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- qualifica le attività di pianificazione e
programmazione necessari per la definizione e
realizzazione di strategie aziendali; -
- sostanzia le competenze del personale, codifica il
“know-how”, accresce le informazioni e il sapere
conservato in archivi, database e nelle relazioni
intrattenute con i soggetti che operano nell'ambiente
di riferimento; -
- caratterizza i risultati aziendali configurandosi sia
come prodotto da cedere ai clienti (i cosiddetti
“prodotti del sapere”), sia come connotazione dei
servizi.
Queste risultano quindi essere risorse, spesso intangibili, che
nell'era della conoscenza diventano “obbligate”, visto che la capacità
d'innovazione e il vantaggio competitivo delle aziende si fondano
sempre più sulla disponibilità di risorse intellettuali “proprietarie”.
Con volumi sempre più ampi d'informazione rispetto al passato,
cresce di conseguenza la centralità strategica dei sistemi informativi
aziendali, degli insiemi ordinati di elementi che rilevano, elaborano,
scambiano e archiviano dati con lo scopo di produrre e distribuire le
informazioni nel momento e nel “luogo” adatto e alle persone che in
azienda ne hanno bisogno, utilizzando a tale scopo la tecnologia più
adatta.
Le risorse intellettuali costituiscono quindi non solo fattori
produttivi dalla rilevanza crescente, ma i più significativi input
produttivi, impiegati, oltre che nelle forme “tradizionali” del supporto
dei processi decisionali, in misura sempre maggiore, nei processi
operativo-gestionali sempre più in sostituzione di beni tangibili. In
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particolare, l'affermazione dell'economia della conoscenza certifica il
(diverso) ruolo strategico assegnato alle risorse intellettuali, non “solo”
strumenti per decidere e per accrescere la produttività, ma leva di
innovazione, asset aziendale che rende possibile la creazione di nuovi
processi, nuovi prodotti e nuove reti di relazioni in un circolo vizioso
che si autoalimenta. Conseguentemente, l'azienda, cessa di vedersi
come una semplice “macchina deputata all'elaborazione delle
informazioni”; subentra con la consapevolezza della centralità della
conoscenza, la necessità di adottare, a livello operativo, organizzativo e
gestionale, nuovi processi e strumenti di governo “calibrati” sulle
caratteristiche distintive delle risorse considerate, sostanzialmente
difformi da quelli dedicati all'informazione.
La finalità ultima dei processi di conoscenza è quella di
generare uno stato di “sapere” connesso a determinati oggetti relativi
alla gestione aziendale, tale da consentire agli operatori la possibilità di
interpretare le diverse situazioni, di studiare e formulare soluzioni e di
agire di conseguenza.
DEFINIZIONE DI CAPITALE INTELLETTUALE
Il capitale intellettuale, grazie al graduale processo di
affinamento del concetto e al contributo costante della letteratura
economica, viene definito come l'insieme delle componenti intangibili
che contribuiscono a determinare il valore di mercato di un'impresa.
Esso è, quindi, fonte non fisica di benefici futuri.
ra i contributi importanti al concetto di capitale intellettuale c'è
quello di David Teece. In un suo articolo del 1986 l'autore mette in
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risalto i ritorni economici legati al capitale intellettuale e distingue le
componenti tacite da quelle esplicite. Nella prima categoria rientrano le
“risorse intellettuali” che risiedono nella mente degli individui e
diventano know-how, capacità ed esperienza collettiva. Della seconda
categoria fanno invece parte gli “asset intellettuali” che, codificati e
tangibili, rappresentano la conoscenza specifica sulla quale l'impresa
può esercitare diritti di proprietà.
E' però Thomas Stewart, nel 1994, a sostenere che il capitale
intellettuale non solo rappresenta l'asset a maggiore valore per
un'impresa, ma che, quest'ultimo, pur essendo intangibile può essere
misurato. Come esempio a sostegno della sua tesi, Stewart, fa notare
come i mercati azionari spesso rispondano in maniera positiva agli
annunci di investimenti in Ricerca e Sviluppo.
Sulla scia di Stewart, nel 2000, Harrison e Sullivan forniscono
un insieme di regole a uso delle organizzazioni, per convertire gli asset
intangibili in valore di mercato.
Il capitale intellettuale, però, sarebbe rimasto l'ennesimo
tentativo di produrre categorie concettuali potenziali se il mondo delle
imprese non fosse stato il laboratorio su cui sperimentare e valorizzare
le riflessioni fatte più sopra.
Il caso più significativo è senza dubbio rappresentato dal
gruppo svedese Skandia, fornitore di servizi assicurativi e finanziari.
Già nel 1994 è la prima azienda ad elaborare una sintesi denominata
“Skandia IC Model” , che viene pubblicata come supplemento del
report finanziario. Sempre il gruppo Skandia, già nel 1991, fu la prima
a istituire il ruolo di Intellectual Capital Director, che, con la
collaborazione di un team di specialisti contabili e finanziari dello
sviluppo, decise di analizzare quali fossero le diverse componenti del
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capitale intellettuale della propria divisione Assurance and Financial
Services.
Questo “modus operandi” ricevette pubblico riconoscimento
nel 1996, durante il simposio sul capitale intellettuale organizzato a
Washington D.C.
In un secondo momento Leif Edvinsson e Michael Malone
(1997), Johan Ross et al. (1997) contribuirono alla diffusione dello
schema di generazione di valore del gruppo Skandia.
Proprio Edvinsson, partendo dal presupposto che il valore
scaturisce da due tipologie di capitale – quello finanziario e quello
intellettuale –, si concentra sul secondo effettuando una prima
separazione tra capitale “pensante” (human capital) e capitale “non
pensante” (structural capital). Il capitale umano ricomprende quindi le
competenze, le relazioni e i valori delle risorse umane dell'azienda. Il
capitale strutturale, invece, ricomprende il capitale rappresentato dai
clienti (customer capital), quello relativo all'innovazione (innovation
capital) e quello afferente ai processi (process capital).
Altri contributi condividono le logiche alla base del modello
Skandia. Nello specifico, Hubert Saint-Honge della Canadian Imperial
Bank of Commerce (1996) e Karl-Eirk Sveiby dell'Università del
Queensland (1997) individuano tre ambiti in cui il capitale intellettuale
si localizza: gli individui, la struttura interna e la struttura esterna.
Annie Broker, della Technology Broker, amplia la tassonomia
pur rendendola riconducibile alla precedenti circa i contenuti.
Un successivo contributo è quello di Ross et al. che pur
mantenendo la distinzione tra capitale umano e capitale strutturale
apporta alcune variazioni allo schema originale Skandia. Infatti, il
capitale umano fa riferimento a competenze, attitudini e agilità
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intellettuale, mentre, il capitale strutturale comprende le relazioni,
l'organizzazione e la categoria rinnovamento e sviluppo.
Sull'esempio di Skandia, dal 1997, la Dow Chemicals pubblica
un primo dettagliato rapporto al fine di valutare il proprio capitale
intellettuale cosicché tutti gli stakeholders possano avere il senso del
reale valore d'impresa. Diventa così la prima azienda statunitense a
pubblicare questo report, dopo che negli anni precedenti aveva istituito
la carica di Intellectual Asset Director, il quale poteva contare su oltre
100 Intellectual Capital Team.
Sempre nel 1997, Stewart, apporta una modifica al modello di
schema Skandia. L'autore colloca il customer capital allo stesso livello
di quello umano e di quello strutturale, poiché i clienti non sono di
proprietà dell'impresa. Ritenendo plausibile e giustificata questa logica,
l'analisi delle componenti del capitale intellettuale verrà effettuata
secondo questa suddivisione in “capitale umano”, “capitale
relazionale” (che come terminologia meglio si addice a includere non
solo i clienti ma tutte le tipologie di interlocutori) e “capitale
strutturale”.
COMPONENTI DEL CAPITALE INTELLETTUALE
Il capitale umano
Il primo ad aver formalizzato i fondamenti microeconomici
delle teorie relative al capitale umano fu Gary Becker grazie al suo
volume Human Capital (1964). In questo scritto, Becker, avanza
ipotesi relativamente alla struttura dei salari e specifica la relazione tra
profitti e capitale umano. Lo studio mette in risalto i ritorni da attività
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formative e di on-the-job training, dei differenziali e dei profili salariali
nel corso del tempo, nonchè del commercio tra Paesi diversi. Con
riferimento a quest’ultimo aspetto, ad esempio, l’autore dimostra che le
differenze a livello di capitale umano tra Paesi hanno un potere
esplicativo maggiore rispetto alle differenze in termini di capitale reale.
Prima di Becker, Herbert Simon, nel suo volume
Administrative Behavior (1947), rigetta l’assunzione della teoria
classica di un imprenditore razionale e orientato alla massimizzazione
del profitto, sostituendolo con un numero di decisori cooperanti, le cui
capacità di agire razionalmente sono limitate sia da una mancanza di
conoscenza sulle conseguenze delle loro decisioni sia dalla rete
personale e sociale che li caratterizza. L’apporto di Simon è
fondamentale, non solo per le implicazioni in termini di componenti
del capitale intellettuale (in questo caso il capitale umano), ma anche
perché evidenzia le relazioni che legano le sue diverse componenti.
L’affermazione “all knowledge resides in human heads” ben sottolinea
l’idea di conoscenza collettiva come risultato dell’integrazione e
aggregazione della conoscenza individuale.
Oltre questi, sono numerosi i contributi in materia volti a
sottolineare il ruolo chiave che riveste il capitale umano all’interno di
un’azienda.
Le componenti fondamentali del capitale umano sono le
competenze individuali, che possono essere a loro volta suddivise in:
relazioni e valori, attitudini, motivazioni, comportamenti e agilità
intellettuale. Esiste un sostanziale accordo tra tutti gli studiosi in base
al quale le competenze individuali, per essere vero capitale e fonte di
valore, devono essere opportunamente “amplificate” a livello
organizzativo. Questa affermazione consente di cogliere il legame tra
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capitale intellettuale e strategia: quest’ultima,infatti, deve prevedere la
creazione delle condizioni di contesto che consentono al potenziale di
conoscenza dell’impresa di tradursi in valore. Poiché il capitale
intellettuale è frutto di processi tangibili e intangibili è necessario che il
top management sia consapevole che le competenze cambiano nel
tempo e che occorre pertanto costruire oggi quelle che saranno le
competenze alla base della competizione del futuro.
Il paradigma delle “capacità dinamiche” (Teece e Pisano –
1994) rappresenta un approcio integrativo a quanto precedentemente
detto. Esso trova radici nei lavori di diversi autori (Schumpeter,
Penrose, Prahalad e Hamel) e sostiene che le organizzazioni di
successo posseggono assets intangibili, come la conoscenza
tecnologica o la competenza manageriale; e le capacità dinamiche si
traducono nell’abilità nel riconfigurare, riorientare, trasformare e
integrare le competenze chiave esistenti nell’impresa con le risorse e i
beni complementari esterni. Questa prospettiva riporta l’attenzione sul
come le imprese sviluppano competenze specifiche, ma anche sul
come rinnovano la propria base di conoscenze per rispondere a fatti
ambientali. Inoltre le competenze individuali possono essere più
utilmente viste anche in funzione della capacità di miglioramento di
singole attività (ad es. l’innovazione di prodotto e di processo, alla
flessibilità produttiva, all’acciorciamento dei cicli di sviluppo del
prodotto). Una competenza individuale può quindi essere vista come la
capacità di riconoscere il valore di altre risorse (Barney – 1986), di
utilizzare al meglio quelle già disponibili dell’impresa o di contribuire
attivamente a svilupparne di nuove (Henderson e Cocknurn – 1994)
prima dei concorrenti.