Introduzione
Introduzione
Il 9 agosto del 2007 la banca francese BNP Paribas, prima in Francia e sesta in Europa
1
per capitalizzazione con 77,6 miliardi di euro, nata nel maggio del 2000 dalla fusione
tra la BNP e la storica banca Paribas, sospese i ritiri da tre dei suoi fondi di
investimento che avevano in portafoglio mutui ipotecari americani, facendo precipitare
nel panico la Borsa di Parigi. Neppure qualche mese prima, il 7 febbraio dello stesso
anno, la New Century Financial una società americana specializzata in questo genere di
2
mutui, annunciò forti perdite che scossero l’indice Dow Jones del 4,5% in un giorno e
nel settembre lunghe code presso gli sportelli della banca inglese Northern Rock,
soltanto lievemente esposta al mercato dei subprime, fecero affiorare nell’immaginario
3
collettivo un sinistro ricordo della Grande Depressione.
Eppure, soltanto qualche anno addietro, erano in molti a tessere le lodi di una nuova
economia che sembrava lasciarsi alle spalle il timore dei cicli recessivi. Le incredibili
4
performances dell’economia americana durante i “Ruggenti anni Novanta”,
incoraggiavano a credere che qualcosa fosse realmente cambiato nelle leggi
“gravitazionali” dell’impianto macroeconomico tradizionale e, allo stesso tempo, un
diffuso ottimismo dai toni trionfalistici annunciava la lenta diminuzione del livello di
5
povertà alla periferia del sistema. L’economia del tricke down stava generando i suoi
primi risultati. Gli anni ’90 tuttavia, furono altresì caratterizzati da uno stridente
contrasto tra le ottime performances dell’economia americana e i deludenti risultati nel
resto del mondo. L’Europa, afflitta com’era dall’applicazione di rigide politiche
economiche restrittive imposte dai criteri di Maastricht, sembrò lasciarsi sfuggire
1
Fonte: http://www.reuters.com/, in Il Sole 24 ore, sabato 21 aprile 2007, pag 4.
2
M.Deaglio-G.S.Frankel-P.G.Monateri-A.Caffarena, La resa dei conti, Tredicesimo rapporto
sull’economia globale e l’Italia, Guerini e Associati, Milano, 2008, p 32
3
Ivi, p.35
4
J.E.Stiglitz, I ruggenti anni novanta. Lo scandalo della finanza e il futuro dell’economia, Einaudi,
Torino, 2005
5
Lett: sgocciolamento verso il basso.
8
Introduzione
l’opportunità di crescita che l’inarrestabile locomotiva americana stava generando
mentre il Giappone, svanito il sogno di uno storico sorpasso di Wall Street, scivolò
lentamente ma in modo inesorabile, nella famosa trappola della liquidità di cui parlò
per primo l’economista britannico J.M.Keynes nella sua Teoria Generale.
Quanto al susseguirsi delle crisi di intensità crescente alla periferia del sistema, dal
Messico al Sud-est asiatico e poi di nuovo in America Latina, seguendo un percorso
nitidamente tracciato da ingenti flussi di capitali privati, prevalse l’idea non poco
consolatoria, che quelle crisi fossero evidentemente il frutto di errori macroeconomici
dei governi locali o, nella migliore delle ipotesi, il risultato di una inadeguata
applicazione delle riforme del Washington Consensus.
Le ultime piø recenti crisi nel cuore dell’occidente hanno creato maggiore scetticismo
nei confronti di questo modello di sviluppo e, benchØ oggi si utilizzi l’espressione
“globalizzazione economica” con minore entusiasmo, non vi è dubbio che nel corso
degli anni novanta il termine divenne un dogma ampiamente condiviso. L’espressione,
apparentemente descrittiva di una nuova economia globale, iniziò pian piano ad
addensarsi di una forte valenza normativa a tratti perfino ideologica. In effetti gli ultimi
decenni del secolo appena trascorso sono stati caratterizzati da eclatanti cambiamenti di
portata mondiale, che hanno investito un po’ tutti i settori della vita di ogni giorno. Se
volessimo cercare un confronto, potremmo forse dire che solo la seconda rivoluzione
industriale è stata capace di scatenare un potenziale di forze tali da innescare
cambiamenti di tale intensità. Pertanto il termine “globalizzazione” ben si prestava a
enfatizzare soprattutto il notevole grado di integrazione raggiunto dai mercati finanziari
e dal commercio internazionale. Divennero d’uso corrente espressioni come “mercato
globale” o “villaggio globale”, per descrivere un sereno scenario di armoniosa
integrazione economica.
E’ interessante scoprire tuttavia che il mondo accademico non si è mostrato affatto
unanime nell’interpretare questi eventi. La “certezza” della globalizzazione sembra
talvolta vacillare sotto i colpi di un’attenta critica. Già allora, l’economista indiano
Amartya Sen, denunciava come l’economia mondiale fosse caratterizzata dal forte
9
Introduzione
contrasto tra le condizioni di miseria dei poveri del mondo e l’opulenza di una Ølite
6
assai ristretta di privilegiati sempre piø ricchi.
Tra gli studiosi, una netta linea di demarcazione distingueva negli anni ’90, i teorici
“globalisti” dagli “scettici”. I primi, con autorevoli argomenti, sostenevano
l’ineluttabilità dei cambiamenti in corso. Il mondo aveva raggiunto un livello tale di
integrazione che non sembrava mostrare precedenti. Nel 2000 si contavano piø di
60.000 multinazionali con ben 800.000 filiali straniere capaci di fatturare oltre 15.000
miliardi di dollari. Da sole controllavano il 20% della produzione mondiale ed il 70%
del commercio mondiale. Quanto alla povertà, i piø ottimisti tra loro, sebbene
riconoscessero la notevole ampiezza del fenomeno non mancavano però di rilevare una
7
tendenza, seppure lieve, al miglioramento. Su quest’ottimismo si abbattØ come un
secchio di vernice nera contro una parete bianca, la prima protesta contro la
globalizzazione avvenuta a Seattle nel dicembre del 1999.
Ben differente è il punto di vista degli scettici che, con argomenti non meno
convincenti, negano radicalmente l’esistenza di un’economia globale. Se così fosse le
forze del mercato mondiale dovrebbero prevalere sulle varie economie nazionali
determinando il valore delle principali macrovariabili economiche (produzione, salari,
livello dei prezzi…). Oltretutto, sostengono gli “scettici”, confrontando l’attuale
scenario con il periodo antecedente la prima guerra mondiale (la Belle Epoque), molte
economie risultano meno aperte di quanto non fossero nel 1890. Ad oggi pertanto si
registra semplicemente un significativo processo di internazionalizzazione degli
scambi, capace di perpetrare piuttosto che attenuare, l’eterna divisione tra nord e sud
del mondo. L’attuale stadio di diffusione della povertà sarebbe dunque conseguenza
non tanto dell’incalzante processo di globalizzazione, quanto piuttosto del perdurante
8
imperialismo del nord ricco sul sud del mondo.
Il crollo della borsa americana nel 2000 e l’attuale crisi iniziata a partire dal 2007 hanno
scoperto quel velo di ottimismo oltre il quale si celano i veri limiti della nostra
economia globale. Un dato emerge con assoluta chiarezza: le crisi non sono soltanto piø
frequenti ma mostrano anche un’intensità crescente. Nel corso degli anni ’90 è stato
comodo cullarsi sull’idea che i crolli alla periferia del sistema fossero la risultante di
6
Fonte: http://www.swif.uniba.it/lei/rassegna/020623j.htm
7
Cfr: D.Held-A.McGrew, Globalismo e antiglobalismo, il Mulino, Bologna, 2003
8
Ibid.
10
Introduzione
errori economici imputabili ai governi locali e pertanto, l’entusiasmo coinvolgente che
scaturiva dalla retorica della “Nuova era” indusse a sottovalutare quanto profetiche si
sarebbero rivelate quelle recessioni. Piuttosto che indagare adeguatamente, sembrò
opportuno ignorare il campanello dall’arme che svelava dei mutamenti in atto
nell’economia mondiale tali da amplificare piccoli momenti di panico in severe
recessioni. Un atteggiamento piø prudente avrebbe dovuto indurci a interpretare le crisi
come piccole crepe sulla parete di un’immensa diga ma, inebriati dai records giornalieri
dei mercati azionari, lasciammo che le crepe continuassero a solcare la diga. Non è
esagerato ritenere che l’ambiente economico in cui oggi viviamo permetta di
amplificare un “battito d’ali” nel Sud-est asiatico al punto da provocare un terremoto
economico in America Latina o perfino nel ricco Occidente. E’ forse giunto il momento
di considerare, con maggiore disincanto, l’ipotesi che l’attuale recessione si configuri
9
come una crisi del sistema piuttosto che come una crisi dentro il sistema.
L’obiettivo di questa ricerca è stato quello di tracciare un percorso lungo i cambiamenti
che l’economia mondiale ha iniziato a sviluppare a partire dalla svolta neoliberista degli
anni ’80, con un’attenzione particolare verso le evoluzioni sorte nel corso degli anni
’90, per approdare infine alle crisi piø recenti.
Rifiutando un approccio deterministico che avvalora le tesi secondo la quale la
globalizzazione economica sia stata l’esito naturale e inevitabile degli sviluppi
delineatisi a partire da quegli anni, proveremo piuttosto a dare maggiore risalto al ruolo
che i protagonisti principali come gli stati e le istituzioni economiche internazionali,
hanno svolto nel forgiare l’attuale modello di sviluppo economico. Emergerà con
chiarezza come le origini delle recessioni degli ultimi due decenni debbano essere piø
correttamente ricercate nel cambio di rotta che la politica economica delle principali
potenze intraprese sul finire degli anni ’70, in un quadro ben piø ampio di crisi
economica, politica e sociale.
Per finire, sarà interessante scoprire quali configurazioni sta assumendo oggi il
capitalismo mondiale, che riflessi si sono prodotti sul grado di disuguaglianza globale e
come è destinato ad evolversi nelle economie capitaliste, il confronto tra capitale e
lavoro.
9
M.Deaglio-G.S.Frankel-P.G.Monateri-A.Caffarena, La resa dei conti. Tredicesimo rapporto
sull’economia globale e l’Italia, cit., p. 21
11
12
Alle origini del cambiamento: dalle politiche keynesiane alla svolta neoliberista
Capitolo 1
Alle origini del cambiamento: dalle politiche keynesiane alla
svolta neoliberista
1.1 La sintesi keynesiana e il dibattito sulle politiche economiche del dopoguerra
All’indomani della seconda guerra mondiale, le politiche economiche delle potenze
occidentali furono calibrate su obiettivi tanto di politica interna quanto, soprattutto per
gli Stati Uniti, di politica estera. La sintesi keynesiana fornì loro l’ “armamentario”
macroeconomico necessario per circa tre decenni, prima che ad essa subentrasse la
svolta neoliberista maturata nel corso degli anni ’70. Nel dopoguerra si riteneva, con
ottimistica fiducia, che un sistema economico potesse essere immaginato come uno
strumento, seppur complesso, ma potenzialmente gestibile. Il successo che la curva di
Philips riscosse negli anni ’60 spinse gli economisti alla ricerca di un livello di
inflazione combinata con un grado di disoccupazione “socialmente” tollerabile, mentre
la legge di Okun, nata nello stesso periodo, sostenne empiricamente che una riduzione
del 2% della disoccupazione si sarebbe tradotta in una crescita del Pil del 2-4%.
L’importante contributo dell’economista britannico John Maynard Keynes è stato
quello di elaborare un’analisi dei cicli economici che faceva dipendere le crisi
dall’insufficienza della domanda aggregata. Ne sarebbero derivate delle conseguenze
intuitive ma di grande importanza. Se le recessioni derivavano da un livello
insoddisfacente della domanda aggregata, sarebbe stato necessario stimolarla
adeguatamente, piuttosto che sperare che l’economia, lasciata a se stessa, ritrovasse un
equilibrio nel medio-lungo termine. Da qui l’esigenza di un maggior intervento
pubblico, tramite lo strumento della politica fiscale, affiancata attivamente alla politica
monetaria. L’analisi di Keynes poneva tuttavia alcuni problemi di carattere economico.
Una politica economica espansiva ed un maggior intervento dello stato nell’economica
avrebbero potuto facilmente provocare delle spinte inflazionistiche. Ai suoi detrattori,
Keynes rispondeva sottolineando l’importanza di finanziare il maggiore intervento
13
Alle origini del cambiamento: dalle politiche keynesiane alla svolta neoliberista
pubblico con la spesa in conto capitale piuttosto che con la spesa corrente. Keynes
preferiva chiaramente una versione riformista del capitalismo al puro socialismo ma,
era un convinto assertore che quel capitalismo andasse sostituito con un modello di
10
sviluppo molto piø egualitario e basato sul controllo sociale degli investimenti. Non
mancano in effetti alcune contraddizioni irrisolte nelle riflessioni dell’economista
britannico che, se da una parte confermava la sua fiducia nel mercato come efficiente
meccanismo di allocazione delle risorse, dall’altra auspicava una certo grado di
socializzazione degli investimenti che in ultima analisi, avrebbe necessariamente
comportato il ricorso ad una qualche forma di pianificazione economica. Ad ogni
modo, al di là dei limiti economici, il vero nodo irrisolto resta politico. A ben guardare,
come ha sottolineato l’economista americano Paul Sweezy, il buon funzionamento del
riformismo keynesiano presupponeva la neutralità dello stato dalle forze sociali ma, in
un’economia capitalistica, non di rado lo stato diviene garante dei rapporti capitalistici
11
di proprietà. In altri termini, il maggior intervento pubblico e l’attuazione di una
politica realmente redistributiva, sarebbe stata tollerata nella misura in cui questa non
avesse intaccato i rapporti capitalistici di produzione, proponendosi dunque come
complementare e non conflittuale rispetto l’iniziativa privata. Inoltre, secondo le forze
conservatrici, una reale politica di piena occupazione avrebbe potuto indebolire “l’etica
del lavoro” e non ultimo, privare la classe capitalista del potere di determinare il livello
di occupazione oltre che di uno strumento di disciplina, il licenziamento, da sempre
utilizzato per fiaccare lo sviluppo di una piena coscienza di classe da parte del mondo
operaio. Un’analisi ripresa dall’intellettuale del Mit, Noam Chomsky che, citando lo
studioso Thomas Carothers, sostiene: “Gli Stati Uniti cercano di creare una forma di
democrazia gerarchica, dall’alto in basso, che consenta alle tradizionali strutture di
potere, fondamentalmente le imprese economiche e i loro alleati, di mantenere uno
stretto controllo sulla società. Qualsiasi altro modello[…]è assolutamente
12
intollerabile.”.
Nel proporre un programma di interventi pubblici finalizzato verso l’ambizioso
obiettivo della piena occupazione, l’economista britannico non pensava certo al
finanziamento delle spese militari ma, nel dopoguerra, furono proprio queste a
10
J.M.Keynes, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, trad. it. Utet, Torino
1968, seconda ed. 1978, Ed. or.:1936, p. 549.
11
D.Preti, Dispensa di Storia Economica della Globalizzazione, anno accademico 2009-2010.
12
N.Chomsky, Il golpe silenzioso, a cura di D. Barsamian, Piemme, Milano, 2004, p. 17.
14
Alle origini del cambiamento: dalle politiche keynesiane alla svolta neoliberista
rappresentare una grossa percentuale del Pil. In realtà i paesi europei, sotto il
rassicurante ombrello atomico americano, non raggiunsero mai durante tutta la guerra
fredda, Inghilterra e Francia inclusa, livelli di spesa militare paragonabili alla quota del
reddito americano impiegato nell’esercito tuttavia, anche nel vecchio continente,
soprattutto per le potenze anacronisticamente ancorate al loro passato coloniale,
13
l’esercito finì per erodere una quota consistente del bilancio. L’espressione
“keynesianismo militare” dunque, rende bene l’idea della sinistra metamorfosi che, il
pensiero dell’economista subì nel dopoguerra. Le argomentazioni a favore di una
maggiore spesa militare hanno da sempre non solo natura economica ma anche politica.
Non generano conflitto nØ riducono il campo d’azione dell’iniziativa privata, sono una
fonte di profitti per le imprese, non alterano il mercato del lavoro nØ la struttura di
classe, non modificano la redistribuzione del reddito nazionale e per finire, non
sostanziandosi in beni durevoli (a differenza di quanto accade con le spese sociali)
generano una dinamica espansiva prolungata.
Ad una sostenuta spesa militare, i governi occidentali affiancarono misure
prevalentemente orientate al sostegno della redditività dei beni capitali attraverso
agevolazioni fiscali e appalti pubblici, ignorando questioni concernenti la qualità del
14
lavoro nelle fabbriche e la distribuzione del reddito. Pertanto il keynesianismo
militare non pare sia stata l’unica trasformazione che gli strumenti della Teoria
Generale subirono. L’economista americano Hyman P.Minsky, allievo di Shumpeter e
professore alla Berkeley University, ha sostenuto per anni che la “sintesi keynesiana”
altro non sia stato se non un tentativo di ridurre il ricco apparato analitico della Teoria
Generale ad uno schema, semplicistico, ma collocabile però nell’alveo della tradizione
classica. Una forzatura non certo indolore, che avrebbe finito per ignorare molti aspetti
essenziali del pensiero di Keynes, come la formazione delle decisioni in condizioni
13
La Francia ad esempio è stata ininterrottamente coinvolta in guerra dal 1939 (inizio della seconda
guerra mondiale) fino agli accordi di Ginevra del 1954, approvati dopo la dØbacle di Dien Bien Phu che
segna il suo ritiro dall’area indocinese. Sempre nel 1954 ebbe inizio il conflitto algerino, con un
crescente impegno militare nella regione fino al ritiro dell’esercito nel 1962, dopo la firma degli accordi
di Evian. Quanto all’Inghilterra, il ritiro militare dalle aree periferiche del suo impero avviene soltanto a
partire dalla fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70.
14
H.P.Minsky, Keynes e l’instabilità del capitalismo, introduzione di R.Bellofiore, Bollati Boringhieri,
Torino, aprile 2009, p. 29.
15
Alle origini del cambiamento: dalle politiche keynesiane alla svolta neoliberista
d’incertezza, il carattere ciclico del processo economico ma soprattutto, i legami tra
15
economia finanziaria ed economia reale, di cui parleremo in seguito.
Nel dopoguerra si realizzò un processo di costante espansione, ampiamente sorretto da
investimenti privati, che richiese livelli elevati e crescenti di profitti. Le politiche fiscali
volte a sostenere l’iniziativa privata e la totale assenza di crisi (fino al 1966), permisero
che gli strumenti macroeconomiche evolvessero lungo percorsi in contrasto con il
pensiero di Keynes secondo il quale, se gli investimenti si dimostrano insufficienti a
raggiungere gli obiettivi di piena occupazione, piuttosto che stimolarli attraverso
ulteriori sgravi o sussidi, e’ opportuno sostenerli con “misure per la redistribuzione dei
16
redditi in modo da tendere a elevare la propensione al consumo”.
Pertanto secondo Minsky :
E’ stata così messa in piedi un’economia caratterizzata da profitti e investimenti
assai elevati, nella quale le misure di governo sull’imposizione fiscale e la spesa
pubblica vengono giudicate a seconda del loro influsso sugli investimenti privati
anzichØ del loro influsso sul consumo o del raggiungimento di un’equa
distribuzione del reddito (corsivo mio). La politica per la piena occupazione ha
così assunto una sfumatura conservatrice in quanto è riuscita a conseguire ciò che
17
si può a ragione definire il “socialismo per i ricchi.
Malgrado nel dopoguerra le politiche del laissez-faire fossero ormai un ricordo, il tipo
di regolamentazione macroeconomica che attuarono i governi occidentali, non si può
certo dire fosse quella immaginata da Keynes. Il sistema di imposte e sussidi è stato un
po’ ovunque mirato allo stimolo degli investimenti privati piuttosto che ai consumi e, la
redistribuzione del reddito, certo di gran lunga piø egualitaria di oggi, non si è tuttavia
basata su un incremento del rapporto consumi/reddito pro-capite ma piuttosto e, in
controtendenza, sulla cresciuta del reddito netto delle imprese in rapporto al Pil. Come
è facile immaginare, l’altra faccia di una politica economica mirante a sostenere con
forza l’investimento privato, è la creazione senza tregua di un consumo volubile e
superfluo, sterile e ostentato. L’esito imprevisto delle politiche monetarie e fiscali del
dopoguerra, miranti al sostegno degli investimenti privati a prescindere da un loro
effettivo contributo al miglioramento dell’assetto industriale e sociale, sarebbe stato
15
Ivi. p. 5.
16
J.M.Keynes, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, cit., p. 544.
17
H.P.Minsky, Keynes e l’instabilità del capitalismo, cit., p. 205.
16
Alle origini del cambiamento: dalle politiche keynesiane alla svolta neoliberista
quello di logorare l’economia negli anni ’70 e, insieme all’inflazione dei salari e dei
prezzi, aprire le porte alla controrivoluzione monetarista.
Soffermiamoci su quest’ultimo punto. Immaginiamo per un momento di trovarci in una
realtà prossima allo stato di natura. Emergerebbero alcuni bisogni essenziali legati
all’esigenza di sopravvivenza. Il bisogno di alimentarsi, avere un luogo in cui ripararsi,
provvedere alla propria sicurezza e poi ancora alla propria salute. Immaginiamo adesso
di togliere via lo “stato di natura” come fosse un velo e proiettarci in una qualsiasi
società occidentale del ventunesimo secolo. Questi bisogni resterebbero inalterati nella
loro impellenza. Poniamo che questa società sia stata in effetti capace di soddisfarli
interamente. A partire da questo momento, qualsiasi ulteriore esigenza potrebbe non
avere questo carattere d’urgenza. Così ad esempio sarebbe il bisogno di consumo di
Mercedes o di istruzione universitaria. La collettività potrebbe scegliere di soddisfare il
primo di questi ultimi bisogni piuttosto che il secondo o una combinazione tra i due.
Potrebbe optare per la creazione di lussuose cliniche private o scegliere un sistema
sanitario nazionale di qualità, potrebbe creare macchine sportive o dedicare le proprie
risorse ad una piø efficiente e sicura rete stradale. Da un punto di vista strettamente
economico, non vi sarebbe particolare differenza. Se quella collettività esprime un
ordinamento di preferenza favorevole al consumo di Mercedes, allora produrrà piø
Mercedes e meno università. Se la mano invisibile (posto che esista da qualche parte)
guida le persone verso il consumo di gioielli, tanto peggio per il resto. Tuttavia, se
proviamo ad uscire dalle “fredde” stanze dell’economia e, con un criterio piø etico che
economico, sconfinando nel campo della filosofia morale, giudichiamo secondo un
metro di utilità collettiva, allora, il bisogno di istruzione universitaria, di un sistema
sanitario nazionale appaiano di gran lunga piø utili e meno superflui del bisogno di
consumo di Mercedes, gioielli, auto sportive e così di seguito. Si potrebbe obiettare che
quest’analisi è normativa e non oggettiva e che in quanto tale prescrive piø che
descrivere. Verissimo, d’altronde qualsiasi sistema di valori e perfino i nostri tanto cari
diritti universali appaiono, agli occhi di molte società orientali, meno oggettivi e meno
universali di quanto non sembrino al nostro giudizio. Il punto è proprio questo, quando
una società giunge al bivio (sempre che lo raggiunga) oltre il quale, soddisfatti i bisogni
essenziali occorre decidere sul proprio futuro, da quel momento in poi il sentiero che
intraprenderà nel soddisfacimento dei propri bisogni, è essenzialmente una scelta
17
Alle origini del cambiamento: dalle politiche keynesiane alla svolta neoliberista
prettamente politica, non piø economica. Potrebbe orientarsi verso un consumo
generalizzato di libri di filosofia (come sperava Keynes) o verso il consumo di auto di
lusso ma la scelta è politica. In una concisa frase che sembra quasi un monito, Minsky
osservava che:
Il successo di una strategia di sostegno degli investimenti privati dipende dalla
crescita permanente di bisogni non essenziali che ripaghi le spese di investimento;
esso dipende inoltre dall’adozione di una politiche che sostenga e faccia aumentare
le quasi-rendite dei beni capitali, vale a dire i redditi degli imprenditori e dei
18
rentier.
1.1.1 L’evoluzione del capitalismo dal dopoguerra alla crisi degli anni ’70
Sul fronte dei rapporti industriali, la regolamentazione economica assunse i connotati di
un forte sostegno alla grande impresa oligopolistica. La tendenza verso intensi processi
di concentrazione del capitale industriale e finanziario, da sempre innati nelle economie
capitalistiche, approdarono nel dopoguerra verso incipienti manifestazioni di
gigantismo industriale. Negli Stati Uniti degli anni ’50, meno di 500 società
possedevano circa tre quarti del patrimonio industriale nazionale, coprivano il 40% dei
profitti complessivi nazionali e sostenevano quasi la metà della produzione industriale
19
del paese. Così si presentava il volto del capitalismo in quegli anni e, all’impresa
fordista, l’organizzazione scientifica del lavoro di Frederick Taylor forniva gli
strumenti per un impiego razionale ed efficiente della massa operaia, al prezzo però non
irrisorio di un’attività lavorativa alienante e ripetitiva, che finiva per istupidire l’operaio
dentro una enorme catena di montaggio pretendendo disciplina e adattamento.
Ad ogni modo, il sogno di un capitalismo democratico fondato sui consumi di massa e
su una robusta classe media, comportava sia la cooptazione delle forze sindacali che
videro riconosciuto un ruolo non marginale nella contrattazione collettiva oltre che un
forte potere politico (soprattutto in Europa) su questioni inerenti la previdenza,
l’assistenza sanitaria ed il salario minimo, sia il controllo dall’ “alto” della concorrenza.
Ne derivò lo sviluppo di consistenti economie di scala, pervasive politiche di marketing
che iniziavano ad esportare nel mondo l’armoniosa immagine del sogno americano e la
pianificazione con largo anticipo dei livelli di produzione ad un prezzo stabilito. Non si
18
Ivi. p. 214.
19
D.Preti, Dispensa di Storia Economica della Globalizzazione, cit.
18
Alle origini del cambiamento: dalle politiche keynesiane alla svolta neoliberista
poteva certo rischiare di scatenare una inutile quanto deleteria guerra di concorrenza tra
i grandi oligopoli!
Per ciò che concerne la distribuzione dei redditi, in Europa in particolare, il modello
distributivo socialdemocratico si basava su due importanti elementi. Il primo di questi
consistette nell’ancorare il potere d’acquisto dei salari alla crescita della produttività
piuttosto che far dipendere i salari dei lavoratori dalle incerte oscillazioni del mercato
nel determinare la domanda e l’offerta. Ciò permise di difendere il potere d’acquisto e
stimolare quei consumi di massa vitali per il buon funzionamento della produzione in
serie, senza innescare spinte inflazionistiche. La seconda componente, come abbiamo
già visto, è stata la politica fiscale che, basata su imposte sul reddito progressive, ha
permesso la fornitura di servizi sociali essenziali, attenuando le disuguaglianze di
20
reddito.
Questo modello di sviluppo economico e con esso il sistema monetario internazionale,
iniziarono a vacillare a partire dalla seconda metà degli anni ’60, per entrare
definitivamente in crisi nel corso del decennio successivo. La guerra nel Vietnam e la
politica espansiva degli Stati Uniti, aumentarono vistosamente il numero di dollari che
inondarono le economie europee, superando di gran lunga la copertura aurea ed il 15
agosto del 1971, il presidente Nixon annunciò in un discorso alla nazione, la fine della
convertibilità. Si aprì un periodo di gravi incertezze sul piano internazionale, che gli
shocks petroliferi di quegli anni contribuirono ad acuire. Nel frattempo la spallata
sindacale del ’68, l’aumento dei prezzi del petrolio ed il ricorso al signoraggio da parte
del governo americano innescarono una spirale inflazione-recessione irreversibile.
L’architettura finanziaria nata a Bretton Woods crollò. L’oro fu abbandonato come base
monetaria e le imprese iniziarono ad esercitare crescenti pressioni per svincolare i
flussi di capitale da ogni controllo statale al fine di recuperare quei margini di
competitività nei confronti delle imprese europee e giapponesi, che si stavano
lentamente erodendo.
Le crisi petrolifere alterarono oltretutto l’equilibrio della finanza mondiale generando
un ingente flusso di capitali verso i paesi produttori di petrolio. Basti pensare che nel
biennio 1973-1974, i redditi dei paesi OPEC passarono da 33 miliardi di dollari a 108
20
S.Andriani, L’ascesa della Finanza. Risparmio, banche, assicurazioni: i nuovi assetti dell’economia
mondiale, Donzelli Editore, Roma, 2006, p. 84.
19
Alle origini del cambiamento: dalle politiche keynesiane alla svolta neoliberista
21
miliardi di dollari, permettendo nel breve arco di qualche anno di trasformare
l’eccedenza di dollari in carenza. I paesi produttori però, non disponendo di capacità
sufficienti ad assorbire i nuovi afflussi, reindirizzarono i loro investimenti negli
euromercati. Il compito di riciclare i petrodollari fu soprattutto condotto dalle grandi
banche internazionali, prevalentemente anglosassoni, che avviarono una politica dal
credito facile verso le economie emergenti, con quote di flussi di capitale maggiori in
America Latina. Mentre l’economia rallentava e i petrodollari riaffluivano nei paesi alla
periferia del sistema passando per i “forzieri” delle banche internazionali, le Banche
centrali dei PVS sollecitavano le loro economie stagnanti con politiche monetarie
espansive. Ne derivò una situazione di alta inflazione e bassi tassi di interesse reali, che
promosse una corsa all’indebitamento. La corsa si interruppe bruscamente con la
strozzatura monetaria operata da Paul Volcker a capo della Fed a partire dal 1979.
L’inflazione precipitò, i tassi di interesse nominali e reali lievitarono verso soglie
storiche provocando un forte rallentamento dell’economia americana e un vero e
proprio sisma nelle economie fortemente indebitate dei paesi poveri. Con la
dichiarazione di moratoria sul pagamento del servizio del debito, il Messico inaugurò
una crisi finanziaria che avrebbe finito per travolgere i PVS e le loro fragili economie.
1.1.2 Ristrutturazione economica e delocalizzazione industriale
Seguì, sul piano delle industrie nazionali, un’ondata di delocalizzazione iniziata a
partire dalla metà degli anni ’70 che investì ogni settore economico e od ogni area
geografica generando un processo, ancora embrionale in quel decennio, di
industrializzazione della periferia del sistema.
La delocalizzazione avrebbe agevolmente posto fine alla conflittualità operaia degli
anni ’70, promosso la flessibilità del lavoro, ridimensionato vistosamente la forza dei
sindacati e, di conseguenza, avviato un lento ma inesorabile declino dello stato sociale.
Basti ricordare che “dal 1969 al 1983, il valore totale delle importazioni delle fabbriche
americane all’estero salì da 1,8 miliardi di dollari a quasi 22 miliardi depurati
22
dall’inflazione.”.
Quest’analisi porta pertanto a ritenere inadeguata l’espressione “post-fordismo” cui
oggi si fa frequentemente ricorso. In effetti la nostra ristrutturazione economica è
21
D.Preti, Dispensa di Storia Economica della Globalizzazione, cit.
22
R.B.Reich, Supercapitalismo,Fazi editore, Roma, 2008, p. 73.
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Alle origini del cambiamento: dalle politiche keynesiane alla svolta neoliberista
coincisa esattamente con una vistosa accelerazione dell’industrializzazione in molte
aree periferiche del pianeta, con l’ “esportazione” di un modello di produzione
tipicamente fordista e riproponendo sul posto condizioni economiche e sociali che
l’Europa e gli Stati Uniti si apprestavano a concludere.
Se sul finire del XIX il capitalismo era stato dominato dal capitale finanziario piuttosto
che dal capitale industriale, dopo la seconda guerra mondiale, come osservava Paul
Sweezy, quel tipo di capitalismo sembrava definitivamente superato e ad esso
subentrava un capitalismo statalista dove lo stato e le industrie si assumevano il
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compito di intervenire attivamente nell’economia. Sweezy sottovalutò tuttavia che
quel modello di capitalismo post-guerra era stato semplicemente l’espressione della
risposta che il capitale diede alla crisi del ’29 e lo strumento piø efficace per il
perseguimento degli obiettivi imperanti, posti dal clima creatosi con la guerra fredda.
Quel capitalismo statalista, che a Sweezy apparve come l’ultimo stadio dello sviluppo
economico, avrebbe superato la crisi degli anni ’70 con il rilancio della globalizzazione
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dei mercati e della finanziarizzazione dell’economia.
1.2 La cesura neoliberista: le nuove politiche economiche
Gli anni ’80 segnano un profondo cambiamento nelle politiche economiche delle
economie occidentali, con la vittoria dei conservatori nel Regno Unito, guidati da
Margaret Thatcher e dei repubblicani di Ronald Reagan negli Stati Uniti. La svolta
neoliberista, che come vedremo era stata sperimentata qualche anno addietro anche in
Cile, si basava fondamentalmente su di una vistosa riduzione della pressione fiscale,
seguita da una riduzione della spesa pubblica, una riduzione della regolazione
economica e un rigoroso controllo quantitativo della moneta (secondo le prescrizioni
monetariste di Milton Friedman).
Nello stesso periodo in cui il keynesianismo prendeva corpo nelle politiche economiche
del dopoguerra, a Chicago l’università d’economia iniziava a produrre ricerche, analisi,
scritti, polemiche ad opera di pensatori quali Friedrich Von Hayek, Ludwig Von Mises,
Milton Friedman, che finirono per minare alla base l’impianto macroeconomico
keynesiano, nel corso degli anni ’70. Gli strumenti analitici che sorsero durante quei
23
P.M.Sweezy, The Present as History, Montly Review Press, New York, 1953, cit. in S.Andriani,
L’ascesa della Finanza, op. cit.
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S.Andriani, L’ascesa della Finanza. Risparmio, banche, assicurazioni: i nuovi assetti dell’economia
mondiale, cit., pp. 19-20.
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Alle origini del cambiamento: dalle politiche keynesiane alla svolta neoliberista
ferventi anni di crisi, sarebbero sostanzialmente rimasti immutati fino ai nostri giorni e,
avrebbero in seguito costituito il presupposto teorico delle politiche proposte tanto dai
governi occidentali quanto dalle istituzioni finanziarie internazionali.
Procediamo con ordine. Milton Friedman è noto per aver riproposto, arricchendola di
nuovi elementi, la teoria quantitativa della moneta. A cavallo tra gli anni ’60 e gli anni
’70, questa dottrina è stata ripresa sotto le rinnovate spoglie di dottrina monetarista e,
per un breve arco di tempo, ha perfino goduto di un ingresso trionfale tra le politiche
della Fed (come base teorica a sostegno della stretta monetaria del 1979). Senza entrare
nei dettagli, la dottrina afferma che l’inflazione è un mero fenomeno monetario. Ne
deriva che una sana gestione macroeconomica richiede un rigoroso controllo della
massa monetaria (offerta di moneta) circolante, piuttosto che dei tassi di interesse.
Nello stesso arco di tempo, in simbiosi con la dottrina monetarista, nacque la Supply-
side economy che, come si evince dall’espressione, spostava l’enfasi dal sostegno alla
domanda verso lo stimolo dell’offerta aggregata e sembrò fornire gli strumenti
necessari in risposta all’incapacità delle politiche keynesiane di stabilizzare le
economie colpite dalla stagflazione degli anni ’70. Il sostegno dell’offerta aggregata,
ottenuto attraverso riduzioni fiscali, deregolamentazioni economiche e privatizzazioni,
avrebbero consentito di raggiungere una maggiore efficienza complessiva del sistema,
aumentare il livello di produzione aggregata, contenere le spinte inflazionistiche
generando un maggior benessere complessivo che sarebbe ricaduto anche sui piø poveri
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(la cosiddetta tricke-down economy).
In queste analisi, mentre la produzione (l’offerta) diviene la componente essenziale
delle teorie, il consumo (la domanda) scivola quasi in penombra. Sul piano strettamente
macroeconomico sorge quindi l’esigenza di riallocare le risorse complessive, dal
consumo agli investimenti privati e, soprattutto, dagli investimenti pubblici agli
investimenti privati. Minsky risponderebbe che una tale scelta potrebbe facilmente
degenerare in un apprezzamento del valore degli assets e produrre pertanto assets
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inflation o piø comunemente una bolla speculativa. Ed è proprio su questo punto,
analizzato meglio nel prossimo capitolo, che l’impianto analitico della Supply-side
economy sembra incrinarsi.
25
lett.“Sgocciolamento verso il basso”: goccia dopo goccia, la crescita economica avrebbe coinvolto
anche gli strati piø poveri della collettività.
26
Cfr H.P.Minsky, Keynes e l’instabilità del capitalismo, cit.
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