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Introduzione
Questa tesi nasce dai miei viaggi, dai libri letti, dai racconti ascoltati,
dalle persone incontrate lungo la strada durante passeggiate in città, dalla
riscoperta di un gesto semplice ed elementare: il camminare.
Camminare è, forse, l'atto volontario più vicino ai ritmi involontari
del corpo, come il respiro o il battito del cuore. Si cammina per nessun
motivo, per il piacere di gustare il tempo che passa, per scoprire luoghi e
volti sconosciuti o anche semplicemente per rispondere all'invito della
strada. É una fatica che produce nient'altro che pensieri e stabilisce un
equilibrio tra il fare e l’essere. Come sottolineano paleontologi e
antropologi, camminare eretti è il primo segno distintivo della specie
umana. Forse però, oggi, la maggior parte dei nostri contemporanei, lo
dimentica, pensando di discendere direttamente dall’automobile. Quella
umana è, infatti, una condizione immobile. I piedi servono più che altro per
spingere l’acceleratore in macchina e non per camminare. Perciò il mio
lavoro vuole essere un invito a riappropriarsi dello spazio pubblico,
attraverso un’azione tutt’altro che semplice: camminare.
Per dimostrare come questa azione sia insita nell’uomo e come, nel
tempo, si sia arricchita di valenze diverse e complesse, nel primo capitolo,
si ripercorreranno le tappe di quella che è stata la trasformazione culturale
del camminare. Da gesto naturale usato dagli uomini per reperire cibo e
informazioni, il camminare è diventato la prima azione estetica attraverso
cui l’uomo ha trasformato il paesaggio. Alla fine del XVI secolo ha assunto
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nuovi valori culturali divenendo un’attività sociale. Nella progettazione di
Palazzi e dimore, principi e sovrani vorranno inserire sempre più gallerie,
ambienti lunghi e stretti simili a corridoi che non portano da nessuna parte,
ma che hanno come unico scopo quello di fornire un luogo per l’attività del
camminare. Si mostrerà come, in quel periodo, camminare divenga un
esercizio utile per la salute, più che per il diletto e come sia necessario
praticare quest’attività in luoghi separati dalla popolazione. Camminare per
strada è identificativo di una condizione umile e popolare. Per questo gli
aristocratici, a fine XVII secolo, si faranno costruire dei giardini chiusi e
altamente strutturati dove poter passeggiare. Per chiarire meglio la
metamorfosi subìta dalle passeggiate degli aristocratici si esamineranno,
prima, le teorie di quanti, a fine Settecento, hanno sostenuto il camminare
come atto culturale (Jean Jacques Rousseau, Soeren Kierkegaard, Robert
Walser) e, successivamente, ci si soffermerà su quanti hanno incluso il
camminare a ingrediente essenziale per compiere un’esperienza estetica,
letteraria e filosofica. (William Woordsworth, Henry David Thoreau).
Si mostrerà come, con lo sviluppo della città, all’inizio
dell’Ottocento, si assista a una nuova trasformazione: camminare diviene
passeggiare, grazie soprattutto alla nuova figura del flâneur, colui che
passeggia tra la folla dei consumatori e ne osserva criticamente i
comportamenti. Per chiarire meglio come Parigi si trasformi in una città-
passeggiata, in cui la regola principale è muoversi, verrà approfondita la
nascita e la diffusione dei nuovi spazi del consumo, i passages, gallerie
commerciali coperte al cui interno era possibile godere di un’esperienza
estetica nuova, data dai nuovi materiali con cui erano costruiti e anche da
quell’atmosfera eccitante che accoglieva il passeggiatore al loro interno.
Nel secondo capitolo si vedrà la trasformazione del flâneur da
figura letteraria come la dipingeva Baudelaire, a passeggiatore che guarda
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le vetrine dei negozi, estasiato dai colori della merce (Benjamin). Il flâneur
è un sognatore ozioso, che rimane sulla soglia tra la frenesia e l’alienazione.
Ma la sua vita non può essere che breve. Presto la flânerie subirà una nuova
trasformazione, divenendo la pratica abituale della postmodernità. A
cambiare è lo scenario d’azione che vede il flâneur passeggiare prima nei
grandi magazzini, poi nei centri commerciali. Il flâneur contemporaneo è
ormai un buyer, un compratore estasiato, sedotto dallo spettacolo della
merce.
Buona parte della critica contemporanea, filosofica e sociologica,
(Baudrillard, Augè, Baumann) ha dedicato ampi studi sia al tema del
successo dei centri commerciali, sia alle conseguenze di questo fenomeno
sulle persone, dimostrando come questi ambianti artificiali sono ormai
divenuti occasione di esperienze sensoriali fuori dal comune. Inoltre, da
quando la città contemporanea è divenuta anche il centro dei network e del
cyberspazio, la figura del flâneur pare abbia subito un’ulteriore
metamorfosi. Con l’avvento della tecnologia 2.0, il flâneur è divenuto
cyberflâneur, con la conseguenza che si passeggia e si naviga soprattutto in
rete; ancora di più da quando è possibile visitare una città grazie alla
presenza del servizio GoogleMaps. Si preferisce stare seduti comodamente
sulla poltrona di casa a parlare in chat virtuali e caffè online, si visitano
negozi attraverso immagini scelte dal gestore, mentre la gente passeggia
sempre meno per strada. Poiché le esperienze e gli incontri virtuali
divengono sempre più frequenti, è necessario prendere sul serio le
implicazioni sociali che questi nuovi tipi d’incontro comportano. Se da una
parte, all’interno del cyberspazio, il cyberflâneur gode infatti di una
mobilità virtuale illimitata, che cancella lo spazio fisico e permette di
muoversi anche nella rete della cosmopoli virtuale, con le sue possibilità
interattive e la sua capacità di ridefinire i sistemi con i quali entra in
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relazione, dall’altra è anche vero che lo fa solo in senso virtuale. Il mondo
fuori dal monitor è sempre più vasto. Per questo occorre alzarsi dalla
poltrona, spegnere il portatile, mettere un paio di scarpe e uscire di casa,
per riappropriarsi dello spazio pubblico, attraverso quell’atto primigenio
che è il camminare. E se il percorso ci impone necessariamente di compiere
sempre le stesse traiettorie, dovremmo essere disposti a correre il rischio di
perderci.
Nel terzo capitolo, si vedrà come, proprio il perdersi, possa acquisire
valenza positiva e di crescita. Un buon modo per ricominciare a esplorare
la città, riappropriandosi delle relazioni smarrite. Già il Situazionismo di
metà anni ‘50 ha riconosciuto nella pratica del perdersi in città una concreta
espressione dell’anti-arte. Sulla stessa linea si pone la teoria della dérive
teorizzata da Guy Debord, intesa come arte di sperimentare nuovi spazi
attraverso nuovi stili di vita. La deriva è proprio un invito al perdersi. Si
distingue dal semplice passeggio essenzialmente per il tipo di approccio al
territorio. Chi “deriva” rinuncia al modo convenzionale di spostarsi perché
adotta una strategia che lo porta a muoversi in maniera casuale all’interno
di un territorio, lasciandosi andare alle sollecitazioni esterne. Questo
comportamento permette di cogliere nuovi feedback, che durante un
passeggio predeterminato e abitudinario non verrebbero percepiti. Infatti, la
deriva non va intesa solo dal punto di vista romantico di perdersi nello
spazio, ma è soprattutto un processo di raccolta di informazioni e
sensazioni che ci aiutano ad intendere lo spazio in cui ci siamo “persi”. La
teoria della deriva appare quindi come un invito al camminare in città
percorrendo le zone inesplorate.
Per troppo tempo dimenticata, la deriva oggi è stata riscoperta dagli
scrittori, dagli architetti, dai designer e dai sociologi come modo di
“rappresentare” e conoscere le grandi città coinvolte in una crescita
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accelerata dei loro quartieri abitativi nonché delle loro infrastrutture
commerciali. In tempi recenti, gli spunti teorici offerti dai Situazionisti e
dalla loro teoria della deriva trovano riscontro nelle performance degli
Stalker. I due gruppi condividono infatti il gusto per l’investigazione
urbana attraverso l’atto del camminare e la sensibilità nel cogliere i sintomi
di una società in mutazione. Attraverso l’esempio di Stalker, si mostrerà
come la tradizione della flânerie e dell’attraversamento dello spazio come
pratica estetica, sia ancora oggi viva. Anzi si affermerà come la pratica di
Stalker sia ancora più estrema di quella condotta dal flâneur dell’Ottocento.
Nella contemporaneità, infatti, la figura dello stalker sembra quasi segnare
il superamento del flâneur, dal momento che riconoscendo l’impossibilità
di comunicare l’anima dei luoghi, Stalker aspira a diventare parte
integrante di un contesto vissuto e attraversato in prima persona, più che
narrato e semplicemente “osservato” con il distacco tipico del flâneur.
Infatti pur partendo dal modello della dérive situazionista,
successivamente negli Stalker sembra prevalere il camminare come forma
di resistenza, come modalità di relazione, condivisione e riappropriazione
in una dimensione più esplicitamente collettiva. Così la dimensione estetica
di queste pratiche si è “diluita” sempre più nella sfera politica e sociale,
come si evince nella “Marcia per un Mondo Nuovo” fatta da Stalker dall’11
al 17 aprile del 2011 in Sicilia per rivendicare acqua pubblica, diritti civili e
autodeterminazione delle comunità locali.
Rispetto alle azioni delle avanguardie degli anni Venti e degli anni
Settanta, oggi non si cammina più in modo auto-dimostrativo, per
affermare che il camminare è un’arte, essendo questo fatto oramai
ampliamente riconosciuto dallo stesso sistema dell’arte. Non si cammina
più solo per riportarne l’esperienza nei musei, sotto forma di opera o di
documentazione d’archivio, ma si cammina sempre più per far compiere
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l’esperienza ad altri. Chi cammina oggi lo fa sempre meno in solitaria e
sempre più con altri, per condividere con altri, per incontrare altri.
Camminare con altri permette di mescolare le esperienze e di darne
una rappresentazione condivisa e molteplice. Durante il cammino si
producono forti relazioni interne e, soprattutto, si incrementano le relazioni
con l’esterno. Si moltiplicano i piedi, gli occhi e le orecchie e anche i
desideri, gli incontri: aumentano, quindi, le interazioni con il territorio.
Ecco allora che la riscoperta a piedi della città, lo scambio di sguardi con le
altre persone, identità reali non virtuali, la sosta e l’osservazione prolungata
dei luoghi divengono le condizioni indispensabili per leggere un territorio e
riappropriarsi, oggi, dello spazio vero e reale, non virtuale.
Spero, alla fine del presente lavoro, di suscitare nel lettore il
desiderio di praticare la flânerie, in solitudine o in compagnia, di
camminare in campagna e in città, alla ricerca dei significati più riposti e
mutevoli che esse ancora nascondono all’occhio frettoloso del passante.