tuttavia socialmente disgregante;
2) costituisce un effettivo, grave problema economico;
3) costituisce anche un problema socio-politico, di mancato
godimento dei diritti di cittadinanza (qualità-quantità dei pubblici
servizi);
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4) non colpisce solo la parte "secondaria" dell'offerta di lavoro, ma
è invece trasversalmente diffusa sia per sesso che per classi di età;
5) induce povertà.
Se il mercato del lavoro meridionale risulta dicotomicamente
segmentato secondo quanto suggeriscono i due modelli esposti,
ragionare di disoccupazione e di occupazione nel Mezzogiorno in
maniera tradizionale non porta lontano.
Il tutto è molto ben sintetizzato nei valori del 20% del tasso di
disoccupazione del Sud e del 28% del lavoro irregolare.
Passando alla questione delle gabbie salariali, nella realtà
segmentata del mercato del lavoro meridionale, esse permangono
ancora oggi, a distanza di vent'anni dalla loro abolizione legale, tra
segmento urbano ricco e segmento marginale povero. L'operatore
pubblico ha ricostruito con agevolazioni e fiscalizzazioni un
differenziale favorevole di costo del lavoro per le imprese
meridionali; e il diffuso mancato rispetto delle regole contrattuali e
contributive, gonfiando il settore irregolare del mercato del lavoro,
ha prodotto una sua segmentazione fondata su comportamenti di
evidente segregazione salariale.
Se i due modelli rappresentano le aree-problema del Sud, con le
loro rigidità e funzioni di riproduzione, consegue necessariamente
sia un esame del perchè tante politiche d'intervento non abbiano
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avuto l'effetto sperato, sia l'urgenza di individuare interventi
innovativi, capaci di porre termine ai circuiti perversi di
riproduzione, soprattutto del sottosviluppo economico
1
.
1.2 GABBIE SALARIALI E SEGMENTAZIONE DEL
MERCATO DEL LAVORO
La mancata comprensione della contemporanea presenza e della
interazione, nel mercato del lavoro meridionale, dei due opposti
modelli di offerta di lavoro delineati ha finora pregiudicato
l'efficacia delle misure volte al superamento del ritardo del Sud. Ad
esempio, la perdurante rilevanza del segmento "povero" dell'offerta
di lavoro, e quindi il ruolo di primo piano da esso svolto nel
malfunzionamento del mercato del lavoro meridionale, trovano
riscontro: indirettamente, in fenomeni quali gli abbandoni
scolastici, la diffusione delle pensioni di invalidità, le ampie zone di
attività illecite, ecc.; direttamente, nelle ricordate statistiche Istat del
lavoro irregolare, che mostrano come poco meno di un terzo dei
lavoratori meridionali è impiegato a condizioni salariali e normative
inferiori a quelle contrattuali.
1
I modelli sono quelli già esposti, peraltro più ampiamente, in AA. VV. (a cura di R.
BRUNETTA e L. TRONTI), Capitale umano e Mezzogiorno. I nuovi termini della questione
meridionale., Il Mulino, Bologna, 1994.
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Spesso è questo il caso non solo dei "meridionali poveri", ma anche
delle centinaia di migliaia di stranieri che vengono a lavorare
(soprattutto al Sud) senza disporre di alcuna tutela assicurativa nè di
alcuna struttura di accoglienza nell'ambiente ospitante, ma anzi
nelle condizioni di precarietà e ricattabilità connesse con la
condizione illegale dell'impiego. La loro presenza costituisce un
serio problema sociale, al Sud come al Nord, ma è tuttavia
funzionale all'attuale (perverso) modus operandi dell'economia
marginale; e anzi ne costituisce in buona misura il catalizzatore in
negativo.
Se la presenza di lavoratori stranieri non registrati comporta
l'esistenza di fasce di estrema debolezza nel mercato del lavoro
meridionale (con effetti di ulteriore segmentazione e segregazione),
essa opera infatti come fattore di stabilità e di riproduzione del
modello salariale povero, che non è conflittuale. Gli immigrati
clandestini formano una sacca di forza-lavoro non comunicante con
gli altri segmenti del mercato.
In questo mercato irregolare non si pone il problema dello
spiazzamento e/o della competizione tra i diversi segmenti di
offerta. Il risultato finale di questa consistente presenza è anzitutto
una limitazione delle possibilità di crescita, causata dalla bassa
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produttività delle risorse umane, imprigionate in una spirale
perversa di:
- bassi salari
- bassa produttività
- non rispetto delle regole
- illegalità diffusa
- emarginazione di sistema crescente
L'ampia diffusione del lavoro irregolare nell'economia meridionale
comporta la presenza di segmenti dove il salario di fatto è
nettamente inferiore a quello contrattuale. Del resto, anche il
differenziale salariale medio nei confronti del Nord si è allargato
negli ultimi anni: le gabbie salariali esistono già nei fatti e si vanno
anzi allargando in alcuni comparti. Le stime fornite dallo Svimez
mostrano che, fatto pari a 100 il reddito da lavoro dipendente di
un'unità di lavoro nella trasformazione industriale nel Centro-Nord,
il corrispondente valore al Sud era 79 nel 1989, 80,4 nel 1996 e
77,4 nel 1999.